Quale rivoluzione in Iran? (2)
I comunisti e la soluzione rivoluzionaria dei problemi sociali arretrati

Fra il peso schiacciante del passato e il caotico urto del presente

Si legge che, nell'anno 873, il dodicesimo Imam scomparve "negli uomini" interrompendo la successione dei discendenti legittimi della famiglia del Profeta. "L'Imam nascosto non è morto e non morrà finché non avrà riempito la Terra di giustizia nel modo stesso in cui ora è piena di ingiustizia". La setta sciita dei Dodici Imam forma la religione di Stato persiana dal 1502; durante l'attesa del ritorno sulla scena della storia dell'Imam nascosto, che sarà il Mahdi, "colui che è guidato", il mondo ha visto sommovimenti grandiosi, l'intolleranza sciita si è accresciuta inglobando i resti dello zoroastrismo e, nell'ultimo e storicamente brevissimo lasso di tempo, il modo di produzione capitalistico è piombato dall'esterno a sconvolgere la società iraniana.

Nel 1951, parlando dell'Iran, e vedendo alcuni effetti collaterali della civiltà petrolifera già in atto nella vicina Arabia Saudita, ci chiedevamo "quali reazioni si déstino tra queste modernissime orge di affari e di piacere e la severa tradizione del Profeta". Chiusa, inabitata, improduttiva, l'Arabia Saudita ha assorbito le reazioni che l'Iran, via aperta come sempre tra Oriente e Occidente, con aree densamente popolate e un tardivo, violento decollo di produzioni capitalistiche, ha manifestato nel modo più incandescente. Ma l'opposizione religiosa a togliere il Chador alle donne, a consumare i prodotti "impuri" degli infedeli, e al dilagare dell'"immoralità" capitalistica non è che la superficie di tensioni ancor più gravi.

I giornalisti borghesi non ci tengono certo aggiornati sulla lotta di classe: quindi, a proposito degli ultimi avvenimenti, non abbiamo trovato un solo accenno al comportamento del proletariato. Sappiamo che alcuni sindacati "operai" hanno chiesto al governo una "lotta senza pietà contro i sovversivi"; ma questo è ben poco significativo. Tutto sembra indicare che gli operai siano assenti come classe dalla scena degli scontri attuali, mentre sappiamo che, prima delle recenti manifestazioni, avevano dato prova di una magnifica combattività, lasciando sul terreno numerosi caduti.

Viene spontaneo il paragone con i moti della Tunisia e dell'Egitto repressi spietatamente nel sangue; ma l'analogia si ferma al dato superficiale delle manifestazioni di piazza e dell'intervento armato dello Stato. Le radici del capitalismo tunisino ed egiziano sono più profonde e risalgono più addietro nel tempo; la ribellione delle masse povere vi era guidata da un solido nucleo proletario che caratterizzava il contegno di ogni componente di classe. Soprattutto in Egitto, le grandi manifestazioni del gennaio 1977 erano partite dalle acciaierie di Helwan, dalle fabbriche della cintura, dai latifondi del Delta; operai e salariati agricoli avevano via via trascinato nella rivolta le masse povere delle città, i garzoni e gli artigiani dei bazar, fino alla grande massa dei fellah nelle campagne lungo tutto il corso del Nilo.

In Egitto, l'influenza islamica sunnita, pur forte, è già stata intaccata dallo sbarco di Napoleone in poi, e il modo di produzione capitalistico ben radicato ha fatto il resto. Il "clero" sunnita non può che ricevere vantaggi dal governo, e lo appoggia nella sua funzione internazionale, anche se i legami con il latifondo non sono affatto secondari, mentre religiosi a contatto con la popolazione nella moschea o con gli studenti nella madrasa, la scuola coranica, e nell'università sono portati ad assumere posizioni radicaleggianti.

Radici dell'influenza degli ayatollah

In Iran, le riforme monarchiche dal 1906 in poi non hanno intaccato se non in superficie il potere della chiesa e della nobiltà feudale. Come del resto anche in Egitto e in situazioni analoghe, il capitalismo ha preceduto le riforme, che sono poi venute a sistemare dati di fatto. Ora si tratta appunto di sgomberare il terreno dai residui feudali che si oppongono allo sviluppo capitalistico, ma come non subire la contraddizione di una borghesia cresciuta all'insegna del compromesso con le classi feudali? La borghesia in genere non riesce a portare fino in fondo la sua rivoluzione se non fosse per la presenza del proletariato che, tentando ad assolvere questo compito per superarlo subito dopo, viene immediatamente individuato come un nemico da utilizzare, sì, ma da combattere non appena si spinga oltre certi limiti. Le borghesie legate agli interessi dell'imperialismo e giunte al potere in forme ibride avvalendosi di dinastie feudali e appoggiandosi su interessi che avrebbero dovuto spazzar via dalla storia, non possono risolvere il dilemma dello sviluppo quando ormai il problema abbia raggiunto una gravità acuta.

Dopo lo sconquasso storico causato dalla presenza napoleonica, l'Egitto ritrovò la strada dello sviluppo sotto il ferreo governo di Mehemet Alì, che massacrò i bey mamelucchi scampati alla ramazza bonapartesca e si rivolse subito all'Europa per introdurre le tecniche moderne. Pur rimanendo un despota orientale, egli non poté non combattere e distruggere la setta rigorista musulmana dei Wahhabiti, che predicavano la resurrezione di un passato ormai remoto; ridotta a vegetare in oscure lotte dinastiche, la setta quasi scomparve, relegata nelle zone interne dell'Arabia, e rinacque solo all'inizio del secolo con Saùd, quando aveva già perso gran parte del suo estremismo fanatico. Le stesse forze spinsero Alì contro l'Impero Ottomano per conto del quale aveva pur condotto fino ad allora vittoriose campagne. Oggi in Arabia è presente il Wahhabi proprio in quanto si tratta di un paese arretrato per cui ci fa sorridere chi afferma che l'arretratezza dell'Arabia si debba  al fatto che la monarchia è wahhabita.

Così pure l'Iran oggi è soffocato dal "clero" sciita proprio perché non riesce a svilupparsi, mentre è falsa la tesi contraria, sostenuta dallo scià per giustificare il fallimento dei piani di sviluppo. Se la "chiesa" sciita ha la forza di mettersi a capo di una gigantesca sollevazione come l'attuale, che esige dalle masse popolari un tributo di sangue enorme (e, dal punto di vista dei loro reali interessi, inutile!), è perché la borghesia iraniana, sin dalla fine del secolo scorso, al tempo della prima monarchia costituzionale, non ha potuto e saputo affrontare la vecchia società almeno alla maniera di Mehemet Alì. E neppure oggi, con i mezzi potenziali di cui dispone, riesce a svincolarsi dal suo compromesso: massacra le folle, ma non osa toccare i preti, o, se lo fa, è perché le sfugge la mano: l'assassinio dell'Imam "visibile" el Talkani e la scomparsa dell'Imam Moussa Sadr sono incidenti isolati; i militari che inseguirono due preti sciiti fin nella casa di Shariat Madari, abbattendoli e causando un infarto al prestigioso ayatollah ("segno di dio"), erano guidati dalla mano invisibile del capitale più che dai precisi ordini del governo. In un solo giorno, il 5 giugno 1963, gli obici e le mitragliatrici falciarono 4.000 manifestanti, ma l'ayatollah Khomeini fu semplicemente esiliato in Turchia e poi in Iraq, da dove continuò a incitare la folla. Secondo le organizzazioni persiane all'estero, si sarebbero contati negli ultimi mesi 15.000 morti e 100.000 prigionieri, ma Reza Pahlavi sa bene di non poter calcare la mano sugli ayatollah, perché sono gli unici che possono non dichiarare la guerra santa, come da più parti richiesto.

Ridicola è la posizione di coloro (fra cui sedicenti marxisti) che cercano di salvare qualche aspetto "progressivo" della "chiesa" sciita. I preti di moschea, i mullah, sono spesso a capo dei manifestanti, ma più per controllarne il movimento che per assecondarne lo slancio rivoluzionario. Il predicatore Rohani può definire "cane" lo scià, certo della propria incolumità; ma l'imperatore ha buon gioco nel ricordargli che i preti sono rabbiosi perché ha tolto loro terre e privilegi (per accordarli alla borghesia "agraria", naturalmente).

Miseria delle riforme agrarie dall'alto

Dopo il colpo di stato (1921) del nazionalista Reza Khan, padre dell'attuale scià, la borghesia tentò invano di instaurare la repubblica, ma l'intreccio di interessi con la nobiltà feudale proprietaria di terre dirottò la velleità riformiste verso l'istituzione di una nuova dinastia. Reza Khan fu acclamato scià nel 1926 dall'alleanza feudal-borghese e, mentre chiamava in Iran tecnici, esperti e capitali americani, varò una riforma agraria "dall'alto" il cui effetto fu di rafforzare i latifondisti e impoverire ulteriormente i contadini.

La borghesia iraniana, in quanto "alleata innaturale" delle classi feudali, è costretta ad una continua tensione fra lo slancio capitalistico e il freno rappresentato dalla sua origine rurale. Come quasi tutti i modelli di riforma agraria dall'alto, anche la moderna riforma di Reza Pahlavi si basa su una limitata espropriazione dietro indennizzo delle terre peggiori, con creazione di una banca che in genere  ha la funzione di scontare il credito del proprietario espropriato e distribuire la terra ai contadini. Prima del varo ufficiale della riforma, lo scià annunciò la vendita del capitale azionario di alcune fabbriche statali per la copertura finanziaria della riforma stessa. I proprietari furono espropriati, ma con la possibilità di ricevere, in anticipo dalla banca della riforma, il denaro con cui acquistare le azioni delle imprese industriali. Così diventa identità fisica l'identità di interessi tra borghesia e feudalesimo, e la contraddizione assume forme macroscopiche.

Dal 1926 al 1932, sotto Reza Khan, furono promulgate leggi per la registrazione dei rapporti di proprietà, e in un gran numero di casi i contadini analfabeti, che basavano l'utilizzo privato del suolo più sulla tradizione che sul catasto, si videro privati della terra, accaparrata dai proprietari che disponevano di appoggi di ogni genere tra i funzionari governativi. Lo stesso Reza Khan si fece assegnare in proprietà 2.176 tenute, molte delle quali comprendenti interi villaggi, con 49.117 famiglie composte da 300 mila contadini. A riprova del meccanismo costante di tali operazioni, quando Mossadeq indusse l'attuale scià a restituire allo Stato l'eredità di una simile estensione di terre, il provvedimento fu subito revocato non appena, con l'aiuto dell'esercito e degli americani, la situazione si fu "normalizzata". Fu fondata una banca allo scopo espresso di vendere le terre e versare subito l'importo per dirottare i capitali verso più lucrose speculazioni, specialmente nel boom edilizio.

Dopo la riforma la grande proprietà fondiaria scese dal 65 al 56% del totale del suolo, la terra dei Waqf (istituti religiosi) rimase il 15%, quella dello Stato passò dal 5 al 4% e la piccola proprietà dal 15 al 25%. Ma la condizione del contadino senza terra non migliorò affatto, anzi peggiorò in seguito alla concentrazione del capitale in mano ai proprietari fondiari cui era rimasto il suolo migliore e che quindi erano in grado di produrre raccolti concorrenziali rispetto ai piccoli contadini, precipitandoli nel solito ciclo indebitamento-ipoteca-abbandono della terra.

L'articolo 2 della riforma agraria afferma: "In tutto il paese la proprietà fondiaria di una persona sarà limitata ad un solo villaggio. I proprietari di più villaggi possono sceglierne uno: il resto verrà distribuito secondo le disposizioni della presente legge. Escluse da questa legge sono tutte le piantagioni di frutta e di tè e in oltre tutti gli appezzamenti di terreno che vengono lavorati meccanicamente". Una tale imprecisione nel descrivere le condizioni di esproprio non può che portare all'alienazione da parte del latifondista della sola terra di cui vuole effettivamente disfarsi. Inoltre, il piccolo contadino, già indebitato per l'acquisto del suolo, dipende dal latifondista per l'acquisto delle sementi, l'uso delle macchine, bestiame e attrezzi, ma soprattutto per l'utilizzo dell'acqua. Da millenni in Iran l'irrigazione viene attuata con i qanat, sistemi di canali sotterranei che, contrassegnati da lunghe file di pozzi per la manutenzione, collegano le falde sotterranee dalle alture fino alla terra fertile. Con una rete che raggiunge i 300.000 km per i 22 mila qanat, l'Iran provvede così al 75% del suo fabbisogno d'acqua. "La divisione di grandi latifondi in piccole proprietà con la nuova politica di distribuzione fondiaria, come pure l'uso di macchinario agricolo moderno, hanno reso difficile ai singoli proprietari terrieri di poter sostenere la spesa per nuove costruzioni di qanat o per la manutenzione di quelli esistenti". Ne segue che chi dispone di capitali tiene in funzione il sistema incaricando il sovrintendente delle acque di riscuotere il prezzo del servizio; oppure, se la faccenda risulta improduttiva capitalisticamente parlando, il possessore di capitale apre una serie di pozzi per sé pompando meccanicamente l'acqua sulle proprie colture, spesso distruggendo l'equilibrio delle falde idriche e lasciando all'asciutto gli altri.

Fino al 1964, la creazione di società cooperative tendenti a mettere a frutto i capitali destinati dallo Stato all'agricoltura non dette risultati positivi. La grande dispersione delle unità produttive portò ad una distribuzione ad ogni contadino di 2.500 rial, circa 20.000 lire, che non furono "investite" ma utilizzate per acquistare prodotti di più urgente uso personale. Il capitale, per valorizzarsi, deve poter agire in modo concentrato in grandi unità produttive e a certe condizioni, ma neppure la creazione di "Società Anonime Agricole", raggruppamenti di neoproprietari per una gestione centralizzata della produzione, dell'acquisto e della vendita sotto la direzione di funzionari dello Stato, ha portato a qualche risultato generale, oltre a quello di arricchire i più ricchi.

E' una questione vecchia quanto il marxismo. La legge per la creazione delle SAA auspica che "le azioni di ciascun azionista non siano inferiori all'equivalente di 20 ettari di terra irrigata o 40 di terra non irrigata". Essendo la media dei nuovi poderi inferiore ai 2 ettari, è chiaro che, con l'andar del tempo, all'interno delle SAA i grandi azionisti, ex proprietari ingranditisi con l'acquisto di terre espropriate, diventeranno grandi proprietari rilevando le quote azionarie dei piccoli proprietari, incitati per forza di cose ad abbandonare il suolo. Ancora coerente col modo di impiego del capitale è il risultato della legge 1975 sui poli di sviluppo agricolo: per evitare la dispersione degli investimenti e delle facilitazioni statali all'agricoltura, la legge prevede facilitazioni per 20 zone di sviluppo con un'estensione potenziale di 180.000 ettari al fine di provocare "uno scoraggiamento positivo fuori dei limiti dei poli" e una migrazione della popolazione semibarbara che vive ai limiti delle zone fertili. Ma la localizzazione degli insediamenti umani e la migrazione dei nomadi non seguono il capriccio degli uomini: hanno ben precise determinazioni storiche, geografiche, climatiche, fissate nell'arco di millenni. Circa l'80% del territorio persiano è inabitabile e buona parte fornisce il foraggio al passo degli armenti, foraggio magro ma spontaneo, equivalente in unità foraggere all'intera produzione cerealicola dell'Iran. I prodotti dell'allevamento su questi terreni equivalgono a un quarto del valore aggiunto totale del settore agricolo.

Quello di contrastare la dispersione naturale della popolazione sul territorio è un effetto tipicamente capitalistico; ma l'impatto su una società millenaria travolta da uno sviluppo vertiginoso non può non essere catastrofico, molto più che rispetto agli eventi simili del passato. Rivendichiamo l'effetto rivoluzionario di questo impatto, ma sosteniamo il programma di una società che sappia abbattere il potere malefico dell'accumulazione capitalistica col suo accentramento e spreco di risorse, per porre l'alternativa di una distribuzione sul suolo in funzione dei bisogni umani, a scapito - cosa inconcepibile per il capitale - di aumenti della produttività d'impresa e a favore di una "produttività" sociale.

Il cieco modo di agire del capitale

A prescindere dall'abbandono degli insediamenti, delle sorgenti, delle piccole opere d'irrigazione, e della conseguente degradazione dell'ambiente, il cieco modo d'agire del capitale ha ripercussioni negative anche a breve termine. Non sosteniamo certo la sopravvivenza del nomadismo semibarbaro, che ancora nella metà del XIX secolo in Iran era la condizione di un terzo della popolazione; ma l'incapacità organica del capitale a rinunciare al profitto (quando non al sovrapprofitto) impedisce di stanziare in modo naturale queste popolazioni e ne fa ricadere l'onere su tutta la società. Così, la maggior parte delle rendite astronomiche dovute al petrolio è stata divorata da progetti faraonici che hanno avuto il solo effetto di aggravare la situazione di partenza. Nel caso specifico, la importazione di cereali, di soia e mangimi a copertura di una quantità di foraggio ora gratuito, da una parte ha condotto alla rovina i produttori locali che non possono far concorrenza per esempio agli Stati Uniti e al Canada, dall'altra ha contribuito e contribuisce a rendere sempre più marcata la dipendenza dall'imperialismo.

A riprova di quanto affermiamo, sta l'esempio della piccola Assuan persiana: la diga di Dez, nella provincia di Khuzistan. Finita nel '62, doveva valorizzare con l'irrigazione 95.000 ettari di terreno. Nel 1974 vi erano 20.000 ettari irrigati, dopo che 38.000 famiglie contadine erano state espulse da 57.000 ettari e la terra data a quattro compagnie giganti tipo agrobusiness. Idem per Aras e Scià-Abbas, finite rispettivamente nel 1968 e nel 1970. Intanto le importazioni alimentari crescono del 14% all'anno in un paese tradizionalmente esportatore di prodotti agricoli. Il capitalismo internazionale non sogna altro, come ben sottolinea un rapporto della Banca Mondiale redatto nel 1974 dalla Banca Iraniana di Sviluppo Agricolo: "l'Iran può ancora importare molti prodotti agricoli meno cari che se li producesse in loco. Le importazioni possono dunque essere utilizzate per ridurre i prezzi al consumo".

Perfetto. Nel frattempo, qualche altro milione di contadini andrà ad ingrossare le miserabili periferie di Teheran, Isfahan, Mashhad, Tabriz, Abadan, nomi di città che tutti abbiamo impresso nella memoria leggendo sui giornali le quotidiane notizie degli scontri e dei massacri di operai e contadini.

Appena intravisti i buoni affari, il capitale internazionale si è precipitato con un'avidità senza precedenti sui petroldollari persiani e, con buona pace dei teorizzatori delle mene dei cattivi imperialismi che travolgono la cultura nazionale, ha creato, del tutto spontaneamente, delle isole di "sviluppo" perfettamente funzionali ai suoi bisogni, divoratrici di impianti, macchine e miliardi, utili solo a sfogare la sua frenesia di espansione. Mossadeq, appoggiandosi alla piccola borghesia fanatica dei bazar via via rovinata dai traffici con l'Occidente, voleva nazionalizzare il petrolio pensando così di appropriarsi una ricchezza. La terra e il sottosuolo appartengono nell'antichità ai Re e oggigiorno ai popoli, ma non è il loro possesso che dà ricchezza, bensì il loro uso. "Non è consegnando i pozzi perché si insabbino ad un regime impotente, o passandoli ad altra occhiuta banda esercente, che si miglioreranno le condizioni delle masse povere persiane", dicemmo all'epoca. Nel 1954 l'Iran affidò lo sfruttamento del petrolio ad un consorzio internazionale formato per il 40% di interessi inglesi, 40% americani e 20% francesi-tedeschi, conservando il 50% dei diritti sulla produzione. Oggi (il dato è del 1976) ne ha il 90% e la questione dell'utilizzo della rendita non è cambiata. Quand'anche si stabilisse che la proprietà dei pozzi è al 100% dello Stato, e la disponibilità del petrolio fosse totale, non si sarebbe fatto che aggiungere un punto alla "trama comune del monopolio che la borghesia imprenditrice mondiale esercita sui mezzi di produzione e sui prodotti del lavoro sociale in tutto il mondo […] La borghesia moderna unisce il suolo al capitale, fa della terra articolo di commercio e separa proprietà da sovranità". E' l'Occidente che consuma il petrolio, lo paga, produce ciò di cui ha bisogno l'Iran, glielo fornisce e si prende i dollari più un tanto. L'Iran, come altri paesi, diventa riserva di caccia privilegiata per investimenti occidentali, e qui il "benessere del popolo" passa necessariamente in ultimo piano.

Dal 1974 al 1977 l'Iran ha incassato 80 miliardi di dollari in rendite petrolifere e li ha spesi tutti: in dighe, fabbriche, centrali termiche e nucleari, armi. Ma nel 1977 è stata razionata l'energia e le fabbriche si sono fermate, quando si calcola che basterebbe il 50% del gas naturale che fuoriesce dai pozzi (di solito bruciato nell’aria) per fornire tutta l'energia necessaria all'industria petrolchimica. Le merci accorrono da tutto il mondo, ma nel 1977 l'Iran ha pagato due miliardi di dollari di indennità per ritardi nelle operazioni di scarico nei porti insufficienti – cifra pari a tre volte l'ammontare di tutte le esportazioni non-oil. Nel 1978 l'export petrolifero sarà di 22 miliardi di dollari, mentre le esportazioni non-oil si aggireranno sui 0,7 miliardi e non copriranno neppure il 5% delle importazioni. Il Prodotto Nazionale Lordo è cresciuto dell'11,8% all'anno in termini reali nel quinquennio precedente il 1973, del 34% nel '74, del 42% nel '75, ma, escluso il petrolio, abbiamo tassi del 7 al 9%, col 17% della produzione industriale e il 5% di quella agricola; segno che i prodotti dell'artigianato (tappeti, pelli) assorbono ancora una grossa quota della produzione complessiva. L'industria contribuisce per il 30% circa alla formazione del PNL non-oil e occupa due milioni di persone, ma le vere imprese industriali assorbono non più di 450.000 unità e il 60% dell'attività industriale è concentrato nel settore dei beni non durevoli. I programmi in corso di attuazione hanno un aspetto faraonico, ma se guardiamo la cifra del personale che si dichiara occorrente nei prossimi cinque anni troviamo: 1.300 laureati, 6.200 tecnici, 4.500 operai specializzati – il prodotto annuo di una media città occidentale.

Il regime iraniano vanta una potenza militare considerevole, e infatti le tre armi possiedono 2.000 carri, 60 navi, 500 aerei modernissimi; ma non un solo pezzo viene fabbricato in loco, né sono autonomi l’addestramento e la manutenzione; sono 35.000 i "consiglieri" che provengono dai soli Stati Uniti, come dire che le forze armate non appartengono all'Iran, essendo impossibilitate a muoversi se non in sintonia coi "fornitori".

Potenzialità di classe del giovane proletariato iraniano

La realtà dell'Iran è quella di uno sviluppo capitalistico all'insegna dell'invasione grossolana dovuta alle esigenze di espansione dell'Occidente, senza un minimo di strutture capitalistiche radicata tradizionalmente nel paese. Tutto vi è importato e accatastato alla rinfusa, senza una rete organica, non diciamo di infrastrutture, ma neppure di connessioni tra i singoli investimenti. La disoccupazione è alta, ma il miraggio di un salario ha già fatto accorrere 200.000 persone dall'Afganistan, dal Pakistan, dall'India. In questa situazione il contadino cacciato dalla terra, l'artigiano, il garzone e il commerciante dei bazar rovinati dalla concorrenza delle merci occidentali si stringono attorno alla moschea, tradizionale luogo di ritrovo e discussione oltre che di meditazione e preghiera. Il prete sciita, amministratore spirituale ed economico di una popolazione credente ed ultra-praticante, si trova per forza di cose in testa alla folla. Oltre tutto il mullah è anche l'esattore delle imposte religiose per la moschea: il Khoms, applicato ai commercianti ed equivalente a un quinto del reddito, spesso integrato dal radè mazalem, dono purificatore per mondare l'attività mercantile, considerata impura dal Corano; lo zahat applicato ai contadini e agli allevatori. Una volta rovinato il contadino, con l'allevatore, il commerciante e l’artigiano, nella mani del capo della corporazione dei bazar, mandatario dei mullah, per la moschea resterebbe ben poco. In un sistema in cui il bazar finanzia direttamente l’organizzazione religiosa, le sue scuole, i suoi edifici pubblici, la sua rete assistenziale, famosa e sacra per gli sciiti fin dall'antichità, l'unione tra la folla e i suoi predicatori diventa un dato di fatto dalle potenzialità esplosive.

Su questa scena e in questo frangente il proletariato partecipa alle lotte in posizione trainante rispetto alle classi rovinate, ma resta assente come classe per sé, non essendo riuscito a sviluppare una organizzazione politica. Su due milioni di proletari, ben 1.550.000 sono nell'edilizia e in laboratori con meno di 10 dipendenti. Certo il proletariato era alla testa delle grandi manifestazioni degli ultimi mesi, ma l'esiguità e la dispersione delle sue forze non gli permettono di portare il suo contributo politico a questa lotta che va chiarita nelle sue componenti: borghesia contro aspetti feudali della società; classi arretrate come i contadini e le corporazioni dei bazar con il clero sciita in difesa dei loro interessi antistorici; contadini poveri e salariati agricoli, operai e sfruttati delle botteghe artigiane contro bestiali condizioni di sfruttamento dovute al ritmo di sviluppo del paese.

Anche se numericamente minoritari, i salariati delle fabbriche e delle botteghe, rappresentano l’embrione di un vero proletariato. Essi hanno enormi possibilità di sviluppo e il loro peso va ben oltre la rappresentanza percentuale sulla popolazione. Sempre più i contadini poveri seguono i capitali che, con le riforme agrarie, si sono spostati dalla campagna alla città; finito il carrozzone degli investimenti a ruota libera, gli impianti cominceranno comunque a rappresentare entro breve tempo una realtà produttiva importante, che si ritorcerà contro l'Occidente – come del resto è successo in altre aree. Sebbene la corrotta e flaccida borghesia persiana sia legata a filo doppio alla ridicola monarchia, l'enorme cascata di dollari petroliferi non mancherà di causare una selezione tra i parassiti che non sanno staccarsi dalla vecchia società e una vera classe imprenditoriale. In paesi come l'Iran, quest'ultima non può non essere portata alla rendita, alla speculazione edilizia, allo sfruttamento personale di condizioni che richiedono servizi moltiplicati dall'irrazionalità e dall’anarchia imperante; ma la classe borghese in generale non tarderà a scoprire l'anacronismo del trono, l'intralcio della doppiezza rappresentata dall'essere insieme imprenditrice e cortigiana, dedita ai peccati dell’Occidente e bigotta.

Lo stesso scià, vero satrapo, emulo dei suoi antenati nel maneggio del potere, non può non farsi portavoce del ribollire di condizioni materiali che spingono contro la vecchia società di cui è figlio. Contrapponendo il suo "nazionalismo positivo" al "nazionalismo negativo" di Mossadeq, egli ne ha ripreso a modo suo la battaglia. Si fa paragonare a Ciro il Grande, ma sorvola sulla saggezza e la magnanimità del monarca idealizzato da Senofonte: quando si tratta del prezzo del petrolio, nel 1973 a Teheran, è il primo a voler trarre i massimi vantaggi dagli aumenti, come è il primo a lanciarsi in speculazioni industriali con il colossale affare dell'acquisto del 25% della Krupp e l'apertura dei cantieri oltre che dei pozzi petroliferi. Proprio l'apertura dei cantieri ha fatto gioire l'Occidente più di quanto non l’abbia fatto piangere per la minaccia di chiusura dei rubinetti di Abadan e di Bandar Mashur, e già nascono dispute sui prezzi dei prodotti industriali che salgono, mentre il prezzo del petrolio è stabile. Con l'aumento della produzione nazionale di manufatti si giungerà inevitabilmente a forme pure di concorrenza.

L'imperialismo occidentale non può permettersi di lasciare l'Iran, il suo petrolio, la sua capacità di assorbire esportazioni di impianti, la sua posizione strategica tra est e ovest sulla via del petrolio per il Giappone e per l'Europa. Ma la sua permanenza nel paese pupillo non farà che aumentare la possibilità che il proletariato comprenda quale formidabile arma ha sotto mano. Guai se arrivasse – ma ci sta arrivando – allo sciopero, invece che nei bazar, nelle ramificazioni delle vie che portano l'oro nero alle navi in attesa. Guai per l'imperialismo se il proletariato delle metropoli, entrato in azione sotto la guida del partito rivoluzionario marxista moltiplicasse per milioni di volte l'esigua forza dei fratelli di classe nei paesi chiamati a saziare l'orribile fame del capitale.

Il dodicesimo Imam, scomparso negli uomini non tornerà, e non sarà dato all'Iran di vedere il Mahdi errare sbigottito tra le raffinerie. Al "regno della pace e della bellezza" si giungerà in tutt'altro modo.

Note

[1] Patria economica? In "Battaglia Comunista" n. 12, 1951: ora in I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, ed. Quaderni Internazionalisti pagg. 149-160.

[2] Corriere della Sera, 17-8-1978.

[3] Secondo la vecchia costituzione, il clero sciita aveva il potere di cassare le leggi ed erano presenti 5 ulema nell'esecutivo.

[4] Bahaman Nirumand: La Persia, modello di un paese in via di sviluppo, ed. Feltrinelli, Milano, p. 149.

[5] Le Scienze n. 4, dic. 1968.

[6] Le Monde Diplomatique, luglio 1978.

[7] Le Monde Diplomatique, luglio 1978.

[8] Patria economica?, cit.

[9] Patria economica?, cit.

[10] Nel 1930 le raffinerie di Abadan avevano una capacità di 5 milioni di tonnellate annue di greggio e occupavano 20.000 persone, per lo più non persiane. Solo ad Abadan nel 1930 furono assunti dalla Anglo-Persian Oil Company (Iranian dal 1935), 4.000 operai indiani. Per il suo sviluppo, la Compagnia prevedeva un consumo annuo di 70.000 tonnellate di cemento, che fu tutto importato, con la ghiaia, la sabbia e il vestiario, la frutta e la verdura necessari ai dipendenti.

[11] Attraverso lo stretto di Hormuz passa l'85% delle importazioni petrolifere del Giappone, il 70% di quelle europee e il 30% di quelle americane.

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