Proprietà e Capitale (6)
Molti lettori, dato l'intervallo che, per ragioni evidenti, corre tra l'uscita dei fascicoli della nostra rivista, hanno espresso il desiderio di conoscere almeno in sunto lo svolgimento dello studio su "Proprietà e Capitale", il cui tema sta nel mostrare l'inquadramento pieno nella dottrina marxista dei fenomeni del mondo sociale contemporaneo.
Per soddisfare almeno in parte questo comprensibile desiderio pubblichiamo l'indice dei capitoli, le tesi riassuntive di quelli già pubblicati, ed una ampia sinopsi di quelli che restano da pubblicare.
Indice dei Capitoli
- 1. - Le rivoluzioni di classe. Tecnica produttiva e forme giuridiche della produzione.
- 2. - La rivoluzione borghese. L'avvento del capitalismo e i rapporti giuridici di proprietà.
- 3. - La rivoluzione proletaria. I termini della rivendicazione socialista.
- 4. - La proprietà rurale. La rivoluzione borghese e la proprietà sui beni immobili.
Nota: Il preteso feudalismo nell'Italia meridionale. - 5. - La legalità borghese. L'economia capitalistica nel quadro giuridico del diritto romano.
Nota: Il miraggio della riforma agraria in Italia. - 6. - La proprietà cittadina. Il capitalismo e la proprietà urbana di edifizi e suoli.
Nota: Il problema edilizio in Italia. - 7. - La proprietà dei beni mobili. Il monopolio capitalistico sui prodotti del lavoro.
- 8. - L'intrapresa industriale. Il sistema aziendale basato sullo sfruttamento personale e lo sperpero sociale del lavoro.
- 9. - Le associazioni tra imprese e i monopolii. Necessaria derivazione del monopolio dal gioco della pretesa libera concorrenza.
- 10. - Il capitale finanziario. Intraprese di produzione e di credito e ribadito parassitismo economico di classe.
- 11. - La politica imperialistica del Capitale. I conflitti tra gruppi e stati capitalistici per la conquista e il dominio nel mondo.
- 12. - La moderna impresa senza proprietà. L'appalto e la concessione, forme anticipate della evoluzione capitalista presente.
- 13. - L'interventismo e il dirigismo economico. Il moderno indirizzo di economia controllata come maggiore soggezione dello Stato al capitale.
- 14. - Capitalismo di Stato. La proprietà statale, accumulazione per l'iniziativa dell'impresa capitalistica.
- 15. - L'economia russa. Presenza ed azione in parte dissimulata di interne ed estere imprese capitalistiche.
- 16. - La formazione dell'economia comunista. Condizioni del trapasso dal capitalismo al comunismo ed esempi di manifestazioni anticipate delle nuove forme.
- 17. - Utopia; scienza; azione. Unità, nel movimento proletario rivoluzionario, della teoria, dell'organizzazione e dell'azione.
Tesi relative ai capitoli già pubblicati
- 1. LE RIVOLUZIONI DI CLASSE - Nelle rivoluzioni sociali una classe toglie il potere a quella che già lo deteneva quando il contrasto tra i vecchi rapporti di proprietà e le nuove forze produttive conduce ad infrangere i primi.
- 2. LA RIVOLUZIONE BORGHESE - La rivoluzione borghese, allorché le scoperte tecniche ebbero imposto la produzione in grande e l'industria meccanica, abolì i privilegi dei proprietari feudali sull'opera personale dei servi e i vincoli corporativi al lavoro manuale, espropriò in larga misura artigiani e piccoli contadini, spogliandoli del possesso del loro sito e dei loro arnesi di lavoro e dei prodotti della loro opera, per trasformarli, come i servi della gleba, in proletari salariati.
- 3. LA RIVOLUZIONE PROLETARIA - La classe degli operai salariati lotta contro la borghesia per abolire, con la privata proprietà del suolo e degli impianti produttivi, quella dei prodotti dell'agricoltura e dell'industria, sopprimendo le forme della produzione per aziende e della distribuzione mercantile e monetaria.
- 4. LA PROPRIETÀ DEL SUOLO AGRARIO - La rivoluzione borghese al posto delle gestioni comuni della terra agraria e della distribuzione di essa in circoscrizioni feudali istituì il libero commercio del suolo, facendone un possesso borghese conseguibile non per nascita ma con denaro, al pari di quello delle aziende industriali e commerciali.
- Nota: IL PRETESO FEUDALISMO DEL MEZZOGIORNO - L'ordinamento borghese nel campo agrario, come in tutta Italia, è nel Mezzogiorno pienamente compiuto. La pretesa esigenza di una lotta contro privilegi baronali e feudali costituisce una deviazione totale della lotta proletaria di classe contro il regime e lo stato borghese di Roma.
- 5. IL DIRITTO IMMOBILIARE BORGHESE - La disciplina giuridica applicata dalla classe capitalistica all'acquisto e al possedimento dei suoli, aboliti i vincoli feudali, fu presa dal diritto romano, reggendo colle stesse norme formali la piccola proprietà contadina ed il grande possesso fondiario borghese.
- Nota: LA RIFORMA AGRARIA IN ITALIA - I problemi dell'agricoltura italiana non sono risolubili con riforme giuridiche della distribuzione titolare dei possessi, ma solo colla lotta rivoluzionaria per abbattere il potere nazionale della borghesia, per eliminare il dominio del capitale sull'agricoltura, e la polverizzazione della terra, forma miserrima di sfruttamento di chi la lavora.
- 6. LA PROPRIETÀ URBANA - La proprietà dei suoli e delle costruzioni urbane ha avuto nel periodo capitalistico una disciplina di mercato e di titolarità privata. È condizione della accumulazione capitalistica il concentramento dei non abbienti in spazii ristretti; il difetto di abitazioni, l'eccessivo affollamento in esse, e il caro delle case sono una caratteristica dell'epoca borghese. L'attribuzione della casa in proprietà all'inquilino singolo, la soppressione o la compressione della pigione, o anche la demanializzazione dei suoli ed edifizi, non costituiscono un programma rispondente agli interessi dei lavoratori. La rivoluzione proletaria avrà come effetto immediato una nuova redistribuzione in uso delle abitazioni, e come scopo successivo il decongestionamento dei grandi centri, col mutamento radicale dei rapporti tra campagna e città.
- Nota: IL PROBLEMA EDILIZIO IN ITALIA - La politica di blocco dei fitti e i piani per ovviare alla disoccupazione costruendo case sono aborti riformistici e risorse demagogiche di una borghesia battuta e vassalla come quella italiana. Essi confermano la soggezione della pubblica amministrazione al capitalismo e alle sue esigenze speculatrici, e l'assurdità di attuare pianificazioni razionali nel quadro di economie mercantili e fondate sul profitto di intrapresa.
- 7. LA PROPRIETÀ DEI BENI MOBILI - I beni mobili, apprestati dalla produzione, non sono oggetto di proprietà titolare e sono usabili o permutabili ad arbitrio del possessore; tale è la formola giuridica nella società borghese. Nella sostanza, colla produzione in masse, il capitalista imprenditore ha il possesso e la disponibilità di tutte le cose mobili, prodotti, merci, risultanti dal lavoro nella sua azienda. La richiesta socialista di abolire il monopolio di classe dei capitalisti imprenditori sui mezzi di produzione - presentata come abolizione della proprietà privata titolare sui luoghi e gli impianti delle aziende - ha la portata reale di abolizione del monopolio dei singoli imprenditori e della classe capitalista sulle masse dei prodotti. Ogni misura che, limitando la titolarità del proprietario del luogo di lavoro o degli impianti o delle macchine, conservi il monopolio diretto o indiretto o delle persone o delle ditte o della classe dei capitalisti sui prodotti e la loro destinazione e ripartizione, non è socialismo.
- 8. L'INTRAPRESA INDUSTRIALE - L'azienda capitalistica di produzione ha per titolare un imprenditore che può essere persona fisica o persona giuridica (ditta, società, compagnia anonima per azioni, cooperativa ecc.). Anche nel caso in cui l'azienda ha sede ed impianti fissi, l'immobile, o anche le macchine e attrezzature, possono appartenere ad un proprietario che non sia l'imprenditore. Nell'economia borghese classica il valore di scambio di ogni merce si misura in tempo di lavoro umano, ma si afferma che vi sia lo stesso pareggio di mercato, e giuridico, nella compra e vendita di merci e nella remunerazione del lavoro prestato dai dipendenti dell'azienda. Il profitto premierebbe la superiore organizzazione tecnica dei vari fattori. Marx con la dottrina del plusvalore ha dimostrato che il salario, o prezzo pagato per la forza di lavoro, è inferiore al valore che questa aggiunge alla merce, quando ogni valore è espresso da tempi di lavoro. Il profitto del capitale rappresenta il lavoro non pagato degli operai. La moderna tecnica produttiva, che impone di sostituire l'attività sociale a quelle individuali, viene imprigionata nelle forme dell'impresa privata al fine di garantire la estorsione del plusvalore. La classe industriale che se ne avvantaggia conserva e difende, grazie al potere politico che detiene, il sistema di produzione che assicura il massimo del profitto e della accumulazione, mentre i prodotti socialmente utili e benefici (sia a disposizione della classe lavoratrice che di tutte le classi) sono compressi ad un minimo in rapporto alla massa enorme degli sforzi di lavoro. L'eccesso e lo sperpero di lavoro sociale della classe proletaria, rispetto alla massa dei prodotti utili al consumo, dà un rapporto passivo diecine di volte peggiore del rapporto che per il singolo salariato corre tra lavoro non pagato e lavoro pagato, o saggio del plusvalore. Sono quindi tesi inadeguate le seguenti: il socialismo consiste nella corresponsione del frutto indiminuito del lavoro - con l'abolizione del sopralavoro e del plusvalore sarebbe abolito lo sfruttamento dei salariati - ogni economia senza plusvalore è economia socialista - si può contabilizzare in cifre di moneta una economia socialista - l'economia socialista consiste nella contabilizzazione dei tempi di lavoro. Socialismo è la eliminazione sociale e storica del capitalismo, del sistema di produzione guidato dalla iniziativa delle imprese o della federazione di imprese, costituita dalla classe e dallo stato borghese. Anche prima della fase "superiore", in cui ciascuno preleverà secondo il suo bisogno, si potranno dire raggiunte una economia e una contabilizzazione socialiste solo in quei settori in cui non figureranno partite doppie e bilanci aziendali, e nei calcoli di previsione organizzativi si adopereranno solo unità fisiche di misura come le unità di peso, capacità, forza, energia meccanica.
- 9. ASSOCIAZIONI TRA IMPRESE E MONOPOLIO - Posizione basilare della economia borghese è che la selezione delle imprese socialmente più utili sia assicurata dai fenomeni del mercato libero e dallo equilibrarsi dei prezzi secondo le disponibilità e il bisogno di prodotti. Il marxismo dimostrò che, anche ammessa per un momento questa economia di libera concorrenza, produzione e scambio, finzione borghese e illusione piccolo borghese, le leggi della accumulazione e della concentrazione che agiscono nel suo seno la conducono a spaventose crisi di sovrapproduzione, di distruzione di prodotti e forze di lavoro, di abbandono di impianti produttivi, di disoccupazione e miseria generale. È attraverso le ondate di tali crisi che si acutizza l'antagonismo tra la ricca e potente classe capitalista, e la miseria delle masse occupate e non occupate, spinte ad organizzarsi in classe e rivoltarsi contro il sistema che le opprime. La borghesia, classe dominante, trovò dapprima base sufficiente alla sua unità nello stato politico ed amministrativo, suo "comitato di interessi" malgrado la finzione degli istituti elettivi, in cui governava a mezzo di quei partiti che quali opposizioni rivoluzionarie avevano condotta la rivoluzione antifeudale. La forza di tale potere venne subito diretta contro le prime manifestazioni della pressione di classe dei lavoratori. L'organizzazione degli operai in sindacati economici si muove nei limiti della lotta per abbassare il saggio del plusvalore; la ulteriore organizzazione in partito politico ne esprime la capacità a porsi come classe l'obiettivo del rovesciamento del potere della borghesia, della soppressione del capitalismo, con la riduzione radicale della quantità di lavoro, l'aumento del consumo e del benessere generale. Dal canto suo la classe borghese antagonista, non potendo non accelerare l'accumulazione del capitale, procurò di fronteggiare le enormi dispersioni di forze produttive, le conseguenze delle crisi periodiche, gli effetti della organizzazione operaia, adottando ad un certo punto dello sviluppo le forme (note alla stessa storia della accumulazione primitiva) delle intese, accordi, associazioni ed alleanze fra intraprenditori. Queste dapprima si limitarono ai rapporti di mercato, sia nel collocamento dei prodotti che nell'acquisto della manodopera, con impegni a rispettare dati indici evitando la concorrenza; quindi si estesero a tutto l'ingranaggio produttivo: monopolii, trusts, cartelli, sindacati di intraprese che fanno prodotti simili (orizzontali) o provvedono alle successive trasformazioni che conducono a dati prodotti (verticali). La descrizione di tale fase del capitalismo, come conferma della giustezza del marxismo "che dimostrò come la libera concorrenza determini la concentrazione, e questa il monopolio" è classica in Lenin, l'Imperialismo.
- 10. IL CAPITALE FINANZIARIO - L'intraprenditore ha bisogno, oltre che della fabbrica e delle macchine, di un capitale monetario liquido che anticipa per acquistare materie prime e pagare salari, e poi ritira vendendo i prodotti. Come dello stabilimento e degli impianti, egli può non essere proprietario titolare anche di questo capitale. Senza che esso intraprenditore o ditta intraprenditrice perda la titolarità dell'azienda, tutelata dalla legge, egli ha tale capitale fornito dalle banche, contro un tasso annuo di interesse. Il borghese giunto alla sua forma ideale ci si mostra ormai spoglio e privo di proprietà immobiliare o mobiliare, privo di denaro, soprattutto privo di scrupoli. Non investe ed arrischia più nulla di suo, ma la massa dei prodotti gli resta legalmente nelle mani, e quindi il profitto. La proprietà se la è tolta da sé, conseguendone non pochi altri vantaggi; è la sua posizione strategica che occorre strappargli. È posizione sociale storica e giuridica, che cade solo con la rivoluzione politica, premessa di quella economica. La classe borghese, traverso la apparente separazione del capitale industriale da quello finanziario, in realtà stringe i suoi legami. Il predominio delle operazioni finanziarie fa sì che i grandi sindacati controllino i piccoli e le aziende minori per successivamente inghiottirli, nel campo nazionale e internazionale. L'oligarchia finanziaria che in poche mani concentra immensi capitali e li esporta ed investe da un paese all'altro, fa parte integrante della stessa classe imprenditrice, il centro della cui attività si sposta sempre più dalla tecnica produttiva alla manovra affaristica. D'altra parte, con il sistema delle società per azioni, il capitale della intrapresa industriale costituito da immobili, attrezzi e numerario è titolarmente di proprietà dei portatori di azioni che prendono il posto dell'eventuale proprietario immobiliare, locatore di macchina, banca anticipatrice. I canoni di fitto e noleggio e l'interesse degli anticipi prendono la forma di un sempre modesto utile o "dividendo" distribuito agli azionisti dalla "gestione" ossia dall'intrapresa. Questa è un ente a sé, che porta il capitale azionario al suo passivo di bilancio, e con manovre varie saccheggia i suoi creditori; vera forma centrale dell'accumulazione. La manovra bancaria, a sua volta con capitali azionarii, compie per conto dei gruppi industriali ed affaristici questo servizio di depredamento dei piccoli possessori di moneta. La produzione di ultraprofitti ingigantisce man mano che ci si allontana dalla figura del capo d'industria, che per competenza tecnica arrecava innovazioni socialmente utili. Il capitalismo diviene sempre più parassitario, ossia invece di guadagnare e accumulare poco producendo molto e molto facendo consumare, guadagna ed accumula enormemente producendo poco e soddisfacendo male il consumo sociale.
- 11. CAPITALE E POLITICA IMPERIALISTA - Nei paesi industrialmente più avanzati la classe intraprenditrice trova limiti all'investimento del capitale accumulato o nel difètto di materie prime locali, o in quello di manodopera metropolitana, o in quello di mercati di acquisto. La conquista di mercati esteri, l'ingaggio di lavoratori stranieri, l'importazione di materie prime, o infine l'esercizio di tutta l'impresa capitalistica in paese estero con elementi e fattori del posto, sono processi che non possono nel mondo capitalistico essere svolti con i puri mezzi economici, come il gioco della concorrenza, il tentativo di regolare e controllare prezzi di vendita e di acquisto, e mano mano i privilegi e le protezioni con misure di stato o convenzioni interstatali. Quindi l'espansionismo economico diviene colonialismo aperto o dissimulato, appoggiato con poderosi mezzi militari. È la forza che decide le rivalità per l'accaparramento delle colonie e il dominio sugli stati piccoli e deboli, si tratti di controllare i grandi giacimenti minerari, le masse da proletarizzare, o gli strati di consumatori capaci di assorbire i prodotti dell'industrialismo capitalistico. Questi sono nel mondo moderno tuttavia in gran parte costituiti non solo dai consumatori proletari e capitalisti dei paesi avanzati, ma anche dai ceti sociali medii come quelli agrari e artigiani, e dalle popolazioni di paesi ad economia capitalistica, formanti oggi come tante isole che successivamente escono da un ciclo locale e autarchico di economia, e sono come immerse e circondate dal tessuto generale della economia capitalistica internazionale. In ciò il difficile quadro generale della riproduzione ed accumulazione del capitale, delle crisi di sovrapproduzione, della saturazione delle possibilità di collocare i prodotti in tutto il mondo in base alla distribuzione mercantile e monetaria. Per ogni marxista è evidente che la complicazione di tale rapporto storico tra le metropoli superindustriali e i paesi arretrati, di razza bianca e di altre razze, non può che generare incessanti conflitti, non solo tra colonizzatori e colonizzati, ma soprattutto tra gruppi di stati conquistatori. La teoria proletaria rigetta le seguenti tesi come controrivoluzionarie: A) che si possa e si debba infrenare la diffusione nel mondo della tecnica industriale e delle grandi reti organizzate di comunicazioni e trasporti (superstite liberalismo e liberismo piccolo borghese); B) che occorra appoggiare socialmente e politicamente le imprese coloniali ed imperiali della borghesia (opportunismo socialdemocratico, corruzione dei capi sindacali e di una "aristocrazia proletaria"); C) che il sistema coloniale basato sul capitalismo possa condurre ad un equilibrio economico e politico tra le potenze imperialiste, o ad uno stabile centro imperiale unico; ed evitare la progressiva corsa agli armamenti e al militarismo, e il rafforzarsi dei sistemi oppressivi e repressivi di polizia di classe (falso internazionalismo e federalismo fra stati borghesi, basato sulla simulata autonomia e autodecisione dei popoli e sui sistemi di sicurezza e di prevenzione delle "aggressioni"). "L'imperialismo sviluppa dappertutto la tendenza al dominio, non già alla libertà". "Nella realtà capitalistica le alleanze interimperialiste non sono altro che una fase di respiro tra una guerra e l'altra, qualsiasi forma assumano, sia quella di una coalizione imperialista opposta a un'altra, sia quella di una lega generale fra tutte le potenze" (Lenin). Solo sbocco dell'imperialismo mondiale è una rivoluzione mondiale.
- 12. TENDENZA MODERNA ALL'IMPRESA SENZA PROPRIETÀ. APPALTI E CONCESSIONI - Ogni nuova forma sociale, che per l'effetto dello svolgersi delle forze produttive tende a generalizzarsi, appare dapprima frammezzo alle forme tradizionali con "esempi" e "modelli" del nuovo metodo. Oggi si può studiare la forma della impresa senza proprietà analizzando l'industria delle costruzioni edilizie, e più in generale dei lavori pubblici, il cui peso proporzionale nell'economia tende ad aumentare sempre di più. Conviene eliminare la figura del "committente", proprietario del suolo o degli stabili in cui si opera, e che diverrà proprietario dell'opera compiuta, essendo indifferente che sia un privato, un ente, o lo Stato, ai fini della dinamica economica della "impresa assuntrice", L'impresa, o "appaltatore" dei lavori, presenta questi caratteri: I. Non ha una officina, fabbrica, stabilimento proprio, ma volta a volta installa il "cantiere" e gli stessi uffici in sede posta a disposizione dal committente, il quale si addebita perfino contabilmente una cifra per tale impianto cantiere e costruzioni provvisorie. II. Può avere degli attrezzi o anche macchine proprie, ma più spesso, dislocandosi in località disparate e lontane, o li noleggia o li acquista e rivende sul posto, o riesce a farsene pagare l'intero ammortamento. III. Deve in teoria disporre di un capitale liquido da anticipare per materie prime e salari, ma va notato: a) che lo ottiene con facilità dalle banche quando provi di avere avuto "aggiudicato" un buon lavoro, dando in garanzia i mandati di pagamento; b) che nelle forme moderne molte volte per effetto delle "leggi speciali" lo Stato finanzia, anticipa, o obbliga istituti creditizi a farlo; c) che i "prezzi unitari" in base ai quali sono pagate all'impresa le partite di lavori a misura (ossia i veri prodotti dell'industria in esame, collocati e tariffati in partenza e fuori di ogni alea commerciale, mentre è poi facilissimo conseguirne aumenti in sede di contabilità), si formano aggiungendo a tutte le spese anche una partita per "interessi" del capitale anticipato, e solo dopo di tutto ciò l'utile dell'imprenditore. In questa tipica forma sussiste l'impresa, il plusvalore, il profitto, che è in genere altissimo, mentre scompare ogni proprietà di immobili, di attrezzi mobili, e perfino di numerario. Quando tutti questi rapporti sono a cura di enti pubblici e dello Stato, il capitalismo respira il migliore ossigeno, i tassi di remunerazione toccano i massimi; e la sopraspesa ricade per via indiretta su altre classi: in parte minima quella dei possessori immobiliari e dei piccoli proprietari, in parte massima su quella non abbiente e proletaria. Difatti l'impresa non paga tassa fondiaria perché non ha immobili, e le tasse sui movimenti mobiliari di ricchezza le sono rimborsate anche quelle in sede di "analisi dei prezzi unitari", includendole nella partita "spese generali". In queste forme la classe imprenditrice nulla paga per mantenere lo Stato. Analogo all'appalto è la concessione. Il concessionario riceve un'area, uno stabile, talvolta un impianto completo, dal pubblico ente: lo esercisce, e fa propri prodotti e guadagni. Ha l'obbligo di fare date ulteriori opere, installazioni, o perfezionamenti, e corrisponde un certo canone in denaro, in una sola volta o in rate periodiche. Dopo un certo numero di anni, sempre notevole, tutta la proprietà, incluse le nuove opere e trasformazioni, ritornerà all'ente concedente o demanio pubblico, cui è sempre rimasta intestata. Il calcolo economico relativo ad un tale rapporto ne dimostra l'enorme vantaggio per il gestore, ove ben si considerino: le tasse immobiliari che non paga - l'interesse o rendita ingente che compete al valore del suolo e installazioni originarie, che non ha dovuto acquistare - le rate di "ammortamento" a compenso di usura e invecchiamento, che non deve accantonare, perché riconsegnerà impianti non nuovi ma usati e sfruttati a lungo. La concessione presenta la quasi totale assenza di rischi su investimenti propri, e lo stesso alto profitto dell'appalto, e la caratteristica importante di potersi estendere a tutti i tipi di produzione e di fornitura delle industrie anche con sede fissa; la tendenza, in questa forma, può quindi coprire tutti i settori economici fermo restando il principio della impresa e del profitto. Lo stato moderno in realtà non ha mai attività economica diretta, ma sempre delegata per appalti e concessioni a gruppi capitalistici. Non si tratta di un processo col quale il capitalismo e la classe borghese siano respinti indietro da posizioni di privilegio; a quell'apparente abbandono di posizioni, corrisponde un aumento della massa di plusvalore di profitto e di accumulazione e dello strapotere del capitale; e, per tutto questo, degli antagonismi sociali. La massa del capitale industriale e finanziario accumulato, a disposizione della manovra di intrapresa della classe borghese, è quindi molto maggiore di quanto appare facendo la somma delle singole intestazioni titolari, sia di valori immobili che mobili, ai singoli capitalisti e possessori, e ciò è espresso dal fondamentale teorema di Marx che descrive come fatto e come produzione sociale il sistema capitalistico, da quando esso si afferma, sotto l'armatura del diritto personale. Il capitalismo è un monopolio di classe, e tutto il capitale si accumula sempre più come la dotazione di una classe dominante, e non come quella di tante persone e ditte. Introdotto questo principio, gli schemi e le equazioni di Marx sulla riproduzione, l'accumulazione e la circolazione del capitale cessano di essere misteriosi e incomprensibili.
- 13. INTERVENTISMO E DIRIGISMO ECONOMICO COME MANEGGIO DELLO STATO DA PARTE DEL CAPITALE - L'insieme di innumerevoli moderne manifestazioni con cui lo Stato mostra di disciplinare fatti ed attività di natura economica nella produzione, lo scambio, il consumo, è erroneamente considerato come una riduzione ed un contenimento dei caratteri capitalistici della società attuale. La dottrina dell'astensione dello Stato dall'assumere funzioni economiche ed attuare interventi nella produzione e circolazione dei beni, non è che una maschera ideologica adatta al periodo in cui il capitalismo dovette farsi largo come forza rivoluzionaria, rompendo la cerchia di tutti gli ostacoli sociali e legali che gli impedivano di esplicare la sua potenzialità produttiva. Per il marxismo lo stato borghese, anche appena formato, garantendo la appropriazione dei beni e dei prodotti da parte di chi dispone di denaro accumulato, codificando il diritto di proprietà individuale e la sua tutela, esercita una aperta funzione economica, e non si limita ad assistere dall'esterno ad una pretesa "naturale" spontaneità dei fenomeni dell'economia privata. In ciò è tutta la storia della accumulazione primitiva, culla del capitalismo moderno. Man mano che il tipo di organizzazione capitalista invade il tessuto sociale e i territori mondiali e suscita, con la concentrazione della ricchezza e la spoliazione delle classi medie, le contraddizioni e i contrasti di classe moderni, levando contro di sé la classe proletaria già sua alleata nella lotta antifeudale, la borghesia trasforma sempre più il legame di classe tra i suoi elementi da una vantata pura solidarietà ideologica, filosofica, giuridica, in una unità di organizzazione per il controllo dello svolgimento dei rapporti sociali, e non esita ad ammettere apertamente che questi sorgono non da opinioni ma da interessi materiali. Lo Stato quindi prende a muoversi nel campo produttivo, ed economico in generale, sempre per la spinta e le finalità di classe dei capitalisti, intraprenditori di attività economiche e iniziatori di affari a sempre più larga base. Ogni misura economico-sociale dello Stato, anche quando arriva ad imporre in modo effettivo prezzi di derrate o merci, livello dei salarii, oneri al datore di lavoro per "previdenza sociale" ecc. ecc,, risponde ad una meccanica in cui il capitale fa da motore e lo Stato da macchina "operatrice". Ad esempio l'imprenditore di una pubblica opera o il concessionario, poniamo di una rete ferroviaria o elettrica, sono pronti a pagare più alti salari e contributi sociali, poiché gli stessi si portano automaticamente nel calcolo dei "prezzi unitari" o delle "tariffe pubbliche". Il profitto, essendo valutato in una percentuale sul totale, cresce, il plusvalore cresce come massa e cresce come saggio, poiché anche i salariati pagano tasse statali e usano ferrovia ed elettricità, e l'indice salario ritarda sempre rispetto agli altri. Il sistema inoltre incoraggia sempre più le imprese le cui realizzazioni e i cui manufatti servono poco, o non servono a nulla, o sviluppano consumi più o meno morbosi ed antisociali, fomentando la irrazionalità e anarchia della produzione, contro la volgare accezione che vede in esso un principio di ordinamento scientifico e una vittoria del famoso "interesse generale". Non si tratta di subordinazione parziale del capitale allo Stato, ma di ulteriore subordinazione dello Stato al capitale. E, in quanto si attua una maggiore subordinazione del capitalista singolo all'insieme dei capitalisti, ne segue maggiore forza e potenza della classe dominante, e maggiore soggezione del piccolo al grande privilegiato. La direzione economica da parte dello Stato risponde, più o meno efficacemente nei vari tempi e luoghi, con ondate di avanzate e ritorni, alle molteplici esigenze di classe della borghesia: scongiurare o superare le crisi di sotto e sovrapproduzione, prevenire e reprimere le ribellioni della classe sfruttata, fronteggiare i paurosi effetti economico-sociali delle guerre di espansione, di conquista, di contesa pel predominio mondiale, e lo sconvolgimento profondo dei periodi che le seguono. La teoria proletaria non vede nell'interventismo statale una anticipazione di socialismo, che giustifichi appoggi politici ai riformatori borghesi, e rallentamenti della lotta di classe; considera lo stato borghese politico-economico un nemico più sviluppato, agguerrito e feroce dell'astratto stato puramente giuridico, e ne persegue la distruzione, ma non oppone a questo moderno atteso svolgimento del capitalismo rivendicazioni liberiste o libero-scambiste, o ibride teorie basate sulle virtù delle unità produttive, autonome da collegamenti sistematici centrali, e collegate nello scambio da intese contrattuali libere (sindacalismo, economia dei comitati di azienda).
Riassunto dei capitoli non ancora pubblicati
Cenni sugli ultimi capitoli
(i cui riassunti appariranno nel prossimo numero)
- 14. CAPITALISMO DI STATO - La proprietà del suolo degli impianti e del denaro nella forma statale è accumulata a disposizione delle imprese capitalistiche private di produzione o di affari, e della loro iniziativa.
- 15. FASI DELLA TRASFORMAZIONE ECONOMICA IN RUSSIA DOPO IL 1917 - Predominio nella presente economia russa del carattere capitalistico, per la esistenza in parte dissimulata di imprese interne ed estere muoventesi nell'ambiente mercantile e monetario.
- 16. LA FORMAZIONE DELL'ECONOMIA COMUNISTA - Le caratteristiche del nuovo sistema di produzione e distribuzione possono essere date come dialettica opposizione agli ostacoli che ne impediscono lo svolgimento. Indagini su manifestazioni parziali anticipate di attività in forme non capitalistiche.
- 17. UTOPIA; SCIENZA; AZIONE - Il movimento proletario rivoluzionario possiede la teoria positiva dello svolgimento sociale e delle condizioni della rivoluzione comunista. La conservazione della giusta linea dipende dalla continuità, coerenza e dirittura dell'indirizzo di azione.
Questo movimento non può essere condotto che da una organizzazione in cui stia una minoranza della classe in lotta.
Nota al Capitolo VI°: Il problema edilizio in Italia
Come ogni regime all'avvicinarsi ed allo scoppio della guerra, l'onnipotente, il superstatale fascismo italiano prese a maneggiare tutte le leve del suo potere per arrestare la salita dei prezzi generali ed il corrispondente rinvilire del denaro. Non qui ci interessa il problema che l'aumento generale dei prezzi e l'inflazione monetaria corrispondono all'interesse della classe imprenditrice, del suo Stato e del suo governo, e che solo ragioni di politica sociale conservatrice e di demagogia ispirano l'armamentario legislativo di imperio per la frenata dell'aumento.
Le leggi sul blocco dei prezzi lanciate nel 1940 riflettevano tutto: prodotti della terra e dell'industria, salari, stipendi e remunerazioni, contratti che lo Stato aveva in corso per opere e forniture con le più diverse intraprese.
Tra le più interessanti furono le misure dirette al blocco dei fitti degli immobili, sia rurali che urbani. Il primo rapporto è meno semplice: il locatario della terra coltivabile non loca soltanto una sede su cui acquista il diritto di soggiornare e trattenersi, come avverrebbe se si trattasse di un jardin de délices, ma un vero strumento di produzione a cui applica il lavoro proprio o di propri dipendenti salariati, per trarne frutti e prodotti realizzabili in denaro sul mercato. In altro punto abbiamo accennato alla balorda confusione tra la portata sociale e politica della lotta per comprimere il fitto agrario, e in apparenza il ferocissimo "reddito padronale terriero", a seconda che il beneficiario del minorato canone pagato è un lavoratore parcellare, uno sporco colono grasso borghese, o addirittura un capitalista intraprenditore di industria agricola, che scortica braccianti e talvolta sottoaffittuari lavoratori.
Il caso dell'immobile urbano, e per essere più esatti della casa di abitazione cittadina, per la sua semplicità, si presta in modo cristallino alla riprova di tesi fondamentali della economia marxista.
Esso costituisce il solo caso in cui il blocco è riuscito effettivo ed ha registrato un successo. Prima di domandarci se tale successo corrispose agli interessi della classe lavoratrice, come appare a primo lume di naso e come fa comodo dire agli agitprop da dozzina, rileveremo come esso dimostri, per la relativa limitatezza del settore, insieme alla giustezza dei concetti marxisti, la inconsistenza e la pochezza delle capacità controllatrici e pianificatrici in campo economico dello Stato moderno, anche dove esso si mostri politicamente e poliziescamente solidissimo.
Mentre in tutti i campi del lavoro agrario e industriale ciò che importa non è tanto, come in queste note andiamo mostrando, la pomposa intestazione proprietaria di luoghi e di impianti, quanto la padronanza ed il possesso dei prodotti, la casa locata non produce nulla di mobile portabile o vendibile, ma solo offre il comodo, il servigio, l'uso di essa come ricovero e soggiorno.
Lo Stato può imporre, e già in questo ha fatto un passo che è una sconfitta "teorica" della economia capitalistica, che un prodotto, per fissare l'idea un cappello, non sia venduto a più di cento lire. Ma per la stessa natura storica e sociale lo Stato attuale non può imporre di vendere a cento lire uno, due, mille cappelli, se il produttore e possessore non li porta al mercato di sua volontà. Lo Stato, si dice, può censire e requisire tutti i cappelli dovunque si trovano. In pratica sorge la difficoltà di scovare i cappelli e se si vogliono portare via pagarli tutti, sia pure a cento lire. Ecco perché il fatto economico noto a tutti è che, appena bloccato, calmierato e fissato di imperio il prezzo dei cappelli, questi spariscono dalla circolazione e vengono accaparrati per non venderli se non di nascosto, a prezzo maggiorato ancora di una quota a copertura, per il venditore, del rischio di ammende e prigione.
Il compratore subisce dunque il mercato non legale o nero, a meno di non andare senza cappello. Molte teste oggi vanno senza cappello, e molte vanno in giro vuote, specie quelle dei competenti di economia politica; ma sono gli stomaci a non potere andare in giro vuoti perché le gambe fanno cilecca: ecco perché nulla poté impedire la salita dei prezzi, oltre che dei cappelli, di tutti gli alimenti e generi di prima necessità.
Ora, la casa viene dal locatore al locatario fornita non pietra per pietra ma tutta intera appena il contratto ha corso: lo stesso padrone non vi può mettere piede senza permesso dell'inquilino. Mentre su ogni altro settore di mercato è arbitro del prezzo chi vende, poiché può sempre dire impassibile: ebbene, se non vi va il prezzo lasciatemi la merce, per le case è arbitro, dopo che è dentro, chi compra e paga. In via normale, se non paga i canoni successivi al primo o ai primi versati all'atto della stipula, o se paga meno, il padrone deve ricorrere ad una lunga e costosa procedura legale di sfratto, e raramente di recupero delle non pagate pigioni.
Nel caso generale è il compratore che deve cedere o correre a piagnucolare dallo Stato perché obblighi a vendere; in quello della abitazione è il venditore del servizio casa che non ha altra alternativa che chiamare lo Stato quando non lo pagano.
Lo Stato fece quindi la bella bravata: inquilini, opponetevi ad ogni richiesta di aumento di canone: pagate il vecchio affitto e non un soldo di più fino a guerra finita, e io mi guarderò bene dal dare i poliziotti per cacciarvi. Mentre il capitalismo industriale, commerciale e finanziario sfoderava tutti i suoi artigli di lupo e di tigre, il terribile Stato, democratico, popolare o nazionale che fosse, menò a buon mercato il vanto sociale e morale di aver tagliato le unghie alla timida gattina della proprietà urbana. Non arrivò a controllare né a discriminare un accidente, e bloccò tanto il canone che una povera famiglia di disoccupati versava ad un padrone di edifizi miliardario, quanto quello che per avventura un grande stabilimento industriale pagava per occupare la sola casetta che possedesse una famiglia di piccoli borghesi magri alla fame.
Come abbiamo ricordato, trionfava non il moderno indirizzo dirigista e pianificatore dei pubblici poteri per il generale interesse, ma il tradizionale articolo che compendia tutta la sapienza del giure borghese: "articolo quinto, chi tiene in mano ha vinto".
Questa misura, uscita senza sforzo dal cranio di Benito, è stata ereditata, difesa e sbandierata come facile elemento di successo, specie elettorale, da socialisti e comunisti di oggi, mentre Stato capitalista da una parte e capi proletari dall'altra, da allora ad oggi, in una ugualmente comune indifferenza ed impotenza, hanno dovuto assistere alla salita vertiginosa di tutti i costi ed alla depressione progressiva del tenore di vita di chi lavora, in guerra e dopo guerra: sbilancio a cui il tantum economizzato sulla casa è lontanissimo dal turare le dolorose falle.
Quanto questa politica di compressione della pigione, o di abolizione di essa col trasformare in piccolo proprietario l'inquilino, sia radicalmente non socialista, lo abbiamo a fondo mostrato con il richiamo al classico scritto di Engels, che ha ridicolizzato - traendone magnifiche lezioni sulla economia marxista - l'analogia tra il rapporto di inquilino a padrone di casa e il rapporto di operaio a padrone di azienda. Il lavoratore scambia la sua forza di lavoro con denaro; l'inquilino il suo denaro con la casa, a rate di uso di essa. Egli dunque non è un produttore sfruttato ma un consumatore: anzi un consumatore privilegiato perché tiene in pugno l'oggetto di consumo, mentre di norma lo tiene in pugno il venditore.
Comunque l'agitatore da tre soldi dice: nel caso del lavoratore, gli abbiamo evitato (Benito ed io) che al caro pane, al caro cappello e al caro scarpe si aggiunga il caro case, dunque è meno sfruttato.
Ma una breve analisi mostra che il peso sociale sulla classe lavoratrice, su cui tutto pesa e non può non pesare, non è diminuito per gli effetti della scema, sbilenca e trappolaria legislazione italiana sui fitti, siglata dai guardasigilli Grandi, Togliatti o Grassi.
Tagliata la rendita padronale, si è tagliato in vivo su quella contribuzione a fini sociali che provvede a mantenere in ordine la dotazione edilizia, risultato del lavoro di generazioni. Questo danno è di volume superiore in Italia a quello dei bombardamenti di guerra. In Italia il patrimonio edilizio specie di abitazione è di età media altissima e altissima è la quota di manutenzione: omettendola si accelera il degrado. Questo dovrebbe essere equilibrato da intensificate nuove costruzioni, che in ambiente capitalistico si arrestano del tutto perché il basso fitto impedisce di remunerare il capitale investito, e prima ancora per effetto generale della crisi economica di guerra.
Quindi la dotazione di abitazioni a disposizione della popolazione italiana non solo è diminuita in cifre assolute, mentre dovrebbe aumentare per ragioni demografiche e di disaffollamento e bonifica, ma il ritmo della diminuzione è stato aggravato dalla politica di blocco.
Ciò vuol dire che, diminuendo le case e crescendo gli abitatori, è cresciuto paurosamente l'affollamento, che era già uno dei peggiori di Europa, ed è soprattutto cresciuto a danno delle classi povere, compresse nelle case antiche e malsane, che pagano meno casa, ma ne consumano anche di meno, e spesso ne mancano del tutto.
Essendosi poi creata una strana sperequazione tra case bloccate e case a fitto libero, avviene che le poche costruzioni che si fanno si possono locare a qualunque prezzo: coi dati di costo di oggi il capitale si astiene da tutte quelle che non possono dare più di un 2.000 lire a vano e al mese, a dir poco; poiché un reddito netto di 20.000 lire annue non remunera che al 5% un capitale di 400.000 lire, che non basta a costruire il vano. Va a finire che tutti i contributi delle leggi speciali vanno a vantaggio delle case per le classi ricche, e per i poveri non se ne fanno: l'apparenza che il proletariato paghi con una aliquota minore del suo reddito la massa di case che una volta occupava, cede il posto alla realtà che i lavoratori pagano in mille forme, tra caro prezzi e tasse, restando nelle topaie, le case costruite per i signori.
In Francia hanno notato che mentre tra il 1914 e il 1948 tutti gli indici economici sono cresciuti duecento volte, quello pigioni è cresciuto sette volte! La classe operaia paga ora per la casa il 4% del salario, e si propongono di riportarla al 12%, il che non toglie che il capitale edilizio renda solo un quinto del normale, e quindi per le nuove case operaie lo Stato ne debba pagare i quattro quinti. Ora al lavoratore conviene più pagare la casa altrui ad alto prezzo, che pagare a prezzo medio la casa costruita "a proprie spese"! Quella assurda diversità di adeguamento di indici economici riportati alla moneta è una balordata, una delle tante del regime capitalistico, un elemento di più per il peso che l'anarchia economica determina sulle spalle dei lavoratori, non mai una prova che anche in campo ristrettissimo lo Stato moderno voglia, possa, sappia fare opera di "giustizia" e anche soltanto di mitigazione delle distanze sociali.
La legislazione italiana di oggi offre un altro capolavoro. Non potrebbero fare in qualche città un festival annuo delle leggi degli Stati di tutto il mondo, come a Venezia per i film? Alludiamo alle leggi Fanfani, che forse battono perfino il materiale offerto dai decreti e leggi Gullo-Segni in materia di riforma agraria.
Le leggi Fanfani dichiarano di non aver di mira la ricostruzione edilizia né la soluzione generale del problema delle abitazioni in Italia, ma l'ovviare al problema della disoccupazione.
La trovata non è spregevole, poiché la vastità del problema delle case in Italia ridicolizza le cifre di stanziamento delle varie leggi Tupini, Aldisio e così via, mentre certo ogni costruzione in più impiega qualcuno a lavorare. Anche i liberatori che sganciavano dalle fortezze volanti potevano con la stessa logica dire: diamo un contributo alla occupazione operaia.
Vediamo tuttavia il nuovo armamentario in rapporto alla necessità edilizia. Prima ancora dei danni bellici in Italia, senza rinnovare le case troppo vecchie e malsane, senza disaffollare dall'indice di 1,4 persone per ogni stanza abitata, si calcolava che, per l'aumento di abitanti e per il naturale degrado delle case, si sarebbero dovute costruire ogni anno 400.000 stanze nuove. Oggi, con un minimo apporto per colmare il danno di guerra e l'arretrato di costruzioni, e sempre senza la pretesa di disaffollare e migliorare, quindi a benefizio scarso delle classi male alloggiate, si dovrebbe arrivare almeno a 6000 mila@@ stanze annue di abitazione. Costo: almeno 250 miliardi annui.
C'è un grosso problema che non è ancora entrato nella testa dei pianificatori centrali, dei loro osservatori e laboratori di sapienza economica e statistica. Non occorrono solo abitazioni, ma costruzioni di ogni tipo, perché anche per queste giocano invecchiamento, danno di guerra, arretrato di rinnovi. Ogni vano di abitazione ne comporta altri due mediamente per lavorarci, fare pratiche varie, commerciare, e divertirsi: ciò malgrado abbiano aperte le case chiuse.
L'economista pubblico anteguerra aveva già concluso che per le abitazioni lo Stato doveva intervenire a fondo perduto con un 20%, oggi sa concludere che deve intervenire almeno per il 60%. Ma per gli altri vani, che sarebbero dunque 1.200.000 annui, prima si supponeva che sorgessero per privato investimento al di fuori di pubblici aiuti: oggi così non è, salvo che in una minoranza di casi, e quindi nei bilanci pubblici andrebbero altre potenti cifre.
Restiamocene alle case. Contro i 250 miliardi che servono "per non rinculare" che cosa danno tutte le leggi speciali? Forse la decima parte, sulla carta.
La legge Fanfani mobilita 15 miliardi annui statali, e inoltre contributi sul volume dei salari che per due terzi pagano i padroni, per un terzo i lavoratori. Senza tediare con calcoli, sarebbero a pieno regime del piano forse altrettanto, e quindi 30 miliardi. Non bastano per centomila vani annui, una sesta parte del minimo necessario. Il problema trascende le possibilità del regime presente. In pratica resta poi da vedere quanta parte dei 30 miliardi, che in sostanza paga la classe lavoratrice, sia pure in senso lato, andranno a finire non in case, ma in lauti profitti di imprenditori, mediatori di ogni genere, e piloti di carrozzoni finanziari e costruttivi.
Ed allora vediamo pure le cifre dal lato del problema disoccupazione. Il capitalismo e i suoi agenti organizzatori sindacali hanno già detto al nullatenente disoccupato: Hai fame? Vuoi mangiare? Ebbene, investi.
Investi, a coro bene intonato gridano l'ECA e il Cominform allo Stato italiano e alla classe operaia italiana. Quando investe il povero, pappa il ricco.
Fanfani, uomo di genio, che non crediamo discenda da quello del dizionario, e non bada al senso letterale, ha un'altra formula: hai fame? Costruisciti la casa. La formula è così intelligente che conduce ad una ulteriore economia: la casa la faremo senza cucina.
Descriviamo la società Fanfani, la Città dell'Ombra, in cui tutti sono muratori. Un milione di abitanti di Fanfània, coll'indice italiano anteguerra, abbisognano di 650.000 stanze. Supponiamo che una casa duri 50 anni; è già un ritmo moderno, superato solo in America, a cui aspirano in Francia; noi abitiamo in case vecchie di secoli e secoli. Ma al ritmo di una casa su 50 all'anno ci troviamo bene col programma italiano di 600.000 vani annui contro i circa 29 milioni di stanze che ospitano 45 milioni di italiani.
Il milione di fanfànici costruisce dunque ogni anno 13.000 stanze. Quanti lavoratori occorrono? Se una stanza costa 340.000 lire e per manodopera la metà, ossia 170.000, possiamo calcolare 200 giornate lavorative medie, e l'impiego al massimo di un lavoratore annuo. Dunque del milione lavorano solo 13.000 persone. Le altre 987.000 non lavorano, ma stanno in casa. Mangiare non mangiano, e del resto nessuno mangia, in Fanfània.
Veniamo alla conclusione che i cantieri Fanfani, a pieno ritmo, ossia dopo il primo ciclo settennale, impiegheranno per fare 100.000 stanze annue 100.000 lavoratori. A sua difesa dalle mende americane Pella ha rilevato che il solo incremento demografico gettò sul mercato ogni anno 200.000 nuovi lavoratori. Il piano Fanfani, dunque, non spianta né la peste edilizia, né la peste sociale.
Il più bello è che, mentre si vanta che finalmente si avranno case che saranno in effetti occupate da operai, il calcolo conduce ad un affitto talmente forte che un operaio coi salari attuali non lo può pagare.
Quando poi si tocca l'apice della casa in proprietà all'operaio, a parte il labirinto delle disposizioni per prenotare, assegnare, smistare, ereditare, cambiare se si cambia lavoro e residenza, ecc. ecc., si vede che l'assegnatario dovrà, per 25 anni, pagare una rata enorme. Essa corrisponde al costo di costruzione, maggiorato delle spese generali della Gestione Fanfani-case, diminuito del valsente del contributo statale dell'1% annuo, che sarà distribuito in rate costanti, oltre a tasse, contributi e spese condominiali. Provvisoriamente si è annunziata una rata di 1.100 lire mensili, ma un computo che per brevità omettiamo conduce alla previsione sicura di almeno 1.500 lire mensili per stanza, e quindi per una casa operaia modestissima 5.000 o 6.000. Nei nostri computi sul salario netto di meno di mille lire, a giornate non tutte lavorative, anche col francese 12%, il lavoratore non dovrebbe e non potrebbe spendere per la casa più di tremila lire, a parte le categorie privilegiate e specializzate.
Ne seguirà che, poiché le case pronte saranno sempre poche, e molti i lavoratori contribuenti, l'operaio italiano pregherà al mattino: Dio di De Gasperi, fammi vincere alla Sisal, ma non ai sorteggi delle case Fanfani.
Se, come per il blocco, si tiene conto che l'onere statale è onere della classe attiva e non dei ricchi, ben si vedrà come il lavoratore, se il piano avrà effetto, avrà forse una casa sua, ma la avrà pagata il buon doppio del suo valore di mercato, in rinunzie, sacrifizi e tagli sulla sua remunerazione reale.
Questi i miracoli dell'intervento dello Stato nell'economia, che sono poi gli stessi con la formula mussoliniana, hitleriana, rooseveltiana, con quella laburista e quella "sovietista" di oggi.
Non solo fino a che lo Stato è nelle mani della classe capitalistica, ma fino a che nel mondo vi saranno Stati capitalistici potenti, la pianificazione economica è una chimera, una fanfània universale. Ovunque e da chiunque sia essa tentata, non riuscirà a governare i fatti dell'umana soddisfazione e benessere, ma costruirà piedistalli al privilegio, allo sfruttamento e al saccheggio, al "tormento di lavoro" cui sottopone le popolazioni.
Da "Prometeo" n. 1, novembre 1950
Proprietà e Capitale
Quaderni di n+1 dall'archivio storico.
Il lettore d'oggi che pagina dopo pagina arriverà al capitolo finale in cui si tirano le somme sul piano politico, avrà la netta sensazione di avere tenuto fra le mani un libro straordinario. Presa dimestichezza con un linguaggio potente dal punto di vista letterario ma fuori da canoni della saggistica divulgativa, sarà costretto ad ammettere che il metodo d'indagine adottato ha permesso di intravvedere fenomeni poco evidenti all'epoca in cui il libro fu scritto e ancora in embrione nel 1991.