29. Come un logaritmo giallo (3)
Ovvero: irrazionalità e immediatismo dell'economia politica
Cifre sulla distribuzione del plusvalore
Il valore si definisce con il tempo di lavoro medio socialmente necessario alla produzione di una certa quantità di merci, compresa la forza lavoro. Il processo di produzione attuale è nello stesso tempo trasferimento di valore e valorizzazione. Ciò significa che il valore del prodotto finale del processo è superiore alla somma dei valori necessari alla sua produzione.
Il valore della forza lavoro (e non il costo del lavoro), in quanto merce al pari delle altre, è rappresentato dal tempo di lavoro medio socialmente necessario a riprodurla, cioè dalla quantità di merci e servizi che servono al proletario per vivere e riprodursi ed è il salario medio sociale, quello che mediamente va realmente nelle tasche dei salariati. Tutto il resto è plusvalore.
In Italia la popolazione cosiddetta attiva si divide in circa 11 milioni di salariati che producono plusvalore, 4,3 milioni di addetti a servizi non vendibili e 7 milioni di appartenenti ad altre classi. Calcolando il salario (busta paga effettiva più contributi vari, al netto delle imposte) sui 40 milioni all'anno per salariato in media, abbiamo un valore della forza lavoro di 440.000 miliardi di lire. Sapendo che il valore totale prodotto ex novo in un anno è circa 1.500.000 miliardi, è agevole calcolare un plusvalore di 1.060.000 miliardi. Questo vale sia per un calcolo marxista che per un calcolo keynesiano. La media dei 40 milioni all'anno è piuttosto alta, ma bisogna tener conto che vi rientrano dirigenti, supertecnici, trasferte, straordinari ecc., non escludendo cifre false per dimostrare che il "lavoro" costa troppo (35).
In ogni modo abbiamo un rapporto fra plusvalore e salari, ovvero un saggio di plusvalore medio, del 240% anche se tale cifra dovrebbe essere leggermente corretta sottraendo al valore totale prodotto quello che scaturisce dalle attività non capitalistiche individuali, in Italia ormai quantitativamente insignificanti (artigiani senza dipendenti, agricoltura famigliare ecc., da non confondere con avvocati, notai e professionisti vari che sono semplicemente dei destinatari di plusvalore altrui).
Marx utilizzava per i suoi esempi un saggio del plusvalore del 100%, molto più basso di quello che risulta oggi. Saggio di plusvalore si chiama in termini marxisti anche saggio di sfruttamento, e ciò significa che con le cifre appena ricavate, un salariato del 1993 lavora fino alla metà di settembre per il capitalista e di lì fino al 31 dicembre per sé.
Ammettiamo di applicare alla lettera il protocollo sul costo del lavoro. Ammettiamo prima di tutto di applicare la ricerca e le nuove tecnologie, perciò di introdurre nuove macchine, nuovi procedimenti e nuovi materiali. Ciò significa che aumenterà la produttività, vale a dire il prodotto pro capite, vale a dire il saggio di plusvalore o di sfruttamento. Poniamo che questo aumento si aggiri intorno al 10%. Un salariato lavorerà per il capitalista fino a novembre e solo un mese per sé. Invece di 11 milioni di salariati produttivi ce ne sarà bisogno soltanto di 10 milioni. I disoccupati passeranno dagli attuali 3 a 4 milioni, se il numero delle merci prodotte rimane costante.
Ammettiamo che invece aumenti la produttività, ma che rimangano costanti gli occupati. Avremo il 10% di merci in più da vendere in una società che è rimasta la stessa, quindi bisognerà vendere all'estero, dove altri tenteranno di fare la stessa cosa. Ma l'aumento del nostro saggio di plusvalore ha comportato l'acquisto di macchine e tecnologie nuove, impianti moderni e reti telematiche, come recita il documento. Meno uomini metteranno in moto più capitale, come dice Marx, e aumenterà il capitale anticipato, facendo abbassare il saggio di profitto. Paesi più freschi di capitalismo che possono permettersi di sposare tecnologia moderna e schiavitù salariata a poco prezzo ci sorpasseranno nella concorrenza.
Ammettiamo allora di abbassare i salari per ristabilire l'equilibrio tra capitale anticipato e plusvalore in modo da avere un normale saggio di profitto. Avremo sollevato un problema sociale con grave pericolo per il cosiddetto ordine pubblico e salterebbero gli accordi sindacali in barba alle firme solenni, oltre a non aver risolto il problema di chi compra le merci se viene a mancare quel 10% nel potenziale di acquisto.
Ammettiamo infine che, keynesianamente, una coordinata politica dei tassi d'interesse, degli investimenti, del lavoro e della distribuzione del plusvalore verso la spesa pubblica, abbinata ad una coerente politica fiscale, riesca ad abbassare i salari reali ma ad aumentare il numero degli occupati in modo da abbassare il reddito medio pur mantenendo il reddito totale allo stesso livello. Avremmo ottenuto di agire sulla "propensione marginale al consumo", la quale ci dice che l'aumento di un reddito basso si traduce comunque in consumo, mentre l'aumento di un reddito alto si traduce tendenzialmente in tesaurizzazione, risparmio o speculazione. Avremmo dunque ottenuto un vantaggio per il mercato, ottenendo tanti redditi bassi la cui somma è aumentata di quel tanto che si traduce immediatamente in consumo. Sicuramente meglio che avere pochi redditi alti la cui variazione in più si tradurrebbe in risparmio, quindi in monetizzazione, quindi in inflazione. Dato che l'aumento della somma dei redditi bassi sarebbe ottenuta con l'abbassamento dei singoli salari ma con l'aumento del loro numero, il risparmio per ogni capitalista si tradurrebbe immediatamente in plusvalore investibile, mentre nel caso di un semplice aumento non pilotato dei redditi avremmo un risparmio che finisce in banca, ritornando al capitalista sotto forma di capitale da prestito, quindi gravato di interesse.
Vedremo che quest'ultima ipotesi è la più assurda di tutte nonostante l'apparente logica che esprime.
La parabola del plusvalore
Il capitalismo è giunto al punto in cui è attraverso il continuo aumento della forza produttiva sociale, che ha un significato molto più ampio della semplice produttività o produzione pro capite. In un primo tempo ciò si è accompagnato all'aumento assoluto del numero dei proletari, prima nei vecchi paesi industriali, poi in altri paesi. Sono aumentati i salari e sono aumentati i consumi mentre vecchie classi venivano espropriate e spinte nell'ambito del proletariato.
Questo è stato un processo storico e nessuna forza al mondo potrà invertirne la dinamica.
Nel nostro libro citato sull'accumulazione, vi è una figura rappresentante la "parabola del plusvalore" (36), forma grafica di una formula che esprime "la massa del plusvalore prodotta nel corso di un ciclo di riproduzione in relazione ad un determinato grado di sviluppo della forza produttiva del lavoro... Questa formula ha un'importanza fondamentale in quanto mette in luce la contraddizione principale che caratterizza il modo di produzione borghese, e cioè il fatto che la tendenza all'aumento assoluto della forza produttiva del lavoro mediante la sostituzione di macchine ad uomini, mentre da una parte provoca l'aumento del plusvalore estorto al singolo operaio, dunque l'aumento del saggio del plusvalore, dall'altra diminuisce (sulla scala della riproduzione semplice) il secondo dei due fattori che compongono la massa di plusvalore prodotta, cioè il numero di operai. La formula mette in evidenza questa contraddizione, poiché in essa il plusvalore è determinato dalla contrapposizione tra due fattori di segno opposto e con dinamiche diverse rispetto alle variazioni della forza produttiva del lavoro (o del rapporto fra capitale costante e valore prodotto ex novo, cioè capitale costante trasferito per operaio nell'unità di tempo); il primo termine, infatti, diminuisce linearmente all'aumentare della forza produttiva del lavoro, mentre il secondo segue un andamento quadratico. Se consideriamo il plusvalore come una funzione della forza produttiva del lavoro attraverso il numero degli operai, allora la formula ci mostra una parabola".
Ai due estremi della parabola abbiamo i due zeri del plusvalore: da una parte zero operai, dall'altra tutti gli operai producono solo quanto basta per riprodurre la forza lavoro. Mentre il primo estremo è ovvio, il secondo rappresenta la condizione limite di esistenza di qualsiasi società che produca solo tutto ciò che consuma. Nessuna società, tantomeno quelle divise in classi, anche precedenti il capitalismo, può reggersi senza la produzione di un surplus, quindi il percorso storico dei modi di produzione è verso l'altro zero teorico, tendenza dovuta al progresso tecnico che determina una minore proporzione del capitale salari rispetto al capitale totale anche se la massa salariale cresce.
Vista nella dinamica storica, la presunta possibilità di stimolare l'economia capitalistica dovrebbe inserirsi alla fine di un percorso del genere: nella fase ascendente del capitalismo, aumenta la produttività del lavoro, aumenta il numero dei salariati d'industria, aumenta la proporzione dei salari sul capitale totale; nella fase odierna, raggiunta la massima forza produttiva sociale, aumenta ancora la produttività del lavoro (non può tornare indietro), aumenta il numero dei proletari, diminuisce quello dei proletari occupati, aumenta la sovrappopolazione relativa. Ma in quale modo? Ritornando all'estorsione di plusvalore assoluto, con tanti operai, salari bassi e alto orario di lavoro? O aumentando ancora la produttività del lavoro e la scala della produzione? (37).
Dato che non esiste nessuna possibilità storica di far marciare indietro questa dinamica, con buona pace dei liberisti, di Keynes, dei suoi allievi e di tutte le altre scuole che ne hanno ibridato gli insegnamenti, bisognerà aumentare la scala della produzione senza rinunciare al "progresso" ma cercando di equilibrare gli effetti sociali. Vediamo che cosa può significare ciò. Nel nostro testo, la dimostrazione matematica prosegue con la prova dell'estensione della scala della produzione che porta alle seguenti considerazioni: "Il processo di accumulazione capitalistica, pur determinando una progressiva estensione della scala della produzione, la quale compensa la diminuzione della massa di plusvalore che si verifica a partire dal punto critico [rappresentato da un saggio del plusvalore del 100%], non modifica la posizione relativa del punto rappresentativo sulle successive parabole. Pertanto, indipendentemente dal processo di accumulazione, la storia del modo di produzione borghese può essere raffigurata come un progressivo scorrimento del punto rappresentativo lungo la parabola del plusvalore [verso la minima utilizzazione di forza lavoro e verso il punto critico fino a superarlo]; ogni aumento della forza produttiva del lavoro genera un movimento irreversibile [nella stessa direzione] sul diagramma del plusvalore, ed ogni estensione della scala della produzione non può modificare le posizioni relative via via raggiunte dal punto rappresentativo. Inoltre, possiamo notare che, quanto più [in quella direzione] è posizionato il punto rappresentativo, tanto più repentina sarà la diminuzione del plusvalore che seguirà ad un aumento della forza produttiva del lavoro, tanto maggiore dovrà essere dunque il fattore di espansione della scala della produzione necessario per compensare tale diminuzione".
L'aumento della scala della produzione, come si vede, non risolve il problema, perché sposta semplicemente in alto il livello delle contraddizioni del sistema, esattamente come previsto da Marx. Rimangono le misure per conservare gli equilibri sociali mentre scende l'occupazione e si tenta di esportare la massa della produzione. Passiamo quindi alle componenti sociali.
Grandezze che operano nella ripartizione sociale del plusvalore
Come si sono sviluppate fino a oggi le componenti che Marx individuava nell'insieme del proletariato? E come si rapportano nell'insieme delle classi? Prendiamo le cifre italiane.
Salariati occupati che ormai, nei paesi industriali, aumentano ad un ritmo inferiore all'aumento della popolazione. Essi sono, come abbiamo visto, 11 milioni di "produttivi" cui si aggiungono 4,3 milioni di "improduttivi" (addetti ai servizi non vendibili); i "produttivi" si suddividono ancora in 0,7 milioni di salariati agricoli, 5,3 milioni di salariati industriali, 5 milioni di salariati addetti ai servizi vendibili.
Sovrappopolazione fluttuante, oggi assimilabile ai cassintegrati, messi in mobilità, disoccupati temporanei ecc., coloro che entrano ed escono dal ciclo lavorativo. Per essa sappiamo che sono stati spesi nel 1992 6.000 miliardi, e cioè, mediamente fra CIG ordinaria, straordinaria e indennità dei decreti speciali circa 12 milioni all'anno a testa per 500.000 persone.
Sovrappopolazione latente, quella che non figura nelle statistiche perché non ha un'occupazione fissa pur frequentando il lavoro salariato per arrotondare le magre entrate. Si calcola che dal 25 al 30% del PIL italiano sia prodotto in nero da questa categoria, una enormità difficilmente quantificabile in numero di proletari anche perché in rapporto alle cifre dovrebbe rappresentare più di due milioni di persone.
Sovrappopolazione stagnante, coloro che raramente entrano nel ciclo produttivo come salariati e vivono di piccoli lavori di servizio, lavori a domicilio, attività marginali a scarsissimo salario per integrare altre entrate che non consentono di vivere. Impossibile da quantificare.
Sovrappopolazione ufficiale. Disoccupazione registrata dall'istituto centrale di statistica che distingue fra persone alla ricerca del primo impiego, licenziati in cerca di lavoro e cronici. Erano 2,5 milioni nel 1992, saranno più di 3 milioni nel 1993 (38).
Lumpenproletariato. Sottoclasse che vive di espedienti o di attività illegali fuori dal mondo del lavoro. Non quantificabile.
Questo specchietto, ricavato da Marx e da uno dei nostri testi Sul filo del tempo (39), ci ricorda che il proletariato è composto in totale da non meno di 21 milioni di persone in età di lavoro cui bisogna aggiungere le persone "a carico" e 8 milioni di pensionati da lavoro e invalidità. Le quantità deducibili quadrano con la cifra di 7,2 milioni di occupati "indipendenti" che, con le persone "a carico" fanno raggiungere la popolazione totale di 58 milioni. Le cifre saranno un po' noiose, ma si capisce bene, leggendole, che questa situazione è già il risultato dell'alta estorsione del plusvalore alla parte del proletariato rimasta nel ciclo produttivo, e che non si può tornare indietro.
I 35 milioni di disoccupati che spaventano i politici degli 11 paesi industrializzati dell'OCSE non sono riassorbibili. Il salario singolo non è ulteriormente comprimibile se si vuole mantenere un livello dei consumi che sia decente per la vitalità di tutto il processo produttivo e per l'accumulazione in generale. Quando si traccia il famigerato pseudokeynesiano grafico delle funzioni di risparmio-consumo (40), si deve disaggregare dal reddito nazionale non il salario singolo medio degli occupati, ma la massa salariale percepita dagli occupati diviso tutti i componenti del proletariato. Quella è la capacità di consumo su cui calcolare la strana categoria economico-psicologica della "propensione marginale" allo stesso.
Non serve, come invece avevamo ipotizzato nell'esempio del capitoletto precedente, abbassare il salario singolo nella speranza che vi sia, tramite la spesa pubblica, una rivitalizzazione del ciclo economico in virtù del maggiore profitto, dei maggiori investimenti e del maggiore assorbimento di merci e lavoro. Non serve che si faccia aumentare il numero degli occupati tramite un abbassamento del salario singolo per aumentare la massa dei salari e dei consumi. La situazione che si vuole superare e i fenomeni che si vogliono combattere sono già il risultato di precedenti "investimenti" in posti di lavoro fasulli sia nell'industria che, soprattutto, nell'apparato pubblico, dove la grande quantità di plusvalore disponibile nella società aveva in passato scatenato la sua distribuzione per fini elettorali o altro.
La spesa pubblica è stata possibile in virtù di un risparmio da parte di chi possedeva riserve in denaro. Risparmio forzoso nel caso di imposte, risparmio volontario per la massa di denaro affluita nelle diverse forme del debito o dell'azionariato pubblico. Si tratta di 1.800.000 miliardi immobilizzati da anni e che sarà impossibile smobilitare come qualcuno suggerisce, dato che non saprebbero assolutamente dove andarsi ad investire, a parte la catastrofe che succederebbe se un giorno lo Stato non potesse più rinnovare i titoli in scadenza o venderne di nuovi per gestire gli interessi. La certezza è che, al contrario, con il sostegno dell'economia tramite lavori pubblici, i capitali immobilizzati nel debito pubblico aumenteranno invece di diminuire.
Abbiamo tolto i troppi decimali dopo le virgole alle cifre ufficiali e ne abbiamo dedotte altre con margini di errore accettabili per la dimostrazione che stiamo svolgendo. Non pretendiamo di essere esatti e del resto le cifre che ci mette a disposizione la borghesia sono del tutto indicative. Se prendessimo come "costo del lavoro" ciò che denunciano i capitalisti avremmo un risultato diverso. Essi comprendono nel calcolo la quota di profitto che devono devolvere allo Stato affinché questi mantenga tranquilla la società nel suo insieme. Se lo Stato lasciasse il profitto ai singoli capitalisti questa società sarebbe caduta da un pezzo, quindi è inutile che strillino (41). Noi abbiamo preso, come si è visto, il salario che mediamente va in tasca ai lavoratori aggiungendo la quota di salario differito, quello che essi vedono sotto forma di pensione, assicurazione malattie, infortuni ecc.. Non abbiamo conteggiato ovviamente le imposte, dato che tale voce non fa parte del valore della forza-lavoro. I numeri ci offrono comunque lo specchio della realtà con un buon grado di approssimazione e, d'altra parte, ciò che ci interessa non è il terzo decimale dopo la virgola ma il significato di classe deducibile dai numeri.
Quindi abbiamo, secondo il vero calcolo di classe, che 21 milioni di persone con le famiglie dispongono di 446.000 miliardi più una cifra incerta per lavoro nero e attività illegali, mentre 7 milioni e famiglie dispongono di 1.060.000 miliardi per vivere e reinvestire. Il calcolo di quanto numericamente pesi la voce "famiglia", dedotto dall'intera popolazione italiana che è di 58 milioni, ci dà altre 30 milioni di persone. Se le ripartiamo equamente (ma i proletari per definizione sarebbero più prolifici) abbiamo una ripartizione totale tra la popolazione proletaria e quella delle altre classi di 43,4 e 14,6 milioni. 10,2 milioni a testa i primi, 72,6 i secondi: saggio sociale di sfruttamento al 700% invece del 240% raggiunto da quello aziendale.
Questo saggio sociale di sfruttamento potrebbe sembrare una categoria strana, ma è l'unico modo per rendere visibile la misura reale dell'impoverimento relativo del proletariato e di tutte le balle sul rilancio dei consumi privati o sociali che siano.
Ora attenzione: mettiamo in atto tutte le misure previste dal protocollo. Abbassiamo i salari bloccando i contratti per quattro anni con un tasso medio di svalutazione del 5-6% all'anno; spostiamo la quota di salario risparmiata da questo al profitto; mobilitiamo lo Stato affinché tramite leggi particolari aumenti il numero di macchine che ogni uomo metterà in funzione dopo che i parchi tecnologici avranno fatto sentire i loro effetti; avremo dei disoccupati nel settore della produzione con macchine, ma passiamo una parte di essi a settori in cui agisca l'intervento dello Stato per le opere pubbliche; riassorbiamo i giovani e i disoccupati con contratti di formazione fino a 32 anni; garantiamo, tramite lo Stato, un indirizzo di quote-salario risparmiate e plusvalore aumentato verso la politica estera cioè le esportazioni; garantiamo la redditività del capitale di rischio; aboliamo i prezzi politici delle tariffe trasformandoli in normali prezzi che garantiscono profitto; insomma, applichiamo quel che abbiamo letto nel protocollo orgogliosamente fatto approvare in sparute assemblee di fedelissimi. Cosa avremo ottenuto?
Avremo aumentato forse il numero complessivo dei proletari, ma sicuramente diminuendo quello degli occupati nell'industria e aumentando quello degli altri settori, soprattutto aumentando quello degli strati pauperizzati nella stessa classe. Avremo forse aumentato la massa del "reddito" proletario, ma sicuramente aumentato di meno o addirittura abbassato il "reddito" medio individuale con l'aumento del numero dei peggio pagati; avremo soprattutto spostato, nel diagramma dei redditi, il punto significativo del reddito medio verso il sempre minor numero di persone che ha un reddito maggiore della media, fatto che ha come ovvio contraltare un sempre maggior numero di persone che ha un reddito al di sotto della media (42).
Avremo certamente soddisfatto la condizione di aumentare la "propensione marginale al consumo", aumentando il numero di coloro che hanno un reddito basso rispetto alla media, ma alzando la massa del reddito all'interno della fascia. Avremo infine dimostrato la legge marxista della miseria crescente, quella che tuttora fa assumere agli economisti borghesi un'aria di sufficienza annoiata.
Immaginiamo infatti di aumentare il PIL del 3,3% di qui al '95 secondo l'obiettivo medio che si legge sui giornali, cioè da 1.500.000 miliardi a 1.550.000. Immaginiamo che questo aumento si traduca tutto in aumento del numero dei proletari, cioè aumentano gli occupati, gli irregolari, i disoccupati e i lumpen, i primi e i secondi con un aumento della massa dei salari, i terzi con buoni ammortizzatori sociali, i quarti con un ragionevole aumento di furti, scippi, prostituzione e droga. L'aumento numerico dei componenti la classe lo facciamo tutto da una parte perché questo è l'obiettivo del governo, dell'industria e dei sindacati. Non solo per aumentare l'occupazione e la "propensione marginale al consumo", ma anche per moralizzare la società: espropriare i troppi bottegai che non pagano le tasse, sfoltire il pletorico mondo dei portaborse nonché quello della speculazione e dei traffici. Sembra che rimarranno disoccupati anche molti dipendenti degli innumerevoli servizi segreti e dei partiti. Non operiamo l'aumento numerico tutto nel campo degli occupati perché dobbiamo mantenere almeno costante la forza produttiva sociale che non può diminuire, come abbiamo visto in precedenza. Tutto ciò è semplificato rispetto a ciò che può realmente avvenire, ma la complessità reale non cambierebbe nulla alla dimostrazione.
50.000 miliardi di aumento del PIL al saggio di plusvalore del 240% si devono suddividere nella misura di 14.700 ai proletari e 35.300 ai capitalisti. I 446.000 miliardi di "reddito" proletario diventeranno 460.700, mentre 1.060.000 miliardi delle altre classi diventeranno 1.095.300.
La popolazione proletaria, per beneficio del protocollo sale del 3,3% e passa da 21 milioni a 21,7 circa, mentre di conseguenza vengono tolti 0,7 milioni di unità alle altre classi che passano da 7 a 6,3 milioni. Siccome teniamo la popolazione ferma a 58 milioni, il conto del saggio sociale di sfruttamento diventa il rapporto fra un reddito pro capite di 13 milioni di detentori di plusvalore e 45 milioni di proletari, cioè 84.254.000 su 10.230.000 uguale 826%.
Aumentando dunque del 3,3% il PIL, aumentando la popolazione proletaria di conseguenza e lasciando invariato il saggio di sfruttamento aziendale, il saggio di sfruttamento sociale aumenta del 18% passando dal 700% all'826%. Il protocollo è applicato, sono soddisfatte le premesse keynesiane e un mucchio di professori sono pronti a ripetere il giuramento di fedeltà al capitalismo. Scuotono i fogli pieni di statistiche e affermano con sicurezza: ma che miseria crescente! Marx aveva sbagliato tutto, non vedete che la classe operaia è sempre più ricca?
Il capitalista e il "mondo migliore"
Su molte riviste tecniche specializzate americane è comparsa un paio di mesi fa una strana pagina pubblicitaria della Penton Publishing, un'editrice di 40 riviste. Sotto l'immagine iperrealista di una famigliola "normale" che fissa l'obiettivo con aria un po' suonata, campeggia la scritta: "Il nostro standard di vita sta morendo". Il testo spiega: "Chiedendo agli americani se sono soddisfatti di come le cose stanno andando negli Stati Uniti, il 49% di loro dice 'no'. No malgrado il fatto che il reddito reale medio della famiglia sia cresciuto del 102% dal 1950. No malgrado il fatto che il 31% delle famiglie hanno ora redditi che superano i 50.000 dollari in confronto al 19% del 1970. Perché siamo così depressi? Pensiamo che il problema sia riassunto in un'altra statistica. Le dorate promesse di un'economia fautrice di servizi hanno incominciato a offuscarsi. La produttività nei servizi è cresciuta dello 0,8% all'anno nell'ultima decade. E i servizi oggi impiegano il 70% della forza lavoro. Per contro, l'industria, che ha incrementato la produttività del 3,9% all'anno, impiega solo il 16% della forza lavoro. Invece di dirigere le nostre energie verso la creazione di nuova ricchezza, stiamo disperdendo quella esistente, mentre concorrenti internazionali più produttivi ci portano via il lavoro. Che puoi fare? Mettiti in contatto con noi".
Ci segua un momento anche il lettore in questa ricca società in cui molti, come la Penton Publishing, vorrebbero avere le ricette per superare i problemi dovuti alla ricchezza; ci segua nel fantastico mondo dei servizi di domani, dove si dovrebbe trovare lo sbocco ai problemi del capitalismo occidentale. Ci sono troppe merci, troppo consumo di cose. La classe operaia dovrebbe pensare a un mondo migliore invece di accumulare oggetti superflui. E i governi dovrebbero darsi da fare e investire per offrire un futuro alle popolazioni. Con dei consumi che non siano cose. Non lo dice soltanto la Penton Publishing. Lo dice anche un grande capitalista che preferisce rimanere anonimo in un'intervista che sfrutteremo per la parte finale di questa Lettera (43). Dice che è finita l'epoca dell'espansione dei consumi. Dice che aspettando un rilancio dei consumi non si uscirà mai dalla crisi: "Se lei va in Germania si rende conto che, onestamente, non possono consumare più di quello che già consumano... è stato un momento della storia, ma non tornerà... ogni volta che vedo governi e banche centrali darsi da fare per stimolare i consumi privati capisco che la ripresa è ancora lontana". La gente è stufa di consumare merci superflue, dice l'anonimo capitalista, è giunta a un colpo di freni "da cui credo che non tornerà più indietro... la gente vuole un mondo migliore".
La teoria dell'anonimo è che non bisogna stimolare i consumi privati ma gli investimenti per migliorare la qualità della vita. Questi investimenti li può fare soltanto lo Stato. Ma lo Stato, che sia italiano o tedesco o americano, ha oggi problemi di deficit e quindi non può investire in prima persona senza chiedere sacrifici alla popolazione. Anche le imprese devono investire, ma occorre che si avvii in questo senso un processo di abbandono dei consumi privati.
Il problema più grave è quello dell'occupazione perché "ci può esplodere fra le mani". In tema di occupazione non può esserci che un peggioramento: FIAT, Olivetti, l'IRI, la chimica taglieranno ancora posti di lavoro. Ancora?, chiede il giornalista. C'è concorrenza internazionale ma anche concorrenza interna, risponde l'anonimo, "i grandi centri industriali del Nord sono destinati progressivamente a svuotarsi" e ciò porterà la manodopera disoccupata ad "andare sulle piazze e fare casino". Non molto elegante ma efficace. Soluzione? "Flessibilità del lavoro, flessibilità massima". Massima quanto? "Fin dove è possibile andare... oggi si possono scovare molti posti di lavoro ma bisogna poterli pagare poco... bisogna cercare comunque di essere concorrenziali contro stranieri che hanno condizioni diverse dalle nostre... Prenda le fabbriche ultramoderne. Sono quelle che ci consentono di reggere la concorrenza straniera, ma costano moltissimo come investimenti... bisogna poter pagare meno la manodopera per compensare altri svantaggi... dobbiamo avere l'intelligenza per fare occupazione ad ogni costo e la strada è quella della massima flessibilità".
Il debito dello Stato è un freno, ma non si può aspettare che sia risanato il debito, altrimenti andremo a fondo prima. Si tratta di una immensa ricchezza immobilizzata, bisogna utilizzarla (ma non dice come). Segue un rinnovato appello per gli investimenti dello Stato e poi un epitaffio contro la propria categoria: "La stagione delle grandi famiglie è finita. Ormai non esiste più nessuno che sia in grado da solo di finanziare lo sviluppo delle proprie aziende".
Questo l'avevamo scoperto da un bel po' di tempo. Ma il lettore vorrebbe sapere com'è andato a finire il discorso sui consumi e sul "mondo migliore". Nell'intervista non c'è finale per questa stimolante sparata, il grande industriale si perde per strada e passa dai massimi sistemi alla politica spicciola. L'intervistatore non lo incalza e lascia perdere un argomento formidabile per accontentarsi delle solite battute sul capitalismo e sulla concorrenza. Prolungheremo l'argomento a nostro arbitrio utilizzando un'altra presa di posizione che secondo noi si incastra perfettamente con la prima.
La sindrome di Dagoberto
Si tratta di una parabola appunto su di un "mondo migliore", dove è sconfitta la disoccupazione e dove viene escogitato un espediente per la distribuzione equa del plusvalore affinché vengano evitati disastri sociali. Naturalmente le categorie economiche da smuovere sono talmente pesanti che bisogna ricorrere a un re i cui ordini non siano messi in discussione (44).
Re Dagoberto, così si chiama il fortunato sovrano che non ha tra i piedi la democrazia parlamentare, si pone il compito di far quadrare i conti tra l'aumento della produttività, la disoccupazione e il disordine sociale. Nell'economia di mercato, egli nota, l'occupazione dipende dalla produzione e i salari dalla produttività. Ma l'interdipendenza è troppo stretta: se aumento la produttività, abbasso l'occupazione nel settore della produzione, ma, se voglio evitare ripercussioni sociali, devo tenere aperte fabbriche improduttive, o mantenere i disoccupati, o assumere nel settore dei servizi, dove la produttività non ha lo stesso senso quantitativo che nel settore della produzione.
Infatti i salari nei servizi non possono essere troppo diversi da quelli nella produzione un po' per legge e un po' per via del mercato del lavoro. Però a questo punto si rompe la relazione tra salario e produttività ecco perché i servizi non potranno mai espandersi a sufficienza per assorbire i disoccupati espulsi dalla produzione.
Mentre la produttività nell'industria può crescere enormemente, quella dei servizi ha dei limiti insormontabili: "Un quartetto di Mozart richiede sempre, dalla fine del Settecento in poi, grosso modo venti minuti di tempo". Per evitare il disfacimento sociale dovuto alle cause oggettive della disoccupazione (vedete come sono materialisti certi borghesi), non c'è altro da fare che separare drasticamente la produzione dai servizi. Anzi, bisogna eliminare i servizi e sostituirli con un settore nuovo di natura completamente diversa. Bisogna organizzare la produzione in modo da lasciar completamente libere le leggi del mercato e "organizzare un settore nel quale l'occupazione sia sganciata dalla produzione e il salario dalla produttività", cioè un settore "nel quale non valgono le leggi del mercato".
Si capisce che una scemenza del genere doveva essere travestita da parabola, ma il lettore a questo punto avrà già capito perché le diamo importanza.
Nel mercato, come Dagoberto ribattezza il settore della produzione, le leggi del capitalismo devono avere assolutamente libero corso, ogni intervento è bandito, i salari vengono regolati dalle leggi del capitalismo e l'occupazione dalle esigenze produttive; questo settore deve solo essere regolato da limiti di "compatibilità sociale e sostenibilità ambientale".
Al contrario, nel concerto, che sarebbe tutto il resto della società, l'occupazione dipende soltanto dalla quantità di addetti necessaria per far lavorare tutti. Questo settore ha il compito di soddisfare tutti i bisogni umani che non dipendono dalla produzione propriamente detta. Esso deve essere totalmente regolato dallo Stato anche se viene appaltato ai privati. Qui il profitto praticamente non esiste, sia a causa della piena occupazione in ogni genere di attività utile o dilettevole e della bassa produttività, sia a causa del servizio offerto senza limiti anche all'altra parte della società, quella produttiva.
La compensazione è operata dallo Stato, che trasferisce plusvalore da un settore all'altro (non si dice plusvalore nell'originale ma si ricorre a un complicato sistema di tasse e regole: come si complicano la vita questi borghesi!).
Nel regno di Dagoberto la produzione senza vincoli è altissima, mentre si realizza il "mondo migliore" con il concerto che è slegato da regole di produttività e dove tutti trovano la propria realizzazione essendo pagati in base all'utilità sociale dal resto della società e non in base alla produttività.
Con Dagoberto ci siamo ricollegati all'intervista lasciata a mezz'aria. Nel suo regno si prolunga l'utopia del grande industriale che, con l'impegno massimo dello Stato vede la fine dei consumi superflui e l'avvento dei nuovi bisogni.
Lo scherzo ci è servito anche per decomprimere il lettore dopo la lettura dei capitoli precedenti, ma è d'uopo che finisca qui. La favola riprende i temi di un libro intitolato Il futuro dell'economia ed è interessante notare che in questo futuro i borghesi non vedono affatto "meno Stato e più mercato" come recita il logoro slogan, ma più Stato in ogni senso per preservare una parvenza di mercato e per superare l'angoscia che deriva dalla contraddizione. Non sembra che questi rappresentanti del capitalismo siano consapevoli di cantare le litanie al morto.
Il capitalismo non può per sua natura giungere ad autoregolarsi. Una perfetta ripartizione del plusvalore, del tipo di quella tratteggiata nella favoletta di Dagoberto presuppone il maneggio della legge del valore, presuppone che si prescinda sia dai salari che dalla preoccupazione per l'andamento del PIL, presuppone l'investimento cosciente per soddisfare dei bisogni umani e non per accumulare sempre più capitale.
La storiella che ci è stata recitata in due puntate dai due capitalisti rappresenta la sindrome da impotenza e una sciocchezza utopistica, un modellino cui la società dovrebbe adeguarsi con la buona volontà dei suoi dirigenti. Eppure siamo in grado, nonostante tutto, di vedervi il riflesso di una forza immensa che accumula un potenziale rivoluzionario esplosivo.
Avevamo promesso che alla fine di questa lettera avremmo dimostrato come, ponendosi l'obiettivo dell'estinzione del capitalismo e non della sua conservazione, sia possibile maneggiare la legge del valore per qualcosa di meglio che dipingere logaritmi. Lasciamo da parte l'ottica meschina cui conducono gli autori degli articoli, rovesciamone le categorie capitalistiche, uniamo i settori in uno solo invece di separarli, introduciamo un drastico risparmio di tempo di lavoro e riusciremo a scorgere il lavorìo della vecchia talpa che scava anche nei cervelli dei difensori del capitale.
Differenza tra utopia e dinamica storica
La favola di Dagoberto separa la società e pretende di far quadrare le relazioni fra incommensurabili, il profitto della FIAT, il lavoro per un quartetto di Mozart, e le carote dell'orto. Per questo è una favola.
Ma prescindiamo dalle categorie capitalistiche viste dai capitalisti. Diamo una dinamica all'utopia di Dagoberto facendo evolvere il sistema, diamogli un trend, come direbbe un tecnico dell'analisi economica.
Con il tempo, abbiamo visto, il mercato, che sarebbe la produzione, aumenta la produttività. È libero da vincoli, quindi non si preoccupa di effetti collaterali, a parte il rispetto degli uomini e dell'ambiente. Aumentano le macchine, si perfeziona il sistema che esse costituiscono, aumenta, come diciamo noi, la composizione organica del capitale. Non c'è limite all'automazione, alla quantità di capitale sotto forma di macchine, energia, materie prime, semilavorati che possono essere messi in moto dalla forza lavoro occupata. Ma c'è un limite rappresentato dall'aumento fisiologico della popolazione. Oggi nei paesi indistrializzati abbiamo in media un aumento demografico che è meno dell'uno per cento. Troppo poco per una crescita industriale, quasi la morte per mancata accumulazione. I consumi non possono aumentare all'infinito se non aumenta la popolazione, quindi, mantenendo il tasso di aumento della produzione con produttività aumentata enormemente, diminuisce enormemente il numero degli addetti alla produzione stessa. Spingiamo all'estremo l'evoluzione del modello. In breve tempo il regno di Dagoberto sarebbe formato da un meraviglioso apparato industriale automatico con pochissimi addetti e una popolazione concentrata nel concerto che se la spassa senza badare alla produttività del proprio lavoro. Anzi, dedicandosi ad attività molto gratificanti perché semplicemente utili all'uomo e alla natura che lo circonda.
Ma chi produce il plusvalore da smistare per garantire alla stragrande parte della popolazione di vivere nel concerto?
Non c'è soluzione capitalistica per il regno di Dagoberto: dopo qualche anno gli abitanti morirebbero tutti di fame perché rimarrebbero senza plusvalore, cioé banalmente senza soldi. Non si può, dice Marx, estrarre da dieci operai lo stesso plusvalore che si estraeva da cento, anche e soprattutto con la fabbrica automatica.
Bisogna fare un'altra operazione meno favolosa e uscire dal modello di Dagoberto che rimane capitalistico. Attenzione, non diciamo ancora di uscire dal capitalismo. Per essere esatti diciamo di uscire dalla logica del capitalismo per poterne dominare le categorie. Come fanno gli scienziati che, per valutare un sistema, si pongono a livello di un sistema più potente da cui osservare ciò che succede in basso. Come fece Galileo, che utilizzò un po' di dialettica per demolire la logica aristotelica con sé stessa.
Poniamo che venga posto fine al dominio della borghesia ma che si sia ancora in una fase di transizione in cui le categorie capitalistiche sopravvivono. C'è ancora denaro, salario, merce e scambio di valori. La società si riorganizza e incomincia a impostare la propria contabilità e i propri bilanci sulla base di quantità fisiche misurabili in quantità, peso, capacità ecc. e in tempo di lavoro invece che in prezzi. Ha già rotto la logica d'azienda, la produzione si manifesta ora come un fatto veramente sociale. Nel far questo la società impara a produrre soltanto ciò che è umanamente utile e non ciò che rende solo profitto, mentre gli scambi avvengono ancora al vecchio modo sulla base del prezzo espresso in denaro. Ma non accumula questo denaro come capitale, lo adopera soltanto provvisoriamente come strumento di conteggio: lavoro contro prodotto.
Lo Stato esiste ancora e conduce l'operazione di Dagoberto, smista il plusvalore all'interno della società, ma, invece di separare la produzione dai servizi e da tutto il resto unifica ogni settore di attività e fa sparire la differenza di natura fra i vari lavori, estingue la divisione del lavoro, non paga più uno sculettamento televisivo con cento anni di lavoro di un operaio.
I salari, finché esistono ancora, sono rapportati al tempo di lavoro e tutti lavorano, meglio che nel regno di Dagoberto, dato che non vi sono separazioni fra le attività, e il denaro, essendo non accumulabile, non si potrebbe neanche rubare.
Ma la grande differenza incomincia quando la contabilità basata sulle quantità fisiche invece che sui prezzi renderà un ricordo il famigerato PIL il quale aumenta più se si spreca che se si produce per i bisogni: spariscono gli accantonamenti di capitale, sparisce il magazzinaggio intermedio, sparisce il trasporto insensato delle cose e delle persone, sparisce la pletora di costruzioni che si accoppia con la mancanza di abitazioni, insomma, sparisce lo spreco nella misura in cui si produce soltanto ciò di cui si ha bisogno e in modo distribuito o centralizzato a seconda della convenienza sociale e non in funzione dell'accumulazione di capitale. Sparisce il concetto di reddito e di costo del lavoro.
Non si tratta di "organizzare un settore nel quale l'occupazione sia sganciata dalla produzione e il salario dalla produttività", si tratta di organizzare tutta la società sulla base dell'unione fra il lavoro di tutti e la produzione di ciò che serve a tutti, dove l'aumento della produttività si traduca non in disoccupazione da assorbire in settori fantastici, ma in diminuzione di lavoro, di ore sottratte alla vita. Guardate le cifre esposte precedentemente e vedrete che la giornata lavorativa si può abbassare subito a tre o quattro ore. Che cosa ci importa, in una società che funzioni secondo la produzione di valori d'uso, se nei "servizi" la produttività non è compatibile con un livello di salario? Solo la società che contabilizza sulla base del valore di scambio s'intrappola in quelle inutili complicazioni. Ed è proprio per questo che il salario se ne andrà spontaneamente fra i ricordi del capitalismo.
E quale problema potrebbe sorgere nell'impostare una produzione qualsiasi senza l'assillo della compatibilità ambientale o sociale? Nessuno, non ci sarebbero problemi di costi (45).
Ci fermiamo. La società futura non è resa possibile dalla sua descrizione convincente bensì dal movimento reale che distrugge la società in cui viviamo.
È una frase di Marx. Il movimento reale è composto da due fattori inscindibili: le contraddizioni economiche e l'estrema lotta di classe che ne deriva. Le prime non bastano, la seconda non si inventa. Entrambi i fattori si sommano quando la società non può più sopportare i vecchi rapporti e non ne possono esistere ancora di nuovi. Allora la sequenza si fa incredibilmente veloce: la società si polarizza verso il futuro, il partito che lo rappresenta conquista il potere, il rovesciamento della prassi è avvenuto. La fonte dei "redditi" può essere dominata.
Ma già, queste, per i nostri nemici, sono utopie. La loro realtà è quella di Dagoberto.
Torino, 4 novembre 1993
Appendice.
L'iterazione degli scambi di valore all'interno del sistema nella simulazione con il metodo di Montecarlo porta ad una prima evoluzione nel senso delle curve paretiana ed empirica. "Un sistema economico senza alcuna legge interna trova il suo equilibrio in una distribuzione esponenziale". Nel modello sono state perciò introdotte anche delle variabili "keynesiane" che hanno sensibilmente modificato le asperità dei grafici, anche se, oltre ad un certo limite, le variazioni diventano insignificanti: "La distribuzione si dimostra piuttosto sensibile al tasso di sviluppo del sistema" invece che a parametri quali la tassazione o l'evasione fiscale (E. Bennati, op. cit. in nota 40. Il grafico è ridisegnato su quelli del libro ed è semplicemente indicativo. I metodi detti di Montecarlo sono applicati quando occorra risolvere problemi deterministici ma nel caso in cui realtà complesse non permettano la soluzione analitica. Essi sono basati sulla creazione di modelli la cui evoluzione è regolata in base all'esito di eventi casuali concatenati. L'autrice ha derivato il suo studio dall'osservazione di una similitudine tra gli schemi di Marx e i sistemi aperti, quali sono analizzati attualmente per superare l'apparente contraddizione fra leggi vigenti in campi diversi ma soprattutto tra fisica, biologia e cibernetica).
4 novembre 1993
Note
(35) Tutte le cifre sono da noi riprese o estrapolate dalla Relazione generale sulla situazione economica del paese. 1992, edita dai ministeri del Bilancio e Tesoro, 2 aprile 1993.
(36) Vedi Appendice fig. 2 e commento.
(37) In Germania la Volkswagen ha proposto di lavorare per 4 giorni la settimana e il governo francese sta studiando di estendere le 32 ore a tutte le industrie che ne fanno richiesta. Naturalmente viene chiesto anche un abbassamento del salario. In Italia esistono a questo scopo i cosiddetti "contratti di solidarietà".
(38) Questa cifra corrisponderebbe al tasso ufficiale di disoccupazione del 10,3% che dovrebbe essere così disaggregato: 14,7% la disoccupazione femminile e 7,7% quella maschile. Nella metà settentrionale d'Italia il tasso medio è il 6,4% (8,8% donne e 4% gli uomini) e nella metà meridionale è 17,7% (23,7% donne e 13,7% uomini. Fonte Ispe).
( 39) "Marxismo e miseria", seconda parte, 1949. Ora in Partito rivolu-zionario e azione economica, ed. Quaderni Internazionalisti, novembre 1991.
(40) Vedi appendice fig. 1 e commento.
(41) Strillano ma si guardano bene dal mostrare le cifre comparative tra i paesi industrializzati. Esse dimostrano ulteriormente come il problema del costo del lavoro non sia che un pretesto, dato che l'Italia risulta il paese con il costo più basso; eccole:
1990 | 1991 | 1992 | 1993 | |
---|---|---|---|---|
Italia | 123 | 122 | 122 | 100 |
Giappone | 108 | 118 | 128 | 148 |
Germania | 199 | 207 | 215 | 211 |
Inghilterra | 160 | 165 | 159 | 146 |
Francia | 130 | 133 | 136 | 134 |
Le cifre rappresentano la retribuzione globale in rapporto alla produzione nell'unità di tempo posti gli Stati Uniti con indice = 100 (è il paese guida del capitalismo mondiale. Elaborazione su dati Prometeia).
(42) Cfr. i dati pubblicati nella Lettera ai compagni n. 27 a proposito degli Stati Uniti. Nell'articolo citato in nota 12, Joan Robinson formula un po' moralisticamente la questione: "E' una legge di natura che oltre metà della popolazione (poiché i redditi più bassi sono la maggioranza) viva sempre al di sotto di uno standard equo, quale che sia il livello dei consumi in assoluto". Pareto attribuiva alla sua formulazione sulla distribuzione del reddito (1896) il valore di legge universale. Con il metodo analitico si possono disegnare in effetti curve che corrispondono alla reale distribuzione. Una formula che rappresenti un modello con parametri semplificati, disegna una curva esponenziale con il suo massimo verso i redditi bassi e il minimo verso quelli alti. Con un metodo iterativo che simula al calcolatore lo scambio di reddito fra le classi (utilizzando un metodo mutuato da altre discipline, come biologia, chimica, fisica dei fluidi e dei sistemi complessi), è stato dimostrato che il sistema evolve transitoriamente verso una curva realistica, ma raggiunge l'equilibrio in una curva esponenziale identica a quella ottenuta con l'analisi matematica. Il sistema lasciato a sé stesso evolve verso la massima povertà. Simulando tassazione, crescita economica, recessione ecc. il sistema si corregge, ma presenta sempre la stessa dinamica, cioè un comportamento asintotico verso i redditi più alti (Eleonora Bennati, La simulazione statistica nell'analisi della distribuzione del reddito. Modelli realistici e metodo di Montecarlo, ETS editrice, Pisa 1988) Vedi Appendice fig. 3 e commento.
(43) Intervista di Giuseppe Turani a "uno dei maggiori cinque capitalisti italiani" su Uomini & Business di luglio-agosto 1993. (
44) Giorgio Ruffolo, "Le mutande di re Dagoberto", La Repubblica del 29 settembre 1993.
(45) Cfr. Per l'organica sistemazione dei principii comunisti, riunione di Forlì, 1952, "Il programma rivoluzionario immediato", ed. Quaderni Internazionalisti, nov. 1991.
Fine