Proprietà e capitale (2)

Abbiamo già pubblicato (cfr. Prometeo n. 10)

Al fine di vagliare esattamente la tradizionale formula che definisce il socialismo come abolizione della proprietà privata, si richiamano i concetti marxisti sul succedersi delle rivoluzioni di classe quali conseguenze del contrasto tra le nuove forze ed esigenze della produzione e i vecchi rapporti di proprietà. Il capitalismo è il più recente dei regimi di classe, fondati su istituti di proprietà individuale che avevano diversi oggetti a seconda delle diverse caratteristiche della organizzazione produttiva e della tecnica del lavoro.

2. L'avvento del capitalismo e i rapporti di proprietà.

Il sorgere dell'economia capitalistica nei suoi effetti sui rapporti di proprietà si presenta non come una instaurazione, ma come una larghissima abolizione di diritti di proprietà privata. La tesi così formulata non solo non deve apparire strana ma nemmeno nuova, essendo del tutto conforme sostanzialmente e formalmente alla esposizione di Marx.

Nei riguardi dei signori terrieri feudali la rivoluzione borghese consistette in una radicale abolizione di privilegi ma non in una soppressione del diritto di proprietà sulla terra. Non si deve qui pensare alla rivoluzione nel senso di breve periodo di lotta, alle misure contro ribelli ed emigrati, e nemmeno alle posteriori misure di soppressione di privilegi sulle terre di enti di culto, ma riferirsi al contenuto economico sociale della grande trasformazione, che nel suo svolgimento comincia assai prima e finisce molto dopo le classiche date di insurrezioni, proclamazioni, e promulgazioni di nuovi statuti.

L'avvento del capitalismo ha il carattere di una distruzione di diritti di proprietà nei riguardi della numerosa classe dei piccoli produttori artigiani ed in largo campo e soprattutto in date nazioni anche a carico dei contadini proprietari lavoratori.

La storia della nascita del capitalismo e della accumulazione primitiva coincide colla storia della feroce, disumana espropriazione dei produttori ed è consegnata nelle pagine più scultoree del Capitale.

Il capitolo conclusivo del primo libro, come altre fondamentali scritture del marxismo, presenta il futuro abbattimento del capitalismo come la espropriazione degli espropriatori di allora, e perfino — ma di ciò diremo nella parte ulteriore di questo scritto — come una rivendicazione di quella distrutta e calpestata "proprietà".

Perché tutto questo sia chiaramente inteso occorre appunto seguire l'indagine nella corretta applicazione del nostro metodo, e non perdere mai di vista le relazioni che corrono tra le formulazioni del linguaggio o del diritto corrente, o quelle specifiche di noi socialisti marxisti.

La spiegazione dell'instaurarsi del capitalismo nel campo della tecnica produttiva si ricollega ai molteplici perfezionamenti della applicazione dell'opera umana alle materie lavorate, si inizia colle prime innovazioni tecnologiche nate sul banco del paziente e geniale artigiano isolato, percorre un formidabile ciclo col sorgere dei primi opifici, manifatturieri all'inizio, poi basati sulle macchine operatrici che sostituiscono la mano dell'operaio, poi ancora sull'impiego delle grandi forze meccaniche motrici.

Modernamente il capitalismo ci si presenta come il formidabile complesso di impianti, costruzioni, opere, macchinari, di cui la tecnica ha ricoperto il suolo dei paesi più avanzati, e perciò riesce ovvio definire il sistema capitalistico come quello della proprietà e del monopolio di questi colossali moderni mezzi di produzione, il che è esatto solo in parte.

Le condizioni tecniche della nuova economia consistono in nuovi procedimenti basati sulla differenziazione degli atti lavorativi e sulla divisione del lavoro, ma storicamente ancora prima di questo fenomeno abbiamo quello più semplice dell'avvicinamento e riunione in un luogo comune di lavoro di molti lavoratori, che seguitano ad operare con la stessa tecnica e usando gli stessi strumenti semplici che usavano quando erano isolati ed autonomi.

Il carattere veramente distintivo della innovazione non sta dunque nel fatto che sia apparso un possessore o conquistatore di nuovi mezzi o grandi meccanismi, i quali, producendo i manufatti più facilmente, soppiantino la produzione artigiana tradizionale. Questi grandi impianti vengono dopo, poiché per la semplice cooperazione, come dice Marx, ossia raggruppamento di molti lavoratori, basta un locale anche primitivo che può essere facilmente tolto a nolo dal "padrone" — ed anzi nello sweating system (lavoro a domicilio) i lavoratori rimangono nelle loro case. Il carattere distintivo è dunque altrove, esso è un carattere negativo, e pertanto distruttivo e rivoluzionario. Ai lavoratori è stata tolta la possibilità di possedere per loro conto le materie prime, gli arnesi di lavoro, e quindi di restare possessori di quanto avranno prodotto con l'opera loro, liberi di consumarlo o venderlo comunque. Per riconoscere dunque una prima economia capitalistica in funzione, basta dunque a noi constatare che vi sono masse di produttori artigiani che hanno perduta la possibilità di procurarsi materie e strumenti — e, come condizione complementare, che nelle mani di nuovi elementi economici, i capitalisti, si sono raccolti mezzi di acquisto in volumi notevoli, che mettono questi in grado da un lato di accaparrare le materie e gli arnesi di lavoro e dall'altro di acquistare la forza lavoro degli artigiani divenuti salariati, restando assoluti possessori e proprietari di tutto il prodotto del lavoro.

A questa seconda condizione corrisponde il fatto della primitiva accumulazione del capitale, di cui l'origine è studiata in altri contributi alla conoscenza del marxismo, e che risale a molteplici fattori storici ed economici.

Che il solo avvicinamento degli operai basti a rendere superiore il nuovo sistema e lo conduca a soppiantare il vecchio, è spiegato dal diminuito onere dei trasporti e rifornimenti e dalla migliore utilizzazione del tempo che i produttori dedicano alle fasi, tuttora tecnologicamente assai semplici, della lavorazione. Abbiamo un primo superamento in rendimento dell'artigianato a botteghe ed officine isolate. Ma questo viene definitivamente battuto cogli ulteriori sviluppi dovuti alla divisione del lavoro. Non è più il singolo artefice, aiutato da uno o due garzoni, che allestisce il prodotto manifatturato, ma questo sorge da interventi successivi di lavoratori di diverso mestiere, ognuno dei quali da solo non saprebbe né potrebbe farlo. Più avanti ancora molte delle più difficili operazioni prima fatte a mano dopo un lungo tirocinio vengono effettuate da una macchina, e lo stesso risultato produttivo è ottenuto da molto minori sforzi di lavoro, nel senso fisico e mentale, dell'operatore.

Seguendo questo processo vediamo ingigantire la massa di impianti della fabbrica, che naturalmente non appartengono giuridicamente al lavoratore, come già non gli appartenevano più in generale nemmeno i semplici utensili manuali nello stadio iniziale. Ma la appartenenza giuridica di questi grossi impianti al capitalista e datore di lavoro non è una condizione necessaria; lo abbiamo provato ricordando che già prima che essi fossero apparsi avevamo nella prima manifattura un capitalismo economico e sociale vero e proprio, e ci restano da esaminare molti casi in cui nella economia moderna gli impianti produttivi non sono di proprietà giuridica del proprietario dell'azienda. Basti per ora ricordare affitti, concessioni, appalti e così via, nell'industria, e nell'agricoltura la grande affittanza capitalistica.

La vera circostanza che ci fa constatare l'avvento del capitalismo sta dunque oltre che nella accumulazione primitiva nella "violenta separazione del produttore dagli strumenti e dai prodotti del suo lavoro".

Il capitalismo, economicamente e socialmente, appare come una distruzione della facoltà di appropriazione dei prodotti da parte dei lavoratori, ed una appropriazione di essi da parte dei capitalisti.

Con la perdita di ogni diritto sui beni prodotti, ovviamente il lavoratore perse tutti i diritti sugli attrezzi, sulle materie prime, sul luogo di lavoro. Tali diritti erano un rapporto di proprietà individuale che il capitalismo ha distrutto, per sostituirvi un nuovo diritto di appropriazione, di proprietà, che necessariamente è un diritto sui prodotti del lavoro, ma non è altrettanto necessariamente un diritto sui mezzi di produzione. La titolarità giuridica di questi può anche mutare senza che cessi il carattere capitalistico dell'azienda. Di più il nuovo tipo di appropriazione non è necessariamente, ossia perché si abbia diritto in lingua marxista di parlare di capitalismo, un diritto a tipo individuale e personale, come lo era invece nella economia artigiana, che sorpassava di rado i limiti familiari.

Il capitalismo, in Marx — poiché non facciamo che esporre la dottrina quale sempre è stata professata — non solo si instaura con una espropriazione, ma fonda una economia e quindi un tipo di proprietà sociale. Potevamo parlare classicamente di proprietà personale quando era dato riunire nella titolarità di uno solo tutti gli atti produttivi ed economici, ma quando il lavoro diviene funzione collettiva ed associata di molti produttori — carattere questo fondamentale e indispensabile del capitalismo — la proprietà su tutta la nuova azienda è un fatto di portata e di ordine sociale, anche se la intestazione giuridica menziona una sola persona.

Questo concetto, essenziale nel marxismo, si svolge direttamente in quello di lotta di classe e di antagonismo di classe insito nel sistema capitalistico. L'appropriazione dei prodotti da parte del datore di lavoro, che ha di fronte a sé non più schiavi e servi ma lavoratori salariati "liberi", è un rapporto spostato sul piano sociale che non interessa più solo l'unico padrone e i cento operai, ma tutta la classe lavoratrice contrapposta al nuovo sistema di dominatori, e alla forza politica che esso ha fondata col nuovo tipo di Stato. Questa funzione sociale si rende chiara nella legge marxista della accumulazione e della riproduzione progressiva del capitale. Il padrone di schiavi e il feudale signore di terre traevano dal sopralavoro fornito dai loro dipendenti il loro reddito personale, ma potevano benissimo consumarlo tutto senza che il sistema economico cessasse di funzionare alla scala sociale. La parte dei prodotti del loro lavoro lasciata agli schiavi e ai servi bastava a farli sopravvivere e perpetuare il sistema. Perciò il diritto di proprietà del padrone di schiavi e di servi della gleba è un vero diritto individuale. Non meno individuale è quello del contadino libero e dell'artigiano, che non rendono sopralavoro a nessuno (non è qui ancora quistione del fisco — e in quei regimi lo stato era "a buon mercato") e possono consumare tutto il frutto del loro lavoro, che coincide con quello del loro ristretto possesso su poca terra e sulla piccola bottega (intesa come azienda e non come locale). Il capitalista trae bensì un profitto dal sopralavoro non pagato ai suoi operai, cui corrisponde solo quanto basta per vivere, ma il tratto fondamentale della nuova economia non è che egli, in teoria e secondo la legge scritta, può consumare tutto il profitto personalmente; è invece il fatto generale e sociale che i capitalisti devono riservare una parte sempre più grande del profitto ai nuovi investimenti, alla riproduzione del capitale. Questo fatto nuovo e fondamentale ha più importanza di quello del profitto consumato da chi non lavora. Se questo rapporto è più suggestivo e si è sempre prestato di più alla propaganda di ritorsione sul terreno giuridico o morale contro gli apologisti del regime borghese, la legge fondamentale del capitalismo è per noi l'altra, ossia la destinazione di una gran parte del profitto alla accumulazione del capitale.

Caratteristiche distintive della comparsa dell'economia capitalista sono quindi l'accumulazione, in alcune mani di singoli, di masse di mezzi di acquisto con cui si possono avere sul mercato materie da lavorare e strumenti, e la soppressione per larghi strati di produttori autonomi della possibilità di possedere materie, strumenti e prodotti del lavoro.

Nel nostro linguaggio marxista ciò vale a spiegare la genesi del capitalista industriale da un lato, e dall'altro delle masse di lavoratori salariati nullatenenti. E ciò, siamo soliti a dire, è stato il risultato di una rivoluzione economica sociale e politica.

Non pretendiamo tuttavia che i borghesi e i neo-capitalisti abbiano realizzato il processo conquistando il potere nella guerra civile, e poi promulgando una legge che diceva: è vietato a chi non appartiene alla vincitrice classe capitalistica di comprare materie prime e arnesi e macchine e di vendere prodotti manufatti. La cosa è andata ben altrimenti. Oggi ancora non è vietato dalla legge fare l'artigiano, non solo, ma oggi, mentre l'accumulazione capitalistica accelera sotto i nostri occhi il suo ritmo veramente infernale, vediamo fare a gara nell'apologia della economia artigiana fascisti, socialisti nazionali e socialcristiani, a coro con un vecchio béguin di mazziniani. E altrettanto va detto per il produttore agricolo autonomo proprietario del suo lotto di terra.

Il vero processo dell'accumulazione primitiva è stato altro, e lo si può presentare col linguaggio della filosofia e dell'etica corrente, con quello del diritto positivo, con quello del marxismo ben altrimenti calzante.

La proprietà come diritto a disporre del prodotto dell'opera propria, ai primi albori del capitalismo era ancora difesa da ideologi conservatori e da teologi, satireggiati da Marx nel loro imbarazzo dinanzi al passaggio della proprietà nelle mani di chi non aveva fatto nulla. Comunque tutte le loro teorie sulla giustificazione del profitto capitalistico da risparmio, astinenza, lavoro personale precedente, non riuscirono a moralizzare il fatto che il fabbricatore di spilli non può intascarne uno nell'uscire dall'officina senza rendersi reo di furto qualificato.

Nel sistema giuridico contingente il rapporto di proprietà su una bottega, una fabbrica, uno stock di materie da lavorare e di prodotti, da parte di una persona singola, non era escluso né dai vecchi codici del regime feudale né da quelli che elaborò la rivoluzione borghese.

Il rapporto economico sociale è messo però in chiaro alla luce del marxismo dalla considerazione del valore del prodotto in rapporto alla quantità di forza-lavoro necessaria a realizzarlo. Se nella manifattura quel prodotto si ottiene in quattro ore mentre l'artigiano lo ottiene in otto, l'artigiano rivestito del suo pieno diritto di proprietà potrà portarlo al mercato, ma ne ritirerà un prezzo ridotto alla metà, col quale non potrà acquistare le sussistenze per la sua giornata. Non potendo fisicamente lavorare sedici ore al giorno, per pareggiare il suo bilancio sarà costretto ad accettare le condizioni del capitalista, ossia lavorare, poniamo, dodici ore per lui e lasciargli i prodotti, ricevendo in salario l'equivalente di sei ore di lavoro, con le quali, sia pure più miseramente, potrà campare.

Questo trapasso brutale e feroce contiene in sé la condizione necessaria per il progresso della tecnica produttiva: solo sottraendo all'artigiano asservito al capitale quel margine di valore di sua forza di lavoro, si possono creare le basi sociali della accumulazione del capitale, fatto economico che accompagna quello tecnico del diffondersi di impianti e mezzi produttivi caratteristici della nuova epoca scientifica e meccanica.

Perché adunque la affermazione del nuovo sistema di produzione e di appropriazione dei frutti del lavoro dovette, per trionfare, spezzare determinati ostacoli nelle forme della produzione, ossia nei rapporti di proprietà del vecchio regime? Perché esistevano una serie di sanzioni e di norme limitative contraddittorie alle nuove esigenze, ossia alla libertà di movimento dei capitalisti, ed alla disponibilità di una massa di offerenti di lavoro salariato. Da un lato il monopolio del potere statale da parte degli ordini dei nobili e degli ecclesiastici poneva i primi accumulatori di capitale, mercanti usurai o banchieri, al rischio di vessazioni continue e talvolta di spoliazioni, dall'altro le leggi e i regolamenti corporativi lasciavano agli organismi dei maestri artigiani delle città dei privilegi di monopolio sulla produzione di dati articoli manufatti e quindi sul loro smercio in dati territori. E le masse di lavoratori dell'industria non si sarebbero potute formare se non svincolando dalla gleba i servi e dalle botteghe i garzoni e i rovinati padroni artigiani.

La rivoluzione non condusse dunque ad un nuovo codice positivo della proprietà, ma fu indispensabile per abolire le vecchie leggi feudali che inquadravano i rapporti di produzione e di commercio nelle campagne e nelle città.

Considerando il sistema capitalistico come contrapposto al regime feudale sulle cui rovine esso sorse, non dobbiamo vedere come sua linea caratteristica la fondazione di un diritto di proprietà nuovo sulla macchina, la fabbrica, la ferrovia, la canalizzazione o altro, attribuito alla persona fisica o giuridica.

Dobbiamo vedere invece chiaramente quali sono le linee discriminanti, i veri connotati della economia capitalistica, perché altrimenti non potremo seguire sicuramente il processo della sua evoluzione e giudicare i caratteri del suo superamento.

Rispetto all'evolversi dei rapporti di proprietà, e restando per ora nel campo del diritto di proprietà sulle cose mobili, in quanto diremo subito dopo della proprietà del suolo e degli impianti stabili, le caratteristiche essenziali e necessarie del capitalismo sono le seguenti:

Primo: la esistenza di una economia di mercato, per cui i lavoratori devono fare acquisto di tutti i mezzi di sussistenza, nel senso generale.

Secondo: la impossibilità per i lavoratori di appropriarsi e di recare direttamente sul mercato le cose mobili costituite dai prodotti del loro lavoro, ossia il divieto della proprietà personale del lavoratore sul prodotto.

Terzo: la corresponsione ai lavoratori di mezzi di acquisto e più in generale di beni e servizi in una misura inferiore al valore aggiunto da essi ai prodotti e l'investimento di una gran parte di tale margine in nuovi impianti (accumulazione).

Sulla scorta di questi criteri di base occorre cercare se la titolarità personale della proprietà sulla fabbrica e sugli impianti produttivi sia indispensabile per la esistenza del capitalismo, e se non possa esservi non solo una economia puramente capitalistica senza una tale proprietà, ma perfino se in date fasi non convenga al capitalismo dissimularla sotto altre forme.

Ad una tale indagine andrà premessa qualche notevole considerazione sulla importanza economica e la evoluzione giuridica del diritto di proprietà sul suolo, il sottosuolo e il soprasuolo da parte di persone e ditte private nell'epoca contemporanea.

3. I termini della rivendicazione socialista.

Prima di addentrarci nel tema di questa ricerca, che riguarda gli istituti giuridici della proprietà che accompagnano l'economia capitalistica nel suo corso storico, è tuttavia necessario ricordare ancora quali sono sempre stati i veri termini della grande rivendicazione socialista.

Questa consiste storicamente, lasciando da parte gli accenni letterari e filosofici di comunismo sui beni che si ebbero in regimi preborghesi fin dalla antichità e che anche si riconnettevano a speciali riflessi dei rivolgimenti di classe, nel movimento che investe fin dal suo sorgere i cardini sociali del regime e del sistema capitalistico. Movimento di critica e di combattimento la cui forma completa non è separabile dall'effettivo intervento nelle lotte sociali della classe operaia salariata e dalla sua organizzazione in partito di classe internazionale facente propria la dottrina del Manifesto dei comunisti e di Marx.

La rivendicazione socialista, milioni di volte enunciata nelle pagine di volumi di teoria o nelle modeste parole di discorsi e giornaletti di propaganda, non può essere viva e reale se non si applica il metodo dialettico del marxismo, al tempo stesso nella sua semplice immediatezza e nella possente sua profondità.

Non basta il grido di protesta contro le assurdità, le ingiustizie, le disuguaglianze, le infamie di cui il regime capitalistico borghese è materiato, a costruire la rivendicazione socialista proletaria. E in tal senso insufficienti furono le innumeri posizioni pseudo-socialiste o semisocialiste di filantropi umanitari di utopisti di libertari di apostoli più o meno eccitati da nuove etiche e mistiche sociali.

Il grido del proletariato e del marxismo al regime borghese non è un "Vade retro Satana!". E' al tempo istesso un benvenuto ed in data epoca storica una offerta di alleanza, ed una dichiarazione di guerra ed un annunzio di distruzione. Posizione incomprensibile a tutti quelli che fondano la spiegazione della storia è delle sue lotte su credenze religiose e su sistemi morali, come in genere su metodi non scientifici ed anche inconsciamente metafisici, cercando in ogni vicenda e in ogni stadio della storia della società umana il gioco di criteri fissi debitamente maiuscolati come il Bene il Male la Giustizia la Violenza la Libertà l'Autorità...

Delle caratteristiche di organizzazione sociale che il capitalismo ha col suo avvento attuate, alcune sono acquisizioni che il socialismo proletario accetta non solo, ma senza delle quali non potrebbe esistere, altre sono forme e strutture che, dopo il loro espandersi, si prefigge di annientare.

Le sue rivendicazioni vanno quindi definite in rapporto ai vari punti nei quali abbiamo riordinato gli elementi tipici, i caratteri distintivi del capitalismo al momento della sua vittoria. Questa è una rivoluzione, ed è una prima premessa storica generale all'avvento del regime per cui i socialisti lotteranno. La quasi immediata presa di posizione anticapitalista, per quanto radicale e cruda, non ha il carattere di una restaurazione, apologetica di condizioni e forme precapitalistiche generali. Occorre oggi ristabilire chiaramente tutto questo; sebbene sia più di un secolo che i reiterati sforzi della nostra scuola tendano allo stesso fine, in quanto ad ogni passo della storia della lotta di classe pericolose deviazioni hanno dato luogo a movimenti e a dottrine che falsificavano importantissime posizioni del socialismo rivoluzionario.

Nel capitolo precedente abbiamo dapprima richiamate le note caratteristiche tecnico-organizzative della produzione capitalistica contrapposta a quella artigiana e feudale. Nel loro complesso tali caratteristiche sono conservate e integralmente rivendicate dal movimento socialista. La collaborazione di numerosi operai nella produzione di uno stesso tipo di oggetto, la successiva divisione del lavoro, ossia lo smistamento dei lavoratori tra diverse e successive fasi della manipolazione che conduce a rendere fini o uno stesso prodotto, l'introduzione nella tecnica produttiva di tutte le risorse della scienza applicata con le macchine motrici ed operatrici, sono apporti dell'epoca capitalistica ai quali non si propone certo di rinunziare e che saranno anzi la base della nuova organizzazione socialista. Non meno importante e irrevocabile acquisizione è lo svincolo dei processi tecnici dal mistero, dal segreto e dalle esclusività corporative, base sicura, nella visione determinista, del difficile sviluppo della scienza dalle pastoie antiche di stregonerie, religioni, filosofismi. Resta sempre fondamentale la dimostrazione che la borghesia ha attuato questi apporti con metodi sopraffattori e barbari e precipitando le masse produttrici nella miseria e nella schiavitù del salariato. Ma non si propone certo con questo il ritorno alla libera produzione dell'artigiano autonomo.

Nel momento in cui questo, ed anche il piccolo contadino, veniva spogliato di ogni possesso e ridotto a operaio salariato, si aveva il suo immiserimento e si superavano le sue resistenze con la violenza. Ma i nuovi criteri di organizzazione dello sforzo produttivo permettevano di esaltarne il risultato e il rendimento nel senso sociale. Malgrado i prelievi del padrone industriale, alla scala generale le masse venivano messe in grado di soddisfare collo stesso tempo di lavoro nuovi e più svariati bisogni. Prima ancora di considerare gli enormi vantaggi nella resa produttiva a cui condussero la divisione del lavoro e il macchinismo, noi riteniamo un vantaggio definitivo e da cui non si postula di recedere la semplice economia di trasporti di operazioni commerciali e di gestione a cui conduce la manifattura rispetto alle semplici botteghe. Ogni artigiano era il contabile il cassiere il piazzista il commesso di sé medesimo con enorme sciupio di tempo di lavoro, mentre nel grande opificio un solo impiegato fa questo stesso servizio ogni cento operai. Ogni proposta di nuovo sminuzzamene delle forze produttive concentrate dal capitale è per i socialisti reazionaria. E parliamo di forze produttive non solo a proposito degli uomini addetti al lavoro di cui ora si è discorso, ma naturalmente delle masse di materie da lavorare e lavorate, degli strumenti del lavoro, e di tutti i complessi impianti moderni utili alla produzione in massa ed in serie.

Non sembri un digressione il rilevare che l'accettazione nella rivendicazione socialista del progressivo concentrarsi degli impianti e delle sedi di lavoro come contrapposto alla economia a piccole aziende, non significa affatto accettazione di quella conseguenza del sistema capitalistico che consiste nella accelerata industrializzazione tecnica di date zone lasciandone altre in condizioni retrograde, e ciò tanto come rapporto di paese a paese che come rapporto di città a campagna. Tale rapporto sussiste storicamente finché il regime borghese non ha esaurita la sua fase di spoliazione e di riduzione a salariati nullatenenti dei vecchi ceti produttivi. La rivendicazione socialista dialetticamente non può non far leva sulla funzione rivoluzionaria dirigente degli operai che il capitalismo ha urbanizzato in masse imponenti, ma tende alla diffusione in tutti i territori delle moderne risorse tecniche e della moderna vita più ricca di manifestazioni, come enunciato fin dal Manifesto, punto 9 del programma immediato: "misure per togliere gradatamente le differenze tra città e campagna" - senza contrasto con tutte le altre misure di carattere nettamente accentratore nel senso organizzativo. Lo stesso criterio guida la presa di posizione socialista a proposito dei rapporti tra metropoli e colonie, che si vogliono sottrarre allo sfruttamento delle prime, senza dimenticare che solo il capitalismo e i suoi sviluppi potevano accelerare di secoli e secoli questo risultato, pur avendo in questo campo superato tutti i limiti nell'impiego dei metodi spietati di conquista.

Ereditato dunque dalla rivoluzione capitalista l'enorme sviluppo delle forze della produzione, i socialisti si propongono di sconvolgere il corrispondente apparato di forme, di rapporti di produzione, che si riflette negli istituti giuridici, e ciò dopo aver accettato che i proletari, il quarto stato, combattessero in alleanza della borghesia quando questa infranse le forme e gli istituti del regime precedente, per fondare e consolidare i suoi propri, e per estenderli nel mondo progredito ed arretrato. Ma in quale preciso senso la nostra rivendicazione storica comporta l'abbattimento e il superamento di quelle forme?

La rivoluzione produttiva capitalistica ha separato violentemente i lavoratori dal loro prodotto dal loro arnese di lavoro da tutti i mezzi della produzione, nel senso che ha soppresso il loro diritto di disporne direttamente, individualmente. Il socialismo condanna questa spoliazione, ma non postula certo di restituire ad ogni artefice il suo arnese e l'oggetto di consumo che con questo ha manipolato, perché vada sul mercato a scambiarlo con le sue sussistenze. In un certo senso la separazione brutalmente attuata dal capitalismo è storicamente definitiva. Ma nella nostra prospettiva dialettica tale separazione sarà superata su un piano più lontano e più ampio. L'arnese e il prodotto stavano a disposizione individuale dell'artefice libero e autonomo; sono passati a disposizione del padrone capitalista. Dovranno tornare a disposizione della classe dei produttori. Sarà una disposizione sociale, non individuale, e nemmeno corporativa. Non sarà più una forma di proprietà, ma di organizzazione tecnica generale, e se volessimo fin da ora affinare la formula anticipando sul procedimento dovremmo parlare di disposizione da parte della società e non di una classe, poiché tale organizzazione tende ad un tipo di società senza classi.

Comunque, senza per ora parlare di disposizione e di "proprietà" da parte dell'individuo sull'oggetto che sta per consumare, non possiamo includere nella rivendicazione socialista l'arbitrio personale del lavoratore sull'oggetto che ha manipolato.

Se l'operaio di una fabbrica di scarpe in regime borghese porta via una scarpa, non eviterà la galera dimostrando che corrispondeva bene alla misura del suo piede, e tanto peggio se intendeva invece venderla per averne poniamo del pane. Il socialismo non consisterà nel consentire che il lavoratore esca con un paio di scarpe a tracolla, ma ciò non perché siano state rubate al padrone, bensì perché costituirebbe un sistema ridicolmente lento e pesante di distribuzione delle scarpe a tutti. E prima di vedere in questo un problema di diritto o di morale vi si veda un problema concretamente tecnico per cui basterà pensare agli addetti a una fabbrica di ruote ferroviarie, o, per venire con esempi ovvi ancora più avanti nel sottolineare le rivoluzioni a cui conduce l'innovarsi della tecnica e della vita, a chi lavori in una centrale elettrica o in una stazione radiotrasmittente, e non ha motivo, come in cento altri casi, di essere perquisito all'uscita...

Ora la quistione del diritto di proprietà sul prodotto completo o anche semilavorato è in realtà quella cruciale, ed è molto più importante della proprietà sullo strumento di produzione, sulla fabbrica, officina o impianto che sia.

La vera caratteristica del capitalismo è l'attribuzione ad un padrone privato dei prodotti e della conseguente facoltà di venderli sul mercato. In generale all'inizio dell'epoca borghese questa attribuzione deriva da quella dell'opificio, della fabbrica, dello stabilimento ad un titolare privato, il capitalista industriale, in una forma trattata giuridicamente come quella che attribuisce la proprietà del suolo agrario o delle case.

Ma tale proprietà privata individuale è un fatto statico, formale, è la maschera del vero rapporto che ci interessa, che è dinamico e dialettico, e consiste nei caratteri del movimento produttivo, nell'innestarsi degli incessanti cicli economici.

Quindi la rivendicazione socialista, mentre doveva accettare la sostituzione del lavoro associato a quello individuale, propose di sopprimere la attribuzione in possesso privato dei prodotti del lavoro collettivo ad un proprietario unico, capo dell'azienda, libero di smerciarli a suo beneplacito. Logicamente espresse tale postulato relativo a tutta la dinamica economica come abolizione del libero diritto privato dell'industriale sull'impianto produttivo.

Tale formulazione è però incompleta, anche sul piano a cui in questo paragrafo ci atteniamo, ossia del contenuto negativo e distruttivo della posizione economica socialista, non trattandosi ancora del tipo di organizzazione produttiva e distributiva del regime socialistico, e della via da percorrere per arrivarvi, nel campo delle misure economiche e della lotta politica.

La formulazione è incompleta in quanto non dice che cosa si chiede che avvenga delle altre forme proprie dell'economia capitalistica, dopo aver chiarito che si vuole superare quella della attribuzione di tutti i prodotti manipolati in una azienda complessa ad un padrone solo di quelli e di questa.

Infatti l'economia capitalistica si rese possibile in quanto la separazione dei lavoratori dai mezzi e dai prodotti trovò una macchina distributiva mercantile già in atto, sicché il capitalista potè recare i prodotti al mercato e creare il sistema del salario, dando agli operai una parte del ricavato perché si procurassero su quello stesso mercato le sussistenze. L'artigiano adiva il mercato come venditore e compratore, il salariato lo può adire solo come compratore, e con mezzi limitati dalla legge della plusvalenza.

La rivendicazione socialista consiste classicamente nell'abolire il salariato. Solo l'abolizione del salariato comporta l'abolizione del capitalismo. Ma non potendo abolire il salariato nel senso di ridare al lavoratore l'assurda retrograda figura di venditore del suo prodotto al mercato, il socialismo rivendica fin dai primi tempi la abolizione della economia di mercato.

L'inquadratura mercantile della distribuzione ha preceduto come già abbiamo ricordato il capitalismo ed ha compreso tutte le precedenti economie differenziate, risalendo fino a quella in cui vi era mercato di persone umane (schiavismo).

Economia mercantile moderna vuol dire economia monetaria. Quindi la rivendicazione antimercantile del socialismo comporta parimenti la abolizione della moneta come mezzo di scambio oltre che come mezzo di formazione pratica dei capitali.

In ambiente di distribuzione mercantile e monetaria il capitalismo tende inevitabilmente a risorgere. Se questo non fosse vero converrebbe stracciare tutte le pagine del Capitale di Marx.

La enunciazione antimercantilistica sta in tutti i testi del marxismo e specialmente nelle polemiche di Marx contro Proudhon e tutte le forme di socialismo piccolo borghese. E' merito del programma comunista redatto, sia pure in testo assai prolisso, da Bucharin di aver rimesso in piena luce questo vitalissimo punto.

Ma alla fine del precedente paragrafo abbiamo allineato un terzo punto distintivo del capitalismo rispetto ai regimi che vinse: la decurtazione del prodotto dello sforzo di lavoro degli operai di una forte quota volta al profitto padronale, e soprattutto la destinazione di una parte importante di questa quota alla accumulazione di nuovo capitale.

E' ovvio che la rivendicazione socialista, se voleva togliere al padrone borghese il diritto di disporre del prodotto e di recarlo al mercato, gli toglieva il diritto sulla proprietà della fabbrica, e gli toglieva al tempo stesso anche la disponibilità della plusvalenza e del profitto. Proclamò oltre un secolo fa che si poteva abolire il salariato, e questo volle dire superare il tipo di economia di mercato finora conosciuto. Distruggente il mercato dei prodotti su cui arrivava timido il piccolo artigiano medievale con pochi articoli manufatti, e sul quale i prodotti del lavoro associato moderno arrivano col carattere capitalistico di merci, è non meno chiaro che si distrugge anche il mercato degli strumenti di produzione e il mercato dei capitali, quindi la accumulazione del capitale. Ma tutto questo non basta ancora.

Abbiamo già detto che nel processo della accumulazione vi è un lato sociale. Abbiamo ricordato che nella propaganda sentimentale — e chi di noi socialisti non ne ha abusato?... — ponevamo avanti la nequizia, di fronte ad una astratta, giustizia distributiva, del prelievo di plusvalenza che andava a consumo del capitalista o della sua famiglia, per vivere di ben altro tenore di vita che quello dei lavoratori. Abolizione del profitto, gridammo quindi, ed era giustissimo. Tanto giusto quanto poco. Gli economisti borghesi da cento anni ci rifanno il conto che tutto il reddito nazionale di un paese diviso per il numero dei cittadini dà di che vivere appena appena più su dell'umile operaio. Il conto è esatto ma la confutazione è vecchia quanto il sistema socialista, anche se non si troverà mai un Pareto o un Einaudi capace di capirla.

I vari accantonamenti che il capitalista compie prima di prelevare il suo ultimo utile con cui si spassa sono per una parte razionali e a fini sociali. Anche in una economia collettiva si dovranno accantonare prodotti e strumenti in quote atte a conservare e far progredire l'organizzazione generale. In un certo senso; si avrà una accumulazione sociale.

Diremo dunque noi socialisti che vogliamo sostituire la accumulazione sociale a quella personale privata? Non ci saremmo ancora. Se il consumo da parte del capitalista di una quota di plusvalenza è un fatto privato, che chiediamo sia abolito, ma è tuttavia di poco peso quantitativo, la accumulazione anche capitalistica è già un fatto sociale, ed un fattore tendenzialmente utile a tutti sul piano sociale.

Vecchie economie che tesaurizzavano soltanto sono rimaste immobili per millenni interi, la economia capitalistica, che accumula, ha in pochi decenni centuplicato le forze produttive, lavorando per la nostra rivoluzione.

Ma l'anarchia che Marx imputa al regime capitalistico risiede nel fatto che il capitalista accumula per aziende, per intraprese, le quali si muovono e vivono in un ambiente mercantile.

Questo sistema, e vedremo meglio questa non facile ma centrale tesi tecnico-economica in qualche esempio del seguito, questo sistema non si sforza che di ordinarsi in funzione del massimo profitto della azienda, che molte volte si attua sottraendo profitti ad altre aziende. In partenza, e qui gli economisti classici della scuola borghese avevano ragione, la superiorità della grande azienda organizzata sulla superanarchia della piccola produzione conduceva ad un tanto maggiore rendimento che, oltre al profitto del capitalista singolo e ad un ottimo accantonamento per nuovi impianti e nuovi progressi, l'operaio della industria evoluta poneva sul suo desco piatti ignoti al piccolo artigiano.

Ma correndo ogni azienda, chiusa in sé e con la sua contabilità di versamenti e ricevimenti dal mercato, al massimo del suo profitto, nel corso dello sviluppo i problemi di rendimento generale del lavoro umano sono risolti; male e addirittura al rovescio.

Il sistema capitalistico impedisce di porre il problema di rendere massimo non il profitto ma il prodotto a parità di sforzo e di tempo di lavoro, in modo che, prelevate le quote di accumulazione sociale, si possa esaltare il consumo e deprimere il lavoro, lo sforzo di lavoro, l'obbligo di lavoro. Preoccupato solo di realizzare la vendibilità del prodotto aziendale ad alto prezzo e pagare poco i prodotti delle altre aziende, il sistema capitalistico non può giungere verso l'adeguamento generale della produzione al consumo e precipita nelle successive crisi.

Quindi la rivendicazione socialista si propone di abbattere non solo il diritto e la economia della proprietà privata ma al tempo stesso la economia di mercato e la economia di intrapresa.

Solo quando si andrà nel senso che conduce a superare tutte e tre queste forme della economia presente: proprietà privata sui prodotti, mercato monetario, e organizzazione della produzione per aziende, si potrà dire di andare verso la organizzazione socialista.

Si tratta nel seguito di vedere come sopprimendone un solo termine la rivendicazione socialista decade. Il criterio dell'economia privata individuale e personale può essere largamente superato anche in pieno capitalismo. Noi combattiamo il capitalismo come classe e non solo i capitalisti come singoli. Vi è capitalismo sempre che i prodotti sono recati al mercato o comunque "contabilizzati" all'attivo della azienda, intesa come isola economica distinta, sia pure molto grande, mentre sono portate al passivo le retribuzioni del lavoro.

L'economia borghese è economia in partita doppia. L'individuo borghese non è un uomo, è una ditta. Vogliamo distruggere ogni ditta. Vogliamo sopprimere l'economia in partita doppia, fondare l'economia in partita semplice, che la storia conosce già da quando il troglodita uscì per cogliere tante noci di cocco quanti erano i suoi compagni nella caverna, e uscì recando le sole sue mani.

Tutto questo lo sapevamo già nel 1848. Il che non ci impedisce di seguitarlo a dire con giovanile ardore.

Vedremo che per cento anni sono successe molte cose nel gioco dei rapporti che abbiamo considerati, tutte cose che ci hanno resi ancora più duri nel sostenere le stesse tesi.

Dopo avere avvertito il lettore che anche il pronome generale diviene nel sistema socialista un pronome sociale.

Da "Prometeo" n. 11, novembre-dicembre 1948

Note

[1] In altra parte di questo stesso fascicolo il lettore potrà trovare ricordati i termini autentici della tesi di Marx sulla crescente miseria che non contraddice la legge sull'aumento del saggio del salario reale, nella esposizione esplicativa del testo fondamentale della economia marxista.

Prima di copertina
Proprietà e Capitale

Quaderni di n+1 dall'archivio storico.

Il lettore d'oggi che pagina dopo pagina arriverà al capitolo finale in cui si tirano le somme sul piano politico, avrà la netta sensazione di avere tenuto fra le mani un libro straordinario. Presa dimestichezza con un linguaggio potente dal punto di vista letterario ma fuori da canoni della saggistica divulgativa, sarà costretto ad ammettere che il metodo d'indagine adottato ha permesso di intravvedere fenomeni poco evidenti all'epoca in cui il libro fu scritto e ancora in embrione nel 1991.

Indice del volume

Prometeo 1946 - 1952