29. Come un logaritmo giallo (2)
Ovvero: irrazionalità e immediatismo dell'economia politica

Struttura del protocollo

La prima parte del documento in esame, intitolata Politica dei redditi e dell'occupazione, inquadra i problemi da risolvere e indica i tempi tecnici di attuazione con le verifiche periodiche. Si tratta di una dichiarazione d'intenti per le politiche governative da mettere in sintonia con l'accordo fra le parti sociali.

La seconda parte è intitolata Assetti contrattuali e sviluppa i temi che abbiamo visto.

La terza parte è intitolata Politiche del lavoro e tratta i problemi dell'occupazione giovanile, della disoccupazione e degli interventi per attutirne l'impatto sociale.

La quarta parte, intitolata Sostegno al sistema produttivo, è quella di gran lunga più estesa e più importante dato che tratta dell'intervento dello Stato nell'economia.

Da un punto di vista materialistico i punti del documento appaiono con una sequenza logica rovesciata e, naturalmente, dal punto di vista dell'analisi scientifica vale zero perché non contiene, né potrebbe contenerlo, uno studio sulle cause dei fenomeni che si vogliono combattere per migliorare lo stato dell'economia e dell'occupazione.

Il punto centrale è chiaramente quello sul sostegno del sistema produttivo e la sequenza logica dovrebbe essere questa:

1) Ricerca delle cause che provocano lo stato di crisi e quindi rendono necessario un intervento congiunto tra Stato, industria e sindacati per il sostegno dell'economia. Questa parte non solo manca, ma non può esserci perché dovrebbe essere una condanna del capitalismo.

2) Interventi sul sistema produttivo. Non al quarto punto ma al secondo, visto che tutto il resto serve per mettere in atto tali interventi. Mancando la prima parte, come vedremo, tali interventi si limitano a prendere atto di una situazione in realtà non capita e a parlare del tentativo inconcludente di colorare i logaritmi.

3) Politica del lavoro. Se gli interventi sul sistema produttivo fossero adottati e applicati secondo l'analisi scientifica delle cause poste al punto primo, non ci sarebbe bisogno di inventare una particolare politica del lavoro, dato che essa sarebbe implicita nel buon funzionamento dell'economia e la disoccupazione, giovanile o no, non esisterebbe.

4) Assetti contrattuali. Posto che il capitalismo sia un sistema migliorabile, come da troppo tempo i nostri avversari destri e sinistri vanno predicando, non si capisce da dove possa nascere l'esigenza incessante di incanalare i conflitti in una regolamentazione legale. Se si trattasse del buon funzionamento delle aziende, sarebbe sufficiente una disciplina interna con poche regole come per il processo lavorativo, diverse caso per caso come sono diversi i casi dei processi materiali della produzione. Invece la raccolta delle leggi, dei contratti e delle sentenze che fanno legge raggiunge ormai dimensioni enciclopediche, dovrebbero avere valore universale, essere impugnate erga omnes, nei confronti di tutti, come recita il testo (10).

Invece risulta che il conflitto economico e immediato è insopprimibile, non regolamentabile, sempre risorgente per chiedere l'applicazione di una regola elusa o la definizione di una regola nuova o, meglio ancora, per chiedere qualcosa che va fuori da ogni regola. Il lavorìo intorno ai cosiddetti assetti contrattuali è il prodotto di una realtà che rappresenta una delle massime contraddizioni del capitalismo, l'ineliminabilità della lotta di classe. È per questa sua natura che il conflitto economico ha la possibilità di maturare in conflitto politico cambiando completamente gli obiettivi.

Se così non fosse potremmo dichiarare fallito il marxismo e dedicarci alle nostre attività private. Ma così è. Dialetticamente il capitalismo ha bisogno di "assetti contrattuali" definiti una volta per tutte, mentre si trova nella condizione reale di discuterli in continuazione. Visto che è costretto, vorrebbe imporre assetti nuovi e profittevoli per la sua tranquillità sociale, ma di nuovo non c'è nulla, dato che tutto è il risultato di rapporti di classe che non sono cambiati; perciò si trova di fronte ad una giostra con immagini ricorrenti. I consigli di fabbrica dell'interguerra furono sostituiti con le corporazioni fasciste e queste con le commissioni interne che rispecchiavano il sindacalismo ante-consigli. Ma le commissioni interne, affiancate dai consigli di gestione misti, durante tutta la durata patto del lavoro per la ricostruzione, volevano avere dei germi di controllo operaio, mentre rispecchiavano un meccanismo molto simile al corporativismo fascista. Le commissioni furono sostituite più di vent'anni fa con una riedizione dei consigli di fabbrica ed ora con il Protocollo si vuole sostituire ancora questi ultimi con le rappresentanze unitarie, brutta copia delle vecchie commissioni interne.

Il tutto sovrastato dall'impegno fra le parti, cioè governo, industria, sindacati, di trovarsi periodicamente per valutare, modificare, controllare, decidere sull'andamento della politica del lavoro, dei redditi, industriale, fiscale, previdenziale e chi più ne ha più ne metta. Come la nostra corrente ha dimostrato, questa è continuità con il fascismo, un tema che abbiamo già trattato nella Lettera scorsa e che ha attinenza con il punto che mettiamo per ultimo nel nostro provocatorio stravolgimento della scaletta trinitaria.

5) Politica dei redditi e dell'occupazione. Questo punto, che è il primo nell'originale, dovrebbe essere, in una impossibile struttura scientifica borghese dell'analisi, il coronamento dei passi precedenti. Stabiliti quali sono i problemi e stabiliti gli interventi, le "parti sociali" si impegnano a coordinarsi per renderne efficace l'azione. Ci si inserisce in Europa, dice il testo, e questa frase sottolinea la centralità del problema di ottenere una bassa inflazione, una riduzione del debito pubblico, una maggiore efficienza delle aziende non sottoposte alla concorrenza e quindi anche dell'amministrazione pubblica. Risultato: riassorbimento della disoccupazione e garanzia del potere d'acquisto dei "redditi". E, naturalmente, controllo dei prezzi.

Ci siamo sostituiti per un momento al capitalista soltanto per dimostrargli che il suo ordine mentale rispecchia il disordine sociale di cui è esponente. Che cosa si otterrebbe, infatti, con l'inversione del procedimento analisi - azione politica? Niente. Anche con la scaletta invertita dovremmo capitolare, come capitalisti, di fronte al marxismo e ammettere che non c'è nulla da fare.

Una rivoluzione vittoriosa non potrebbe eliminare il capitalismo per decreto. Esso sopravviverà il tempo indispensabile alla congiunzione fra politica ed economia, dato che in epoca di rivoluzione il cambiamento sociale procede più rapidamente di quello economico, fenomeno che abbiamo chiamato "rovesciamento della prassi" (11). Ma l'economia capitalistica potrà essere guidata velocemente verso la sua definitiva scomparsa soltanto con l'utilizzo degli strumenti scientifici di comprensione e di dominio dei suoi meccanismi.

Affronteremo dunque il Protocollo con il nostro metodo e vedremo alla fine che, ponendosi nell'ottica del rivolgimento sociale ed economico invece che in quella della sua conservazione, c'è di meglio da fare che cercar di dipingere logaritmi.

Sostegno al sistema produttivo: origini e fine del keynesismo

La politica italiana fu keynesiana prima di Keynes (a dimostrazione che la teoria di questi veniva a posteriori rispetto al reale movimento del capitale) e lo è sempre stata fino a oggi. Il Protocollo rimescola un po' le carte ma non innova.

Nel periodo fra le due guerre l'economia volgare andò verso il suo disastro definitivo: gli studi sulle fluttuazioni economiche, accompagnati da robusti apparati statistici e matematici, si infrangevano contro l'avanzata di una crisi che appariva illogica. La disoccupazione giungeva nei paesi industriali a punte inaudite del 20% della forza lavoro esistente, quindi i salari reali si abbassavano drasticamente e con essi i tassi d'interesse. Per gli economisti i due fattori dovevano essere sufficienti per dimostrare la redditività di nuovi investimenti. Ma i capitalisti non investivano e la crisi non si mostrava affatto ciclica. Ci volle una guerra mondiale per rivitalizzare l'economia entrata in depressione.

Quando Keynes disse che quel meccanismo poteva andare bene per un determinato ramo industriale ma non per tutta l'economia, vi furono ovviamente le resistenze dei cattedratici. Per loro i prezzi erano determinati in varia misura dai salari e non era vero che abbassando i salari si sarebbe ridotto il consumo. Abbassando i salari si sarebbero ridotti i prezzi, e quindi anche i salari bassi avrebbero avuto maggiori possibilità di tramutarsi in consumo.

Qualche economista continua a dire tutt'oggi le stesse cose, incurante del ridicolo, ma andiamo con ordine. Che cosa era successo negli anni tra le due guerre mondiali?

Semplicemente che il capitalismo era irreversibilmente maturato. Nel 1926 la Ford produceva due milioni di vetture l'anno con 200.000 dipendenti, più o meno come la FIAT attuale con 100.000. Citiamo solo la Ford, per non dilungarci, ma l'economia in cui si verificava quel fenomeno era un fatto globale, la Ford non era semplicemente una fabbrica ma un sistema di fabbriche legato ad altri sistemi di fabbriche. Tale fatto non avrebbe mai più permesso un normale ciclo di crisi: di abbassamento naturale dei salari, dei prezzi all'ingrosso e al dettaglio, dei tassi; non avrebbe mai più permesso un successivo aggiustamento dovuto alla pulizia fra i rami meno competitivi, alla nuova redditività degli investimenti e alla successiva ripresa.

Aveva ragione Keynes, anche se non pensava minimamente di criticare la teoria "classica": il vecchio meccanismo di regolazione ora poteva andare bene per una fabbrica fortunata, cui si fosse presentata l'occasione unica di abbassare salari trovandosi nel contempo prezzi di approvvigionamento bassi e buoni interessi sui capitali presi a prestito, ma non per l'insieme del sistema di fabbrica. Se un singolo capitalista riesce ad abbassare i salari è ovvio che riesce anche ad aumentare il profitto; se riesce ad abbassare i prezzi farà concorrenza agli altri e aumenterà la produzione aumentando ancora il profitto (anche se forse solo la massa a discapito del saggio). Ma ha bisogno di quello che gli sta intorno per vendere, soprattutto ha bisogno che salari, prezzi ecc., riguardanti gli altri capitalisti, rimangano costanti.

Dalla Grande depressione in poi l'aggiustamento automatico attraverso la crisi produrrebbe effetti così devastanti che l'intervento dispotico nell'economia è indispensabile. Come abbiamo ricordato in una "Lettera" precedente (12), nella crisi borsistica dell'87 furono bruciati cinque milioni di miliardi di lire nelle maggiori borse mondiali, percentualmente più che nel grande crack del 1929; eppure gli effetti non furono così tragici per l'economia. La spiegazione sta in parte nei meccanismi che dal 1929 sono stati escogitati per evitare disastri, ma soprattutto sta nel fatto che, mentre la crisi del '29 scoppiava per la prima volta al culmine di un periodo di accumulazione mai visto, quella dell'87 scoppiava in un mondo che viveva da sessant'anni in crisi di accumulazione.

Tra le due guerre il bilancio dello Stato in pareggio era un punto fermo della teoria economica, e il finanziamento spinto della spesa pubblica era visto come un espediente che avrebbe solo drenato risparmio dal settore privato ritenuto più produttivo. Quindi il rimedio si sarebbe dimostrato peggiore del male. Oggi il cosiddetto deficit spending, la politica di deliberato disavanzo a sostegno della produzione, è la norma di vita di tutti gli stati del mondo.

Keynes volle dimostrare che il ragionamento degli economisti "classici" (egli chiamava classici quelli che Marx chiamava volgari) non era sbagliato ma, giunti al punto in cui era giunto il capitalismo, andava invertito. Egli non aveva nulla da dire sul fatto che la riduzione dei salari fosse benefica; riteneva che una diminuzione dei salari e dei prezzi avrebbe in teoria accresciuto il valore relativo della disponibilità monetaria dei capitalisti, quindi il valore relativo del capitale da prestito, avrebbe comportato la caduta del tasso d'interesse e quindi la facilità di investimento. Ma riteneva anche che in pratica ciò non sarebbe mai più avvenuto.

Queste argomentazioni non si trovano in nessun manuale di macroeconomia perché derivano da un'osservazione marxista della dinamica del capitalismo e dagli effetti che essa provoca sul pensiero dell'economista borghese. Keynes (questa è la nostra tesi) deve aver osservato che a un certo punto dello sviluppo capitalistico i fenomeni si invertivano. Nell'epoca della grande e fresca accumulazione la sequenza era quella appena descritta: l'aumento della produzione aveva provocato la diminuzione dei valori delle merci e, relativamente, dei salari con l'allargamento del ciclo attraverso la sempre maggiore disponibilità di denaro da prestito; si era quindi ingigantito il credito fino a diventare sistema e si erano ingigantite le società per azioni fino a creare la diffusione capillare degli azionisti. Gli economisti volgari, insomma, non avevano fatto che registrare ciò che vedevano.

Keynes era un economista volgare come gli altri e un giorno dovremo fare i conti con lui in modo più dettagliato: continuava, come i suoi predecessori, a osservare la realtà e, finché la realtà gli aveva detto che le cose andavano per il solito verso, non aveva avuto nessun interesse o stimolo per scrivere qualcosa di nuovo. La "novità" fu scritta da Keynes qualche anno dopo il crack del 1929 (13). Non si trattava di un diverso atteggiamento di fronte al capitalismo, ma della registrazione di ciò che era successo: l'abbassamento dei prezzi e, relativamente, dei salari aveva permesso la grande disponibilità di capitale, l'abbassamento dei tassi d'interesse e i grandi investimenti per un grande aumento della produzione. Tutto ciò era finito. Ora la produzione stagnava: i capitali eccedenti finivano nella speculazione, i tassi erano alti e i salari erano bassi ma perché vi erano milioni di disoccupati, ridotti alla minestra pubblica, che rappresentavano una concorrenza spietata per gli occupati.

Non si sarebbe potuto manovrare dall'alto il credito, diminuire i tassi, stimolare la domanda per avere gli stessi risultati che il capitalismo raggiungeva spontaneamente prima della grande crisi? Se l'economia spontanea si risolve nel soddisfacimento della domanda aggregata dei consumi, non si può agire su tale domanda per fare in modo che l'economia non soccomba?

La Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, la bibbia di ogni keynesiano, in effetti non è tanto una teoria quanto una risposta a sollecitazioni pragmatistiche, e non è tanto generale quanto specifica dei tempi di crisi. Per questa ragione essa è andata in ombra durante i periodi di facile accumulazione e ritorna in auge in periodo di crisi. Del resto anche Keynes, come dicono i suoi avversari, era un uomo dalle shifting opinions, opinioni mutevoli, avendo detto di tutto e il contrario di tutto.

Sostegno al sistema produttivo: i bastardini di Keynes

Nella logica corrente il principio che sta alla base delle teorie keynesiane non funziona: se quando piove si apre l'ombrello, diceva Marx, non basta aprire l'ombrello al sole per far piovere. Ma nella dialettica dei processi sociali, il keynesismo ha offerto un po' di ossigeno al capitalismo e ne ha chiarito la dinamica ai suoi stessi protagonisti. Ne ha messo in rilievo le contraddizioni, obbligando la contabilità borghese a utilizzare quegli stessi concetti marxisti che rifiutava e che rifiuta tutt'ora deridendoli.

Bisogna riconoscere che la macroeconomia, originata dalle teorie di Keynes, dà una sistemata ai vari conti nazionali borghesi rendendoli confrontabili per nazioni e permettendoci così di analizzare a modo nostro gli attuali conteggi per il noto e famigerato Prodotto Interno Lordo (14). Essi rappresentano involontariamente un definitivo schiaffo marxista al capitalismo perché rendono visibile il conto di classe nelle categorie della contabilità borghese. Non ne avevamo bisogno, ma ci serve per dimostrare che i capitalisti stessi, per capirci qualcosa nel guazzabuglio delle loro categorie, non potevano fare a meno di quelle marxiste. Non potevamo chiedere ai borghesi di farci il favore di misurare il capitalismo con il nostro metro e quindi la nostra teoria del valore aveva conferma nella dinamica storica del capitalismo e nelle crisi. Ora abbiamo anche le cifre anno per anno, messe graziosamente a disposizione dagli apparati di rilevazione borghesi.

I "classici", cioè i volgari di Marx, operavano sulla domanda e sull'offerta di merci e di lavoro sulla base dei prezzi e del salario, mentre Keynes volle operare sulla domanda aggregata, cioè consumi delle famiglie e delle imprese (investimenti), spesa pubblica, esportazioni (domanda all'estero). Fu obbligato ad uscire dal particolare per un tentativo di generalizzazione. Chiamammo la necessità borghese di ricorrere a categorie marxiste pur non riconoscendole nella teoria, capitolazione ideologica di fronte alla teoria rivoluzionaria.

Keynes fece scuola e i suoi avversari anche. Entrambi adattarono le "teorie" ai tempi. Una teoria scientifica non cambia come una banderuola. Se è scientifica l'unico cambiamento di cui è passibile è un affinamento che non ne cambia la validità. Pochi anni dopo la demolizione dei "classici" da parte di Keynes, sorse una teoria "neoclassica" che demoliva Keynes. Inutile dire che in seguito nacquero i "neokeynesiani" per demolire i neoclassici. Il punto di vista odierno della maggiore rivista economica internazionale è questo: "nessun punto di vista è superiore all'altro, ognuno può essere vero secondo le circostanze" (15).

Ciò che ci interessa notare è come l'alternanza fra keynesismo e classicismo nelle università e sulle pubblicazioni non corrisponda a un'analoga alternanza nell'economia reale. Anche nei migliori periodi dell'economia, quando si predica il più idilliaco liberismo, la vera politica dello Stato rimane quella del deficit spending. Nel migliore dei casi lo Stato interviene per ristabilire una libertà di traffici che il monopolio distrugge spontaneamente (16). O, come è successo negli USA con Reagan, per decretare d'imperio una politica fiscale liberista nel tentativo di provocare la disponibilità di capitali presso la borghesia, tentativo conclusosi miseramente con l'aumento vertiginoso della speculazione di ogni genere al posto degli investimenti "produttivi", come del resto Keynes aveva previsto, o, meglio, dedotto dall'osservazione dei fatti dopo il '29.

Negli anni '80 in Inghilterra e negli Stati Uniti come in altri paesi, divenne di moda irridere le politiche di sostegno statale. La Teoria generale di Keynes fu vivisezionata ancor più di quanto non fosse successo in precedenza. I critici la demolirono, ma i sostenitori fecero presente che era già stata demolita più volte e che comunque veniva applicata. In effetti sia i classici che i neoclassici ebbero buon gioco, dato che la Teoria faceva acqua da tutte le parti, anche dal punto di vista borghese.

Ora, sia il presidente Clinton che il primo ministro Mayor, volenti o nolenti devono ritornarvi apertamente. Sembrerebbe la vittoria di Keynes senonché i keynesiani sono spariti. Non nel senso che nessuno si ricolleghi al maestro, ma nel senso che ogni keynesiano si è inventato un Keynes tutto suo. L'Economist dice che si tratta di un effetto dovuto alla confusione presente nel libro, impossibile da insegnare agli studenti e quindi reinterpretato a seconda del professore (17). Strano destino per un testo: interpretato da tutti, mistificato, incompreso, demolito dalla critica eppure applicato sempre allo stesso modo.

La spiegazione marxista è la seguente: il corso dell'economia borghese non è eterno. Intorno a esso si affannano gli studiosi borghesi i quali, non potendo concedere che il capitalismo deve finire, ne descrivono gli autoaggiustamenti successivi, quelli che esso mette in atto per sopravvivere. Non riuscendo a descrivere scientificamente i fenomeni, registrano impressioni e fatti diversi uno dall'altro e si demoliscono a vicenda le "teorie". L'opera di demolizione funziona perfettamente: ogni economista riesce a dimostrare che la teoria altrui non funziona. In questo modo l'osservatore che si mette al di fuori della società capitalistica ha una prova in più che il capitalismo non si può analizzare dal suo interno, cioè non si può analizzare al fine di modificarlo per preservarlo.

Chi ha osservato più o meno confusamente (come Keynes) che il capitalismo deve diventare totalitario e deve adoperare lo Stato per controllare l'intero suo funzionamento, ha comunque "ragione", anche se le sue teorie non stanno in piedi come costruzione scientifica. Tuttavia i figli e i nipoti imbastarditi di Keynes non se ne fanno nulla di questa superiorità "teorica" dato che, anche se andasse al governo di un paese qualsiasi un loro avversario, egli farebbe comunque una politica keynesiana in contrasto con le sue stesse teorie. Keynes non aiuta i suoi discepoli a evitare la disoccupazione più di quanto Adamo Smith non aiuti i suoi (18).

Ogni governo borghese è obbligato a fare la sola politica che gli è concessa: siccome lo Stato in quanto tale non crea plusvalore, esso, per poterlo distribuire, può solo sovrintendere alla sua creazione e realizzazione, cioè può solo agevolare lo sfruttamento e indirizzarne il risultato verso un ancora maggiore sfruttamento in concorrenza con gli altri Stati che agiscono nello stesso modo.

Sostegno al sistema produttivo: ricerca e sviluppo

Il plusvalore viene creato nell'azienda capitalistica, poco importa se di proprietà dello Stato o privata. L'importante è che l'azienda sia, come si dice, competitiva, altrimenti chiude.

Per cominciare il discorso sulla competitività, nel protocollo si dice che "nella nuova divisione internazionale del lavoro e delle produzioni tra le economie dei paesi più evoluti e le nuove vaste economie caratterizzate da bassi costi del lavoro, un più intenso e diffuso progresso tecnologico è condizione essenziale per la competitività dei sistemi economico-industriali dell'Italia e dell'Europa".

Applicando il metodo che ci siamo prefissi, andiamo avanti nel rovesciamento dell'ordine stabilito dall'accordo. Abbiamo visto che cosa significa moderna politica economica e quali sono le categorie macroeconomiche da manipolare per garantire l'estorsione di plusvalore e la sua realizzazione. Cominciando dalla parte che i borghesi mettono al fondo, vediamo che si intravvede anche il motivo per cui bisogna correre ai ripari nei confronti di un plusvalore che fatica un bel po' a saltar fuori sia come creazione che come realizzazione.

La nuova divisione internazionale del lavoro non è tanto nuova se la troviamo in Marx verso la metà del secolo scorso. Ma vogliamo mettere da parte la nostra tradizionale intolleranza e interpretare quel "nuova" come un'osservazione seria.

Marx dice: "si genera una nuova divisione internazionale del lavoro corrispondente alle sedi principali dell'industria meccanizzata, per cui una parte del pianeta si trasforma in campo di produzione prevalentemente agricola per l'altra parte quale campo di produzione prevalentemente industriale" (19). Qui si tratta veramente di una nuova divisione del lavoro in quanto si verifica nel mondo una penetrazione di merci e di macchine prima sconosciuto. Da questo punto di vista la divisione del lavoro non è affatto cambiata. La novità non è quindi nella divisione del lavoro tra aree industriali e aree agricole, la cui situazione è relativamente peggiorata rispetto ai tempi di Marx. La novità è che un numero ristretto di paesi (si contano sulle dita di una mano) con popolazione relativamente bassa ma concentrata su aree piccolissime, quindi a densità capitalistica enorme, è in grado da solo di produrre a basso costo la maggior parte dei prodotti di largo consumo che servono a tutti coloro che nel mondo sono in grado di acquistarli, e molti di questi prodotti sono stati completamente eliminati dalla produzione dei paesi occidentali. Guardando al futuro possiamo vedere che anche navi, acciaio e componenti tecnologici si affiancano alla macchina fotografica o all'HiFi.

La novità è che l'alta forza produttiva sociale non è più un fenomeno legato ad un paese ma al mondo intero, e che isole di altissima produttività possono nascere ovunque ci siano le condizioni per fissare capitale con forza-lavoro in modo da garantire profitti più alti che altrove.

La "nuova" divisione internazionale del lavoro consiste nell'impianto di produzioni modernissime e concentrate, quindi ad altissima composizione organica di capitale, che vivono in simbiosi con reti produttive le quali, al contrario, hanno una composizione quasi nulla, poggiandosi esclusivamente sul lavoro marginale di eserciti di schiavi, compresi i bambini (20).

Non è questo un ritorno a condizioni dickensiane bensì il pedaggio che l'umanità deve pagare per la sopravvivenza del capitalismo. Non sono più i telai d'Inghilterra che provocano la morte degli artigiani asiatici. Sono i moderni grattacieli d'Asia che, contornati da un mare di fabbriche e di catapecchie legate in un sistema, fanno chiudere le fabbriche in Inghilterra, magari a causa di originari capitali inglesi installatisi in quei luoghi. Torniamo al Protocollo.

"Tra gli obiettivi della politica dei redditi va annoverato quello della creazione di adeguati margini nei conti economici delle imprese per le risorse finalizzate a sostenere i costi della ricerca". Ora, la ricerca e lo sviluppo, per servire a qualcosa, dovrebbero portare ad invertire la situazione, tenendo anche conto che dalla periferia delle metropoli non arrivano solo cotonine o scarpette, ma computer, automobili, navi e macchine utensili. Quale accordo "sindacale" potrebbe far girare le cose per un altro verso?

Alle imprese dovrebbero essere applicati automatismi di sgravio fiscale per la ricerca e la deducibilità di oneri "liberali" per tale scopo, mentre, per evitare che i risultati della ricerca siano monopolizzati dal ricercatore, dovrebbero nascere dei "parchi scientifici e tecnologici" comuni, "attraverso la creazione di appositi canali e l'utilizzo di specifici strumenti capaci di attrarre capitale di rischio su iniziative e progetti".

Quindi sono rei confessi: la politica dei redditi consiste nella creazione di margini nei conti economici delle imprese, in questo caso per la ricerca e lo sviluppo. Con quali strumenti? Eccoli: "fondi chiusi, fondi d'investimento, venture capital, previdenza complementare". Quell'ultima voce dall'aria innocente, messa lì quasi distrattamente rappresenta migliaia di miliardi tolti al salario e riprende la polemica sull'utilizzo del famoso TFR, trattamento di fine rapporto, detto liquidazione, che interessa 16 milioni di lavoratori dipendenti. Quanto fa? Duecentomila miliardi sono le stime ufficiali.

Ma impostando d'ufficio il problema della ricerca e dello sviluppo, demandando poi allo Stato la centralizzazione del flusso dei capitali necessari e la distribuzione dei risultati, è inevitabile che non si possa aspettare l'applicazione tecnologica con i tempi della libera assimilazione del mercato. Ci vuole qualcuno che acquisti subito sobbarcandosi i costi dell'avvio al mercato stesso. Quindi bisogna pensare alla "attivazione di una politica della domanda pubblica maggiormente standardizzata e qualificata, attenta ai requisiti tecnologici dei prodotti nonché volta ad un sistema di reti tecnologicamente avanzate". Conclusione: trasferimento di capitali all'industria per la ricerca e acquisto dei risultati della stessa da parte dello Stato che si carica anche dell'onere dello sviluppo vero, quello sul campo. Siccome però quando si parla di trasferimenti di capitali bisogna far riferimento alla legge del valore, il trasferimento di plusvalore non ha senso se parte dall'industria solo per ritornarvi: l'accordo "sindacale" del 23 luglio vorrebbe semplicemente garantire all'impresa la massima parte di plusvalore possibile, il che, letto in linguaggio marxista, significa aumento del saggio di sfruttamento, aumento del plusvalore disponibile per tutti gli usi, affarismo e speculazione all'ennesima potenza.

Ricordate? Imprese economiche di Pantalone. Niente da cambiare dagli anni '50 al modernissimo oggi (21).

La spesa complessiva per la ricerca, comunque, secondo il protocollo dovrebbe giungere in tre anni al 2% del Prodotto Interno Lordo. Una miseria, volendo contrastare la nuova divisione internazionale del lavoro. A che punto del loro sviluppo saranno Taiwan, Corea, Singapore, Hong Kong fra tre anni? Siamo proprio sicuri che i guai del capitalismo si possano guarire aumentandone il contenuto tecnologico? E per giunta con un pezzo di carta che, in un paese di sessanta milioni di abitanti, quinta potenza economica mondiale, parla di stimoli alla ricerca nell'ordine di grandezza di ciò che spende da sola una fabbrica di automobili giapponese?

Già al primo punto, che rappresenta la base su cui si costruisce tutto l'accordo (concorrenza internazionale) e che nel documento è messo per ultimo, si capisce che qualcosa non va, e non nella sintassi, ma nel funzionamento del capitalismo cui la sintassi non basta a fornire soluzioni.

Sostegno al sistema produttivo: finanza per le imprese e internazionalizzazione

Ritornano in questo capitolo i fondi chiusi, d'investimento e immobiliari, nonché la previdenza complementare. Dal sostegno alla ricerca si passa al sostegno diretto delle imprese in quanto tali.

"L'esigenza di reperire le risorse utili alla crescita richiede un mercato finanziario più moderno ed efficace, in grado di assicurare un magggior raccordo diretto e diffuso fra risparmio privato e imprese, anche ampliando la capacità delle imprese di ricorrere a nuovi strumenti di provvista".

Un mercato finanziario più moderno di quello basato sul credito elevato a sistema non può esistere perché il sistema del credito è l'ultima forma possibile del capitalismo. L'esasperazione del credito, cioè l'emissione di titoli su titoli e il commercio di essi contro altri titoli, era già conosciuta ai tempi di Marx e rappresentava già il limite insormontabile che dimostrava lo scontro storico fra il vecchio modo di produzione e quello nuovo. Il carattere permanente assunto dall'esasperazione del credito indica il prevalere della speculazione su qualsiasi altra attività produttiva, anche se non può esservi speculazione senza appropriazione di plusvalore. L'essenza della speculazione è di mettere in moto capitale altrui e il sistema del credito ingigantisce ogni possibilità di appropriazione attraverso meccanismi che qui sono chiamati "raccordo diretto e diffuso fra risparmio privato e imprese" e "nuovi strumenti di provvista". Citiamo Marx:

"Il capitale, che in sé poggia su di un modo di produzione sociale e presuppone una concentrazione sociale di mezzi di produzione e forze lavoro, riceve [con il credito] direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) in contrapposto al capitale privato, e le sue imprese si presentano come imprese sociali in antitesi alle imprese private. È la soppressione del capitale come proprietà privata entro i confini del modo stesso di produzione capitalistico" (22).

Se il ministro dell'industria Savona fosse in sintonia con la maturità sociale del sistema che rappresenta, avrebbe probabilmente evitato di dare le dimissioni, di ritirarle e di difendere cause perse facendo una magra figura sulla contrapposizione fra nocciolo duro e public company come soluzione alla privatizzazione dell'industria di stato. Com'è noto il ministro sosteneva la prima soluzione, che consiste nel formare un nucleo di capitalisti privati cui dare il controllo delle società, ed era entrato in conflitto con il presidente dell'IRI Prodi che sosteneva la soluzione del capitalismo diffuso, cioè la gestione della miriade di capitali privati tramite funzionari stipendiati. Savona era stato smentito dal presidente del Consiglio Ciampi. Non ci occuperemmo di beghe politiche se il fatto non avesse attinenza con il discorso che stiamo facendo. Le "risorse utili alla crescita" semplicemente non sono reperibili presso i capitalisti privati e i vecchi marpioni della politica italica lo sanno bene. Sono cinquant'anni che in Italia si fa esperienza di reperimento di capitali presso il "popolo", diremmo che conosce poco la storia patria chi non sa che dietro alle beghe ci sono interessi di gruppi che si scornano fra loro e vorrebbero controllare le industrie con i capitali altrui.

I grandi gruppi industrial-finanziari in Italia sono soltanto nove: l'IRI, la FIAT, l'ENI, l'ENEL, la Ferfin-Montedison, la Fininvest, la Pirelli, l'Olivetti e le Ferrovie dello Stato. Se si privatizzano l'IRI, l'ENI, l'ENEL e le Ferrovie, chi è il privato che compra? Ferfin con 30.000 miliardi di debiti? O Pirelli e Olivetti che, insieme, non fatturano che una cifra pari alla metà dei debiti della Ferfin? Solo le banche, se riuscissero a far rientrare i debiti, potrebbero disporre dei capitali necessari, ma: primo, le maggiori sono di proprietà dello Stato; secondo, a chi dovrebbero prestare i capitali se già non sanno come farsi pagare i debiti? Non a caso, nel protocollo, sindacati e industria siglano con il governo un impegno ad accelerare la concentrazione bancaria e la privatizzazione (23).

Non c'è via d'uscita per il capitalismo maturo: la strada che Marx aveva segnato non conosce deviazioni e prosegue fino alla conclusione storica prevista. Non c'è più abbastanza capitale privato in nessun paese al mondo che possa "rivitalizzare" un'economia giunta al punto odierno. Non c'è più capitalista privato che possa rappresentare un "nocciolo duro" che sia affidabile per l'intero sistema. Nelle grandi imprese dei maggiori paesi capitalisti le maggioranze azionarie sono dell'ordine del 3-4% e i loro detentori sono gruppi assicurativi o fondi d'investimento che gestiscono milioni di piccoli capitali individuali (24).

"Nuovi strumenti di provvista", nel lessico burocratico del protocollo significa far funzionare il capitalismo diffuso, specialmente in un paese di vecchio capitalismo, ormai vaccinato contro scorrerie da Far West tipo quelle che sono avvenute in America dove il Takeover selvaggio aveva dato luogo a scalate industriali sostenute con l'emissione di azioni-spazzatura.

Anche in America la pacchia per i furbi è finita, i vari Boesky e Milken sono in galera a rimuginare sugli ultimi sprazzi reaganiani, vero e proprio colpo di coda del capitalismo morente (25). Il capitalista individuale è un personaggio ormai raro, sostituito da funzionari stipendiati che ne fanno le veci. Si infoltisce la truppa dei tagliatori di cedole che vanno a concentrare i loro spiccioli presso investitori istituzionali.

Sul filo della storia che non si ferma, il ministro Savona è più indietro di Prodi quando dice che "nel nostro paese si va diffondendo uno strano convincimento: che si possa realizzare un capitalismo senza capitalisti" (26). Ma diamine, nel 1993 non si riconosce ancora ciò che Marx osservava nella realtà di un secolo addietro, cioè che, con lo sviluppo del credito, il capitalista è sostituito dal funzionario (27). E in tutta la grandiosa polemica che la Sinistra Comunista fece contro lo stalinismo, il nocciolo della questione era proprio lo studio degli invarianti del capitalismo che ci facevano dire che la Russia era capitalista anche senza capitalisti.

Sentiamo com'è più conseguente Prodi, cresciuto alla scuola dei militanti non capitalisti del capitalismo, quindi in grado di mettersi sopra agli interessi particolari del singolo capitalista, quelli che, se non contrastati dalle leggi dello Stato, portano dritto dritto al monopolio e al contrario del liberismo: "Se le privatizzazioni si rendevano necessarie già quando la concorrenza internazionale non aveva ancora raggiunto il livello di oggi e quando era ancora possibile per i governi effettuare aumenti di capitale per le imprese pubbliche, non vi è certo necessità di spiegare come esse oggi non rappresentino più una scelta ma siano piuttosto una necessità"; per vincere la concorrenza internazionale, dice in sostanza Prodi, bisogna reintrodurre la concorrenza interna, quella stessa concorrenza che il processo di concentrazione del Capitale distrugge continuamente. Scopo dell'intervento statale è quello di ristabilire le regole capitalistiche che il capitalismo stesso distrugge: "Se attraverso le privatizzazioni consolidassimo l'attuale struttura economica del paese, la concentrazione del potere che oggi fa dell'Italia un paese anomalo, diverrebbe di fatto incompatibile con gli equilibri che una struttura democratica deve possedere... democrazia economica e democrazia politica sono indissolubilmente legate fra di loro" (28). Grazie professore; ci lasci soltanto aggiungere che per avere di nuovo ciò che lei chiama democrazia economica, la democrazia politica deve darsi una regolata del tipo di quella che abbiamo previsto nella nostra scorsa Lettera e che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Di questo passo il buon Pannella non avrà più lacrime per difendere la vecchia democrazia parlamentare in via di sostituzione con questo modello revisionato che attendiamo con curiosità. Non ce ne lamentiamo, ricordammo che già Marx lo ritenne positivo per la rivoluzione, con la vecchia talpa e tutto il resto.

Il capitalismo senza capitalisti è dunque non solo possibile, ma è la strada moderna verso cui tende il capitalismo mondiale. Ciò che non è proprio possibile è il capitalismo senza proletari, per questo avete bisogno ogni tanto di un qualche "protocollo" per coinvolgerli, attraverso i sindacati e i partiti, nella salvaguardia della vostra società.

Ma non serve a nulla tener buono il proletariato, aumentare il saggio di sfruttamento, concentrare i capitali sparsi nella società senza metterli nelle mani di singoli monopolisti, migliorare tecnologicamente il processo produttivo se poi non si vende. E non si può vendere molto all'interno se si fa una coerente politica dei redditi, abbassando i salari per aumentare il profitto. Per questo è necessario prevedere uno sbocco estero, per il quale i sindacati si impegnino anche a fare da spalla ad una politica internazionale che eufemisticamente viene definita dinamica, ma che corrisponde esattamente alla politica imperialistica dai marxisti ben conosciuta nelle sue radici economiche come nelle sue espressioni militari.

"Per aumentare la penetrazione delle imprese italiane nei mercati internazionali occorre definire strumenti più efficaci e moderni... rendere più produttivo l'uso delle risorse pubbliche e orientare queste su obiettivi economici strategici e di politica estera definiti a livello di governo... garantire un coerente coordinamento dei soggetti preposti al rafforzamento della penetrazione all'estero del sistema produttivo". Appunto: non bastano i tradizionali partner, bisogna andare (o ritornare) in Albania, Mozambico, Somalia, Eritrea (29) ...

Sostegno al sistema produttivo: riequilibrio territoriale, infrastrutture e domanda pubblica

"La tradizionale politica sulle aree deboli, incentrata soltanto sull'intervento straordinario nel Mezzogiorno, appare superata dai recenti provvedimenti governativi. Questi disegnano una nuova strategia di intervento disegnata su di una politica regionale 'ordinaria' più ampia".

Il linguaggio, come forma di comunicazione, rispecchia sempre rapporti sociali precisi, quindi anche la banalità di un documento burocratico ci permette di sondare le linee di tendenza reali di cui è espressione, altrimenti non ci sarebbe bisogno di dilungarci più di tanto su di un pezzo di carta che non verrà applicato. Il keynesismo, per noi marxisti, non rappresenta una corrente di pensiero diversa da quelle che critica. Esso non deve essere analizzato in quanto tale ma in rapporto alle condizioni che l'hanno fatto nascere. Più del keynesismo in sé, ci interessa capire perché è sorto come teorizzazione di un metodo per superare le difficoltà di accumulazione del capitale, come estrema risorsa, quindi come risposta straordinaria ad eventi straordinari come quelli rappresentati dalla Grande Depressione.

Le categorie macroeconomiche introdotte da Keynes sono approssimativamente rapportabili, spogliate dai loro travestimenti, alle categorie marxiste, mentre la scuola keynesiana ha inventato categorie sue che nella Teoria generale non esistono, come il celebre diagramma che riporta sulle ascisse il reddito e sulle ordinate i consumi (privati, pubblici e investimenti). Ciò significa che, mentre l'intelligenza del singolo non può fare a meno di avvertire i veri meccanismi della società borghese quando questa è ormai pronta a cadere, l'applicazione sociale di ciò che tale intelligenza registra si scontra con la necessità di cambiamento radicale dei meccanismi studiati. Ecco perché Keynes è inutile dopo che Marx ha scoperto la via che porta al superamento storico dei modi di produzione. Ecco anche perché gli allievi di Keynes devono contorcersi nel tentativo di adattarsi ai contorcimenti del capitalismo nella sua agonia.

Il passo citato all'inizio del paragrafo è importante perché indica questo contorcimento in maniera che ci sembra chiarissima: l'intervento dello Stato nell'economia è un fatto ordinario dall'origine del capitalismo (il capitalismo originario dei liberi Comuni e delle Repubbliche Marinare era statale e solo in seguito all'espansione e alla concorrenza si autodefinì liberista pur senza esserlo mai stato), Ora un documento "sindacale" ci sottolinea che bisogna passare dall'intervento straordinario sulle aree depresse ad una politica ordinaria sulle stesse aree, anzi, senza più distinzione di aree.

L'IRI nacque durante il fascismo come istituto per gli interventi straordinari verso le imprese. Il suo compito istituzionale era quello di assorbire le imprese in difficoltà, chiudere senza drammi sociali quelle superflue e restituire al mercato quelle rimesse in sesto. La politica dell'IRI divenne subito ordinaria e lo rimane tuttora.

La Cassa per il Mezzogiorno nacque allo stesso modo per affrontare una situazione straordinaria: far affluire capitali in aree sottosviluppate per svilupparle; divenne un fatto ordinario di distribuzione del plusvalore verso aree che rimasero inesorabilmente a fare da contraltare all'ulteriore sviluppo delle aree già sviluppate.

Ieri si chiedeva al proletariato di sacrificare una parte del suo "reddito" per l'intervento straordinario e transitorio a favore del Mezzogiorno. Oggi gli si chiede, tramite i suoi rappresentanti ufficiali, di stringere la cinghia permanentemente per superare la concezione straordinaria dell'intervento statale e farla diventare ordinaria politica locale, non più per il solo Mezzogiorno, ma per tutte le regioni d'Italia. Sotto l'etichetta della destatalizzione sociale e della privatizzazione delle attività statali, si nasconde (per chi non vuol vedere) in realtà un capillare intervento statale, quindi non solo più a livello macroeconomico, politica monetaria, tassi, politiche del lavoro ecc., ma locale, con un controllo della formazione e della distribuzione del plusvalore fin nelle tramvie municipali, nei parcheggi, nei teatri e, perché no, nei centri sociali autogestiti (30).

"Il ministero del Bilancio e della programmazione economica diviene la sede centrale di indirizzo, coordinamento, programmazione e vigilanza per ottimizzare l'azione di governo e massimizzare l'efficacia delle risorse pubbliche ordinarie... in questo modo sarà possibile dare una maggiore trasparenza alle risorse destinate agli investimenti ed assicurarne una più rapida erogazione alle imprese".

Si capisce che alla Lega il documento non sia piaciuto, esso va in direzione opposta a quella del federalismo autonomistico. Ma la Lega, importante termometro sociale, non è che l'espressione di una dialettica che essa stessa non può comprendere: è vero che verso il Mezzogiorno è stato indirizzato molto del plusvalore creato al Nord (plusvalore egregio Bossi, non reddito dei bottegai!), ma solo perché non era possibile realizzare al Nord tutto il plusvalore prodotto. Non stiamo a moralizzare sui poveri proletari del Sud emigrati nelle fabbriche milanesi o torinesi (cosa che comunque ha avuto un'importanza storica), basiamoci soltanto sul fatto elementare che il Capitale non coincide con i dané, i soldini contanti che preoccupano tanto gli elettori leghisti; prima di essere denaro esso deve essere merce e prima di essere capitale deve subire il suo bravo ciclo di metamorfosi attraverso la produzione. Il Capitale è un concetto dinamico e la sua valorizzazione pretende uno scambio che inevitabilmente prevede sviluppo e sottosviluppo come in una formula algebrica.

Sostegno al sistema produttivo: ad ogni costo

Quando crollò il Muro di Berlino citammo un articolo di Fortune intitolato "Capitalisti di tutto il mondo unitevi!". Volevano un Piano Marshall per tutto l'Est europeo. Sono passati quattro anni e gli investimenti non si sono visti. L'euforia ha lasciato il posto alle disquisizioni se in Russia vi sia ancora una sopravvivenza di "comunismo" mascherato da una caricatura di capitalismo. È capitalismo a tutti gli effetti, come lo era ai tempi di Baffone, con tutte le categorie che si porta appresso in tutto il mondo, plusvalore, corruzione, mafia, speculazione e degenerazione sociale. Mosca non è peggio di Los Angeles, non è ancora come Los Angeles.

Il Piano Marshall non aiutava l'Europa ma gli Stati Uniti e la loro pletora di capitali. Se qualcuno mai investisse in Russia con profitto aiuterebbe sé stesso e non la Russia. Le aree sottosviluppate del mondo sono tali non per vocazione ma per la legge marxista della miseria crescente. Cresce la popolazione mondiale, ma decresce percentualmente quella parte di essa che beneficia degli effetti del capitalismo.

"Va rilanciata l'azione di programmazione degli investimenti infrastrutturali, riqualificando la domanda pubblica come strumento di sostegno alle attività produttive", recita il protocollo, "in particolare devono essere sostenuti gli investimenti nelle infrastrutture metropolitane, viarie e idriche, nei settori dei trasporti, energia e telecomunicazioni, nell'ambiente e nella riorganizzazione del settore della difesa". I lavori sono già incominciati. C'era qualche piccolo intralcio lungo il percorso, difficoltà burocratiche, lentezze dovute ad interessi particolari, mazzette, servizi segreti, qualche bomba, soldi che si perdevano in tasche improduttive (quadri, gioielli e soldi in Svizzera, per di più immobilizzati in cassette di sicurezza, sono la negazione del Capitale), parlamentari chiacchieroni, troppi partiti da accontentare ecc., ma l'intralcio doveva essere rimosso e in qualche modo ci si pensa: "Gli investimenti pubblici, anche in presenza di forti ristrettezze di bilancio, devono essere rilanciati attraverso una più efficace e piena utilizzazione delle risorse disponibili, riducendo la generazione di residui passivi per l'insorgere di problemi procedurali e di natura allocativa". Notare se quella frase: "anche in presenza di forti ristrettezze di bilancio" non è un capolavoro. Insieme alla trasparenza ricordata precedentemente, si sa che l'abbattimento dei problemi procedurali va di pari passo a quella ripresa di efficienza di cui lo Stato ha bisogno nei momenti di difficoltà, altrimenti la tangente finisce per ristabilire una situazione di monopolio, cosa che lo Stato, contrariamente a quanto si crede, non può tollerare oltre un certo limite. Infatti "è importante favorire il coinvolgimento del capitale privato, nazionale ed internazionale, nel finanziamento della dotazione infrastrutturale garantendo la remunerazione dei capitali investiti"; ma come si fa se la tangente è più alta dell'utile medio industriale e il sistema che instaura finisce per bloccare la libera concorrenza?

Fine dell'intervento straordinario per il Mezzogiorno, dunque, fine del piccolo Piano Marshall interno che "aiuta" più chi lo gestisce che chi ne dovrebbe beneficiare; fine della macroeconomia pura, quella delle manovre finanziarie e della politica dei tassi o del fisco, inizio del dirigismo statale anche nelle opere a valle di tali manovre, varo delle "authority locali" che devono seguire gli "accordi di programma tra Governo centrale e amministrazioni regionali al fine di concertare le scelte prioritarie per l'infrastrutturazione del territorio".

Ciliegina finale, addio prezzi politici: "La necessità di rilanciare la domanda pubblica e quella degli investimenti del sistema delle imprese, unitamente all'avvio del processo di riordino delle società di gestione dei servizi pubblici, impone l'esigenza di superare la logica del contenimento delle tariffe e di avviarsi verso un sistema che dia certezza alla redditività del capitale investito in dette imprese e che non limiti lo sviluppo degli investimenti". Che cos'è il prezzo politico? Una quota del plusvalore prelevata alla fonte per innalzare indirettamente il "reddito" di chi beneficia del servizio a tariffa. Ne consegue che l'eliminazione della tariffa politica abbassa della stessa quota il reddito dell'utente. Elettricità, acqua, telefono, trasporti, posta, spazzatura, autostrade, musei, case popolari ecc. devono rispondere alla legge del profitto, possibilmente privato. Decisione da contrastare con la richiesta del mantenimento dei prezzi politici? Proposte alternative da avanzare tramite la triplice? A noi interessa quanto vale, in possibilità di consumo, solo il salario reale. La richiesta di un abbassamento delle tariffe e delle locazioni non è mai stata un argomento utile alla lotta di classe (31).

Per non vaneggiare sul colore dei logaritmi

I compagni che ci seguono sanno che abbiamo cercato di concentrare in una formalizzazione matematica gli schemi di Marx sull'accumulazione partendo da un sistema di riferimento dedotto dal Capitale e la cui base è il valore come osservabile. Si tratta di un lavoro iniziato una decina d'anni fa e che semplicemente rappresenta la continuazione di altri lavori che la Sinistra aveva cominciato e che abbiamo intitolato Dinamica dei processi storici: teoria dell'accumulazione capitalistica (32).

Tale lavoro non è fine a sé stesso, nel senso che non c'era nessun bisogno di ripetere in altra forma ciò che Marx aveva già detto in modo descrittivo nella sua opera. La trasposizione in formule delle caratteristiche della natura che ci circonda serve innanzitutto per sgombrare il campo dalle chiacchiere che nascono sui parti del cervello e che possono non corrispondere alla realtà, essendo i cervelli influenzati dalla realtà ma portati a dare interpretazioni diverse di essa. Quando la realtà osservata è comprimibile in una formulazione convenzionale valida per il ripetersi del fenomeno in tempi diversi, abbiamo scoperto una legge che governa questa realtà e tale legge si sottrae alle disquisizioni dovute alle differenze fra gli individui, incomincia a funzionare per conto suo, ad esprimere la realtà senza passare attraverso processi sentimentali, emotivi, fisiologici, ideali, egoistici ecc.

Quando furono scoperte le leggi del moto, a cominciare da Galileo, il mondo non era affatto convinto che fosse ora di abbandonare il metodo abituale e si correva qualche rischio ad andare controcorrente. Perché il metodo abituale era coerente con una sovrastruttura di idee e metterla in discussione significava in qualche modo mettere in discussione una società che difendeva sé stessa.

Marx-Galileo non ha dovuto abiurare e non ha corso il rischio di essere bruciato, ma (e la feroce repressione di cui è stato oggetto il movimento rivoluzionario a causa dello scontro diretto fra classi lo dimostra) le leggi scoperte dal marxismo hanno ancor più difficoltà ad essere ideologicamente accettate di quelle del grande pisano. Addirittura succede agli stessi "marxisti" di non capire Marx. Ciò è dovuto a due cause: primo, la critica al capitalismo adopera il metodo delle scienze naturali ma si applica direttamente ai fatti sociali, e qui i cervelli vanno in ebollizione infinitamente più in fretta che non a parlare di orbite di pianeti; secondo, la scienza e la filosofia borghesi avanzano di pari passo con la produzione capitalistica all'interno della società feudale, mentre la scienza della rivoluzione non segue l'affermarsi di una classe all'interno della società antagonista. Il proletariato non conquista un suo spazio all'interno del capitalismo, la sua applicazione della scienza non si fa strada in applicazioni utili a questa società.

Questi accenni non ci servono per fare qui un discorso sull'epistemologia della scienza ma per spiegare perché è necessario formulare delle leggi sul funzionamento del capitalismo e che ce ne facciamo delle leggi una volta formulate.

Si è parlato tanto di trattativa sindacale sul costo del lavoro che si è finiti per siglare un accordo universale tra rappresentanti di classi nemiche sul piano di riassetto dell'intera economia italiana, compresi i suoi riflessi all'estero. Non male. L'accordo, che viene ancora chiamato col nome originario benché abbia abbondantemente sorpassato gli intenti di partenza, porta ora il titolo ufficiale che abbiamo ricordato all'inizio e che riassume il vero intento dello Stato: sostegno all'economia in coma.

Se la borghesia avesse potuto applicare alla società ciò che è riuscita a scoprire in campo tecnico scientifico, non avrebbe dovuto far altro che applicare al "lavoro" la scienza della misura che in altri campi ha dato risultati eccellenti.

L'uomo ha incominciato a contare gli oggetti e a scrivere dei simboli corrispondenti al conteggio. Il numero 10 corrisponde alle dita e quindi è probabile che la prima macchina per contare fosse la mano. La questione si è un po' complicata con la necessità di misurare lunghezze, pesi, capacità e aree, dato che si trattava di raffrontare tra loro grandezze non omogenee. La soluzione fu di confrontare tutto con un equivalente generale: un oggetto di un certo peso, un'asta di una certa lunghezza, un recipiente di una certa capacità, un'area... con l'area si dovette inventare la geometria: tre lunghezze per due uguale sei lunghezze quadrate. Man mano che si progrediva nell'esigenza di misurare, si progrediva nel metodo per misurare e tale metodo si allontanava sempre più dagli oggetti reali che servivano come campione. L'area del triangolo e del cerchio si esprime in pollici, piedi, spanne o braccia quadrate, ma per definirle con precisione assoluta abbiamo una formula. L'area di un triangolo, cioè la semibase per l'altezza, può essere uguale all'area di un cerchio, cioè il raggio al quadrato per p . Banale? Mica tanto nella storia dell'umanità. Si tratta di stabilire relazioni misurabili tra oggetti apparentemente incommensurabili. Così si arrivò per gradi a precisare il peso e a definire la massa ecc. fino a scoprire con sempre più precisione gli intimi legami che strutturano l'universo. Di qui in poi per capirci di più ci vorrà una rivoluzione, cosa che Einstein intravvide negli ultimi anni della sua vita, pur rimanendo ideologicamente nel campo borghese (33).

Marx scoprì che la misura poteva essere applicata ai fatti sociali, cioè alla produzione e all'economia in generale. Riuscì continuando dove i suoi predecessori si erano bloccati, ma dovette, come Galileo, rompere un pregiudizio sociale e ideologico, spingere la sua analisi al di fuori del lavoro, della popolazione, della moneta e dei prezzi. Dovette prescindere dagli oggetti e spostarsi alle rappresentazioni astratte della realtà; così facendo trovò la misura con una formula invece che realizzarla a spanne.

Questo e nient'altro è la teoria del valore che i borghesi, ormai traditori del loro proprio slancio iniziale, rifiutano con tenacia. Giustamente, dal loro punto di vista, altrimenti dovrebbero riconoscere che devono togliersi dalla scena storica.

Ora, applicando la teoria del valore, risulta evidente che l'arrabattarsi sul costo del lavoro e sulle categorie connesse è, come diceva Marx, un trastullarsi con il colore dei logaritmi, cioè applicare misure con metodi incompatibili agli "oggetti" da misurare, col risultato di non poter capire come sono fatti, a quali risultati porta la loro dinamica e, peggio che mai, guidarli verso il risultato voluto. Con il risultato, in ultima analisi, di doverne seguire a posteriori i movimenti spontanei cercando di porre rimedio agli effetti prodotti dal movimento (34).

Note

(10) Cfr. "Contratti erga omnes, fascismo in atto", in Il Programma Comunista n. 21 del 1959.

(11) Cfr. "Il rovesciamento della prassi", 1951, ora in Partito e classe, ed. Progr. Com. 1976. Le molecole sociali si indirizzano univocamente dapprima seguendo le determinazioni economiche, poi, con la formazione e lo sviluppo del partito rivoluzionario, seguendo il programma politico che esse stesse hanno contribuito a rendere vittorioso. L'intervento rivoluzionario sull'economia segue la conquista del potere.

(12) "La legge del valore e la sua vendetta", Lettera ai compagni n. 21.

(13) Keynes pubblicò la sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta nel 1936. E' interessante citare ciò che dice un'economista allieva di Keynes: "Non credo che la rivoluzione keynesiana sia stata un grande trionfo intellettuale; al contrario, è stata una tragedia perché è arrivata troppo tardi. Hitler aveva già trovato il modo di guarire la disoccupazione quando Keynes stava finendo di spiegarne le cause". Joan Robinson, "La seconda crisi della teoria economica", in La crisi post-keynesiana, Boringhieri 1975.

(14) Il Prodotto Interno Lordo equivale al Reddito Nazionale e al valore prodotto ex novo analizzato da Marx. Il plusvalore complessivo si può quindi dedurre sottraendo dal PIL il totale dei salari e di conseguenza il saggio di plusvalore o di sfruttamento. Il saggio di incremento annuo della produzione industriale ci fornisce (cfr. nostro Quaderno n. 1) il saggio generale di profitto e quindi, dividendo il plusvalore per esso e sottraendo il monte salari, il capitale costante che rientra nel ciclo annuo. Infine, sommando capitale costante, capitale variabile e plusvalore, otteniamo il valore complessivo delle merci.

(15) "The search of Keynes. Was he a keynesian?", The Economist, 8.1.1993.

(16) E' di questi giorni la battaglia del governo contro i due milioni di commercianti che si ribellano all'imposizione della "iniqua" minimum tax. Ma "i commercianti sono solo la punta dell'iceberg di un paese che ha lasciato crescere un mercato distorto... Farmacisti, tassisti, edicolanti, trasportatori, professionisti: tutti protetti da barriere normative che impediscono la concorrenza e fanno salire i costi" ("Viaggio nell'Italia delle corporazioni", La Repubblica, 8 ottobre 1993).

(17) Cfr. The Economist, art. cit.

(18) Alcuni accenni giornalistici. Dopo gli incidenti di Crotone, il compromesso assistenziale per non chiudere subito la fabbrica viene così criticato da Ferdinando Adornato ("Crotone, Italia", La Repubblica, 16 sett. 1993): "La soluzione non può più essere la cassa integrazione, bisogna farla finita con l'assistenzialismo... occorre un piano nazionale di rinascita... non è un mistero per nessuno che l'Italia di oggi, come l'America del '29, ha bisogno di un New Deal". Errore madornale: il New Deal (1933) era una politica economico-sociale che si basava più sull'assistenzialismo che su di un vero piano di rinascita. Keynes volle parlare con Roosvelt proprio per dimostrargli che gli interventi economici erano insignificanti per innescare una ripresa.

Il 1° ottobre '93, in un convegno sull'economia europea, gli economisti presenti si sono divisi tra sostenitori dell'abbassamento dei salari (Confindustria) e sostenitori dell'abbassamento dei tassi d'interesse (istituti non industriali) per evitare l'ulteriore tracollo dell'occupazione, ma tutti erano d'accordo su un punto: pilotare una deregolamentazione per liberalizzare il mercato e sostenere i settori produttivi per evitare "un imbarbarimento del quadro sociale" ("Economisti divisi su come creare posti", La Repubblica, 2 ott. 1993).

Sullo stesso numero del giornale Mario Pirani, che presiedeva il convegno citato, risponde a Mario Deaglio che la sua "rispettabile proposta keynesiana" di andar cauti con i tagli dell'occupazione non è accettabile, ma riprende gli stessi temi keynesiani del protocollo come proposta per uscire dalla crisi dell'occupazione ("Senza lavoro nel borgo natìo", La Repubblica cit.).

(19) Marx, Il Capitale, Libro I cap. XIII.7.

(20) Il numero del 18 giugno 1993 dell'Economist, ha in copertina un bambino lavoratore e la scritta "He wants your job" (egli vuole il tuo lavoro), che è anche il titolo di un articolo interno. La teoria di questi inguaribili ottimisti del mercato è che "grazie al lavoro a basso costo, alle inesistenti leggi di garanzia sociale, il terzo mondo ruberà il lavoro ai paesi ricchi", ma, si aggiunge, "per i paesi ricchi sarebbe come parlare di un declino economico relativo, che non sarebbe alla fine una cattiva cosa". Lo sviluppo dei paesi poveri porterebbe via del lavoro temporaneamente, ma essi, una volta industrializzati, sarebbero più importatori che esportatori e finirebbero per creare nelle metropoli più posti di lavoro di quanti ne distruggano. La prospettiva può suggestionare, ma si scontra contro la legge dei tassi di sviluppo decrescente direttamente proporzionali alla vecchiaia del capitalismo nei diversi paesi. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, causa diretta del fenomeno, unita all'aumento della forza produttiva del lavoro, smentisce l'ottimismo dei secolari liberoscambisti.

(21) Finirà Tangentopoli ne comincerà un'altra: "Quando lo Stato specula e intraprende, delega tutte le sue mansioni ad appaltatori, mediatori, funzionari e uomini politici, che pianificano, amministrano e poi spiegano a Pantalone come è andata, con teoremi di economia politica e caldi appelli al patriottismo del contribuente". Dal testo Imprese economiche di Pantalone, 1950, ora nel volume dallo stesso titolo edito da Quaderni Internazionalisti, nov. 1991.

(22) Marx, Il Capitale, Libro III cap. XXVII.III

(23) La Banca Commerciale Italiana, candidata alla privatizzazione, è oggetto di attenzioni da parte del capitale privato che potrebbe disporre con essa di una gigantesca struttura finanziaria per sostenere un eventuale "nocciolo duro" rappresentato da FIAT, Pirelli, Ferfin ecc. La Comit potrebbe portare 120.000 miliardi di depositi all'asse Mediobanca-Generali- Gemina, ma si verrebbe a creare un monopolio spropositato, in linea con la tendenza storica del capitalismo, ma in contrasto con la sua sopravvivenza sociale.

(24) La Francia, che è stata usata come esempio nella polemica sulle privatizzazioni, ha seguito una via apparentemente simile a quella del "nocciolo duro", che non contraddice quanto stiamo scrivendo. In Francia la concentrazione del capitale è meno avanzata che in Italia; vi sono almeno 15 grandi gruppi industrial-finanziari e le privatizzazioni non sono paragonabili come quantità, qualità e impatto sociale a quelle italiane. Inoltre, il nocciolo duro francese non corrisponde fisicamente al capitale di famiglia come in Italia.

(25) Ivan Boesky era uno specialista di arbitraggio illegale a capo di una rete di complici che avevano accesso a informazioni riservate sui movimenti azionari delle imprese e utilizzava queste informazioni per speculazioni colossali (insider trading) e anche per acquisizioni "non amichevoli di società" (takeover). Michael Milken era specializzato nell'emissione di azioni spazzatura (junk bonds) ad altissimo rendimento, che riuscivano a collegare aziende in crisi e quindi a basso "rating" (cioè che non hanno più accesso ai finanziamenti) con l'avidità di speculatori che erano disposti a coniugare i tassi col rischio.

(26) La Repubblica del 30 ottobre 1993 pag. 41.

(27) Cfr. Marx, Il Capitale, Libro III cap. XXIII.

(28) La Repubblica cit. pag. 8.

(29) "L'espansione del commercio estero, che durante l'infanzia del modo di produzione capitalistico ne costituiva la base, nel corso ulteriore di sviluppo di questo modo di produzione ne è inoltre divenuto, per la sua necessità intrinseca, per il suo bisogno di un mercato sempre più vasto, lo specifico prodotto". Marx, Il Capitale, Libro III cap. XIV.5.

(30) Dario Fo trascrive una storiella araba sul "Venerdì" de La Repubblica del 22 ottobre '93 a proposito del Leoncavallo: tre fratelli hanno il rispettivo giardino invaso dalle api. Il primo le brucia, ma con esse finisce bruciato anche il giardino. Il secondo le scaccia mettendo un favo di vespe loro nemiche, ma al posto delle api lo stolto si ritrova le vespe. Il terzo individua la regina e fa trasferire lo sciame dall'albero ad un'arnia appositamente costruita, ha il giardino impollinato, miele e tranquillità. C'è una certa coerenza tra Dario Fo, il ministro dell'interno e il capo della polizia, mentre il leghista Formentini si è dimostrato un vero neanderthaliano.

(31) Cfr. Engels, "La questione delle abitazioni", Parte seconda, cap. I.

(32) Edito da Quaderni Internazionalisti, dicembre 1992.

(33) Einstein non era soddisfatto dei risultati indeterministici raggiunti dalla fisica ed era convinto che non fosse possibile un ulteriore salto nella conoscenza senza superare lo scoglio della separazione fra le forze fondamentali della natura. Ma la fisica moderna, pur avendo dimostrato l'infondatezza del dualismo fra materia ed energia, spazio e tempo, pur facendo fare un passo avanti alla concezione monistica dell'Universo, è incerta sui suoi stessi ultimi risultati. Einstein, "facendo non solo di materia ed energia una sostanza sola, ma cancellando con la costruzione geniale dello spazio deformato dalla gravitazione la barriera tra ogni sostanza ed ogni forma, ha scritto alla fine la identità monistica e materialistica tra materia e pensiero; ha tolto dal mondo e dall'uomo un'anima che abbia legge e teoria originalmente indipendenti da quelle della Fisica Totale" ("Relatività e determinismo", un testo "Sul filo del tempo" ora in Critica della filosofia, ed. Quaderni Internazionalisti, di prossima pubblicazione).

(34) Uno degli strumenti economici più importanti per una politica keynesiana è il tasso di interesse. Fece scalpore la "decisione" del governo degli Stati Uniti di abbassare i tassi reali praticamente a zero. Il nostro commento fu come nel caso della deregulation reaganiana o della perestrojika gorbacioviana: prendono atto in ritardo di una cosa che è già risolta nell'anarchia del mercato. Alfredo Recanatesi così commenta uno dei tagli della Bundesbank ai tassi cui sono seguiti quelli di altra banche centrali: "Questi tassi sono quelli più strettamente correlati con l'andamento degli investimenti ed ora, fatti i conti, si vede che essi scendono molto più per il gioco della domanda e dell'offerta che non per le sollecitazioni che le Banche Centrali possono fare manovrando i tassi a breve termine. Il ribaltamento è totale" (La Stampa, 21 ott. 1993). Insomma, i grandi manovratori del Capitale non sono altro che delle mosche cocchiere.

Lettere ai compagni