32. La questione italiana (1)
Il testo che segue approfondisce i temi affrontati in uno dei rapporti alla riunione allargata che si tenne a Torino dal 28 ottobre al 1° novembre 1995. Una lettera successiva tratterà gli altri argomenti discussi nel corso della stessa riunione. Essa fu organizzata in seguito all'interessamento che un folto gruppo di nuovi compagni manifestò recentemente nei confronti del nostro lavoro. Lo scopo era quello di consentire una discussione diretta e prolungata sulle numerose questioni politiche e teoriche poste da questi compagni, non certamente per un "confronto" fra posizioni politiche, ma nella convinzione che solo un lavoro sul patrimonio della Sinistra potrà costituire la base comune per obiettivi più vasti. La riunione andò comunque oltre il limite originario che ci si prefissava, in quanto fornì l'occasione per affrontare gli strumenti di analisi politica impiegati per la stesura del presente studio come di tutto il nostro lavoro. Essi verranno parimenti utilizzati in futuro nell'ambito di un'auspicabile estensione della nostra attività, in armonia con le Tesi di Napoli in cui è chiaramente affermato che ci si attende lo sviluppo quantitativo delle forze rivoluzionarie solo attraverso l’assimilazione, l’elaborazione e l’applicazione del patrimonio precedente (1).
Premessa
Nel corso di precedenti riunioni tra compagni di diverse località abbiamo cercato di illustrare i contenuti della ricerca teorica portata avanti negli ultimi quindici anni ed i temi che verranno affrontati in futuro. Quelle che seguono sono invece delle semplici riflessioni che riguardano le modalità con le quali deve essere svolto il lavoro di analisi politica, cioè di applicazione dei risultati generali della teoria marxista alla spiegazione dei fenomeni sovrastrutturali. Di fatto, molto spesso questo tipo di attività viene portato avanti in modo esclusivamente empirico, senza alcun aggancio con i fondamenti teorici del marxismo e, soprattutto, attraverso formulazioni che non hanno alcuna possibilità di essere sottoposte ad una verifica. Cercheremo dunque di dimostrare che l'analisi politica, al contrario di quella che è purtroppo oggi una prassi consolidata, deve necessariamente basarsi sul metodo scientifico, dunque su un insieme di criteri oggettivi ed applicabili da tutti i compagni che intendano dedicarsi a questa attività, a conferma che il marxismo è scienza, non una qualsiasi tra le tante forme ideologiche della lotta proletaria.
Scienza della Storia
Lo schema teorico tracciato oltre un secolo fa da Marx ed Engels non rappresenta un corpo dottrinale statico, prodotto una volta per tutte nel passato e privo di qualsiasi funzione nel futuro. Esso al contrario vive e si sviluppa nella stessa epoca borghese da un lato come elemento cosciente di negazione della società attuale, dall'altro in quanto scienza primaria della società futura, ed è nella combinazione tra questi due aspetti che esso costituisce assieme l'espressione teorica del problema che l'umanità si pone e della sua soluzione. Per dimostrare questa affermazione basti osservare che l'epoca capitalistica, nella misura in cui determina la formazione degli elementi materiali del suo superamento, generando dunque la negazione di se stessa, rende parimenti possibile una coscienza teorica di questi fattori. Ma come gli elementi materiali di negazione della società borghese si trasformano in fattori di affermazione per quella comunista, così gli elementi teorici di critica della società attuale, che costituiscono un patrimonio esclusivo dei comunisti di oggi, vengono ad un certo punto capovolti dialetticamente in strumenti teorici positivi dell'intera società futura. È di fondamentale importanza, dunque, che tutti i compagni comprendano fino in fondo che la teoria marxista rappresenterà un giorno lo strumento essenziale che consentirà all'umanità intera di controllare, secondo un piano prestabilito, le forze della produzione associata.
Nel passaggio dalle forme separate di indagine sul mondo come la religione (che pure fu la scienza unica dei primordi), la filosofia, l'astronomia, la fisica o la meccanica a quella forma unificata che Marx ed Engels prevedevano per il futuro dell'umanità, il materialismo dialettico costituisce oggi il nucleo di quella che sarà una visione globale del mondo fisico ed organico nell'ambito della società comunista.
Se il marxismo fosse identificabile come una delle branche scientifiche contenente una sua parte filosofica, avrebbero ragione coloro che, come Gramsci, vi vedono la "filosofia della prassi (...) lo storicismo assoluto" (2), cioè una corrente di pensiero tra le altre. Il marxismo, invece, è partecipe del movimento scientifico in divenire e contribuisce alla demolizione delle vecchie credenze scientifiche e filosofiche insieme (3). La separazione delle scienze fu indispensabile ad un dato livello dello sviluppo umano; così la filosofia, che un tempo non era disgiunta dalle altre scienze, si incaricò di trovare una giustificazione plausibile ai fenomeni che la scienza non riusciva a spiegare. Il materialismo dialettico e storico ricongiunge ciò che l'umanità dovette separare, quindi ha la possibilità di fornire un metodo che usiamo definire scientifico. Questo metodo ci fornisce tutto il necessario supporto teorico per l'analisi politica e l'azione pratica, perché elimina per sempre l'artificiosa barriera innalzata dai filosofi tra la natura e la storia. A differenza di altre teorie, quella marxista non comprende un corpo assiomatico paragonabile a quello delle matematiche o giustificabile solo a livello filosofico (4), ma tratta in modo assiomatico i risultati del movimento reale della natura e quindi dell'umanità, risultati che, per quanto riguarda i rapporti umani, si rendono evidenti nel passaggio da una forma economica e sociale all'altra o, per dirla con Marx, nella trasformazione di una forma nell'altra. I più profondi risultati ottenuti da Engels con le note sulla Dialettica della Natura riguardano appunto le leggi del movimento definite attraverso la dialettica e il materialismo storico. Esse ci mettono in grado di risolvere l'antico problema della concezione statica delle forme, di spezzare i legami che trattenevano la vecchia scienza entro i limiti dell'idealismo. Ogni manifestazione della natura, compresa la società umana, non è più riconducibile a forme a priori, cioè determinate al di fuori del loro processo materiale di sviluppo. Ma una volta trovate le leggi che demoliscono i sistemi basati su principii immanenti, da esse, come dagli assiomi della matematica, è possibile derivare un insieme di teoremi che spiegano o prevedono fatti di interesse storico. Infatti, una volta impostato il sistema di regole e di principii che formano il nucleo essenziale di una teoria, la ricchezza di quest'ultima consiste proprio nel complesso di fatti che possono essere derivati dai principii attraverso un impiego corretto del sistema di regole. Ogni teoria che sia aderente ai processi reali contiene dunque in sé, nel suo nucleo interno, potenzialità che è compito del ricercatore tradurre in fatti scientifici. In questo senso possiamo affermare che la teoria marxista vive proprio perché dalle sue leggi fondamentali possono essere derivati dei teoremi che spiegano fatti storici di carattere generale.
Abbiamo recentemente mostrato (Quaderni Internazionalisti n. 9) che alcuni di questi teoremi possono essere formalmente derivati attraverso procedimenti matematici che combinano secondo regole oggettive grandezze e rapporti di valore. Quando si impiegano metodi di questo tipo, non bisogna mai dimenticare che i risultati ottenuti forniscono in ultima analisi una rappresentazione dinamica quantitativa del sistema di rapporti di produzione che ha lo scopo primario di spiegare come e perché tale sistema debba entrare in contrasto con le forze produttive materiali (lavoro, mezzi di lavoro e risorse naturali), in principio ponendo solo degli ostacoli transitori al loro sviluppo, nello stadio finale determinando un limite assoluto alla loro crescita. Operai che vengono licenziati, proletari che non riescono a vendere l'unica merce di cui dispongono, macchine inutilizzate o sottoutilizzate, terre e miniere abbandonate, sono questi i fenomeni più evidenti della pressione alla quale vengono oggi sottoposte le forze produttive della società a causa di un sistema di rapporti di produzione che ha ormai esaurito tutte le sue potenzialità di progresso.
Le crisi periodiche degli ultimi due secoli portarono alla luce questa contraddizione, ma non bastavano da sole a dimostrare che nel modo di produzione capitalistico fossero già maturate le condizioni materiali per la costituzione di nuovi e superiori rapporti di produzione. Esse di fatto dimostravano solo che queste condizioni erano in via di formazione. Una conferma più evidente si ebbe invece, sin dagli inizi del XX secolo, con le grandi guerre imperialiste e con gli innumerevoli conflitti locali che hanno scolpito la storia del mercato mondiale fino ai giorni nostri. Infatti, la guerra determina sempre una vera e propria distruzione di forze produttive, piuttosto che un mancato utilizzo di quelle esistenti. La differenza tra una crisi ed una guerra consiste nel fatto che la prima è causata da uno squilibrio interno tra produzione di plusvalore e riproduzione della forza lavoro, mentre la seconda è causata da uno squilibrio esterno che ha origine nel sistema di rapporti che le nazioni instaurano tra loro nell'ambito del mercato mondiale.
Entrambi questi fenomeni tendono a compensare gli squilibri e, in quanto hanno in comune la capacità di determinare modificazioni rilevanti del potenziale rivoluzionario reciproco delle classi sociali, che aumenta a misura del contrasto esistente tra forze produttive e rapporti di produzione, costituiscono in ultima analisi quella che è la base materiale della lotta politica. È più di un secolo, ormai, che l'umanità è entrata in quell'"epoca di rivoluzione sociale" alla quale accennava Marx nella prefazione a Per la critica dell'Economia Politica. Ma solo oggi possiamo dimostrare che il modo di produzione capitalistico ha ormai raggiunto il suo limite storico, in quanto è solo negli ultimi venti anni che si è avviato un processo irreversibile di diminuzione tendenziale del numero assoluto di lavoratori occupati e della massa di plusvalore prodotta, almeno per quanto riguarda i paesi a capitalismo maturo. Questa tendenza non è affatto legata a perturbazioni periodiche del mercato interno o alla presenza di squilibri del mercato mondiale ma, come abbiamo dimostrato, procede lentamente ed inesorabilmente attraverso crisi ed espansioni, fasi di guerra e periodi di pace, rendendo sempre più manifesta la reale natura del problema.
Di fatto, appaiono sempre più evidenti le contraddizioni interne di un sistema di rapporti di produzione che da un lato presuppone l'esistenza del libero lavoratore, in grado di vendere unicamente la propria capacità lavorativa, dall'altro impedisce che questa vendita possa effettivamente aver luogo. Analogamente, da un lato viene presupposta l'esistenza di un sistema di macchine sempre più perfezionato, il quale dovrebbe consentire la produzione di una massa di plusvalore sempre maggiore, dall'altro si impedisce che queste macchine possano realmente funzionare, in quanto qualsiasi introduzione generalizzata di nuove tecnologie provocherebbe oggi una crisi immediata. In entrambi i casi è reso evidente un antagonismo non episodico tra il sistema di rapporti di produzione borghesi e le forze produttive esistenti, un antagonismo che deve tradursi in un accumulo di tensioni sociali e che, superato un certo limite, troverà uno sbocco nella lotta rivoluzionaria. La derivazione formale delle leggi del processo di accumulazione non fornisce affatto dei risultati tendenti a dimostrare una pretesa "teoria del crollo", cioè una teoria meccanica di quel "crepuscolo degli dei" che tanto terrorizzava Ricardo. Questa precisazione è di fondamentale importanza, in quanto costituisce la chiave di lettura di tutti i lavori teorici, del passato e del presente, come qualsiasi compagno potrà verificare rileggendo la prefazione a Per la critica dell'economia politica di Marx.
Consideriamo ora la tesi centrale del Quaderno n. 9. Essa afferma in sostanza: a) l'esistenza di un flesso nella curva di accumulazione, cioè nella curva che esprime la tendenza generale, al di là dei cicli, del valore del capitale merce complessivo annualmente prodotto; b) l'esistenza di un massimo storico per quanto riguarda la massa di plusvalore prodotta in ciascun anno di riproduzione e c) l'esistenza di un massimo storico per il numero totale di proletari in grado di vendere la loro forza lavoro in questa società. Questa tesi è stata dimostrata all'interno del rigido corpo dottrinale della teoria marxista, senza alcuna ipotesi aggiuntiva, ed è corredata da un insieme di dati inconfutabili. Sarebbe tuttavia errato, come abbiamo visto, trarne la conclusione che il modo di produzione capitalistico è ormai vicino ad un "punto di crollo" economico o, peggio ancora, che esso è entrato in una irreversibile "fase discendente". Entrambe queste interpretazioni mostrerebbero infatti una profonda incomprensione dei metodi dell'analisi teorica marxista. Piuttosto, questi risultati devono servirci da guida nell'analisi politica del movimento reale, in quanto la soluzione delle contraddizioni materiali avviene sempre sul piano sovrastrutturale, politico, mai in quella che è la sfera economica.
Un altro punto che è bene sottolineare riguarda invece il duplice carattere associato al movimento di alcune grandezze fondamentali, in particolare del plusvalore e del numero di operai. Infatti, è sempre necessario distinguere tra quello che è un movimento astratto tendenziale, che si sviluppa su scala storica, ed il movimento concreto istantaneo, che risulta al contrario da una scala di osservazione limitata, in quanto la percezione della dinamica può essere nei due casi del tutto opposta. Ad esempio, si dimostra che la massa totale del plusvalore P e la popolazione operaia occupata n sono attualmente in diminuzione, qualora si consideri la traiettoria storica di queste grandezze, anche se entrambe tendono ad aumentare nel corso dei singoli cicli di espansione. Di fatto i termini "crescita" e "decrescita" presuppongono sempre un rapporto temporale prestabilito tra una grandezza e sé stessa, per cui non vi è in realtà nulla di misterioso nel fatto che una variabile possa simultaneamente aumentare e diminuire: si tratterà in questo caso di due rapporti temporali distinti, come è facile comprendere per mezzo di un esempio numerico. Se nel 1960 un capitale sociale pari a D = 1000 avesse fornito una massa di plusvalore P = 100, allora avremmo detto che il saggio del profitto t era pari al 10%. Se tutto questo plusvalore fosse stato poi accumulato, cioè trasformato in capitale addizionale d D, allora l'anno successivo avremmo avuto un capitale sociale pari a D¢ ¢ = D + d D = 1100, il quale avrebbe prodotto una massa di plusvalore P¢ ¢ = 110, posto che il saggio medio del profitto fosse restato invariato. Vediamo dunque che in questo caso il plusvalore è aumentato, e che questa crescita esprime un rapporto temporale determinato tra due anni di riproduzione consecutivi. Effettuiamo ora un salto di venti anni, al 1980, e supponiamo che il saggio medio del profitto sia calato al 6%. In questo caso un capitale D = 1500, di grandezza maggiore, darebbe luogo ad una massa di plusvalore P = 90, inferiore a quella che in precedenza si otteneva con un capitale pari a 1000. Se inoltre questo plusvalore venisse ora accumulato, avremmo nel corso del 1981 un capitale D¢ ¢ pari a 1590 che produce una massa di plusvalore P¢ ¢ = 95.4, dunque superiore a quella dell'anno precedente.
È chiaro dunque che il plusvalore può ben stare in un rapporto temporale di crescita quando si considerino due anni consecutivi di espansione, mentre è al contrario possibile che questo rapporto venga invertito qualora si considerino le masse prodotte in anni appartenenti a cicli di accumulazione distinti. Analogamente, se accade che l'incremento assoluto nel numero di operai occupati nel corso di una fase di espansione è costantemente inferiore al numero di licenziamenti che si verificano nella successiva fase di depressione, avremo un movimento istantaneo di crescita che si combina con un movimento tendenziale di diminuzione. Il problema è, a questo punto, quello di comprendere il modo in cui queste tendenze sono in relazione con il piano sovrastrutturale.
Analisi politica
Consideriamo dunque le ricadute che queste considerazioni possono avere sul modo in cui i militanti marxisti affrontano il problema dell'analisi politica degli eventi storici, in altri termini sui criteri generali che devono essere applicati per ricondurre in modo corretto la realtà apparente alla realtà astratta. Di fatto, se ammettiamo che la parte centrale del nostro lavoro consiste oggi nella spiegazione scientifica dei movimenti che avvengono nella società, e se vogliamo continuare sulla strada di coloro che ci hanno preceduto (Marx: Le lotte di classe in Francia, Il 18 Brumaio, Lenin: Lo sviluppo del capitalismo in Russia, L'Imperialismo, Bordiga: gli articoli Sul filo del tempo, tanto per citare i classici), dobbiamo maneggiare con sicurezza un metodo che consenta di effettuare un corretto e sicuro collegamento tra l'astrazione teorica e la concretezza degli avvenimenti, dunque di interpretare i fatti, anche e soprattutto quando il quadro che ci si pone di fronte appare estremamente complicato. Il criterio di analisi consiste dunque nell'escludere che la spiegazione degli eventi storici possa costituire in generale il frutto del lavoro di qualche mente geniale, ma che al contrario possa e debba costituire il risultato razionale collettivo di una corretta applicazione del metodo scientifico. Ciò non significa in alcun modo sminuire l'intuizione rivoluzionaria, che guida gli uomini nel movimento reale, ed è frutto di forze fisiche la cui componente unifica le spinte sociali verso un obiettivo da raggiungere. Essa accompagna lo svolgersi dei fatti che precedono la razionalizzazione e questa può produrre effetti solamente nell'incontro fra movimento reale e partito in quello che la nostra corrente ha chiamato rovesciamento della prassi (5).
I lavori teorici, anche quelli che si basano sul difficile linguaggio della Matematica, riguardano sempre rapporti tra classi di individui. Non una ma molte differenti classificazioni possono essere proposte nel tentativo di spiegare il complesso sistema di relazioni che gli uomini instaurano tra loro in quanto individui produttori. Ad esempio, potremmo effettuare una suddivisione in termini di appartenenza a determinate fasce di reddito (poveri, ricchi e soggetti intermedi), oppure in funzione del tipo di attività economica (agricoltura, industria, commercio, ecc.), e così via.
Il primo problema che dobbiamo affrontare consiste dunque nell'escludere che simili impostazioni abbiano validità scientifica. Parallelamente, dovremo chiederci quali sono i motivi per cui riteniamo che l'unica classificazione corretta sia quella di Marx basata sull'analisi dei rapporti di produzione effettivi. Malgrado l'apparente difficoltà a formulare una risposta esauriente, questi due quesiti possono trovare una soluzione semplice nella seguente osservazione: la storia del modo di produzione capitalistico e quella delle epoche passate mostrano che i movimenti sociali, le guerre, i fenomeni politici in generale, almeno quelli che contano e che determinano cambiamenti effettivi, sono sempre riconducibili a contrasti tra gruppi sociali, dunque classi, che detengono la proprietà delle forze produttive materiali: forza-lavoro, mezzi di produzione e terra. Al contrario, non accade mai che lo scontro politico possa essere spiegato in termini di contrasti tra gruppi di individui che trovano la loro coesione in una similitudine di reddito o di lavoro o nell'appartenenza ad etnie distinte, o altro ancora. Simili "spiegazioni", quando vengono formulate, appaiono sempre insoddisfacenti e superficiali, e soprattutto incapaci di fornire un quadro completo della dinamica storica.
Una classe costituisce dunque un raggruppamento sociale in grado di generare lotta politica e modificazioni sostanziali nella struttura del modo di produzione esistente. Questa lotta può, se protratta oltre un certo limite, determinare uno sconvolgimento radicale e definitivo delle condizioni economiche della produzione, favorendo al contempo l'instaurazione di nuovi e superiori rapporti di produzione. È questo il motivo per cui non è mai possibile osservare le classi al di fuori di una dinamica storica che veda lo scontro prolungato, anche se a fasi alterne che vedono un susseguirsi di periodi di stasi e di momenti di acutizzazione della lotta, tra gruppi di individui che combattono in modo organizzato per un fine unico, talvolta in contrasto con il fine particolare di singoli elementi appartenenti al gruppo, ma sempre in contrapposizione agli obiettivi generali di tutte le altre classi che partecipano allo scontro.
Uno dei compiti di noi marxisti è quindi quello di individuare, al di là delle forme fenomeniche sempre molto intricate, la reale natura della lotta politica in atto, riconducendo in ogni caso la spiegazione alle contraddizioni della vita materiale, che possono essere espresse con molta precisione facendo riferimento ai fattori citati in precedenza: salario, profitto, interesse, rendita, dunque a quella che è la struttura reale dei rapporti di produzione.
L'energia umana che una classe spende, o è in grado di spendere, nella lotta politica rappresenta in un dato momento storico il suo potenziale rivoluzionario. Il proletariato, la borghesia ed i proprietari fondiari rendono manifeste, nell'epoca attuale, potenzialità rivoluzionarie che non si riscontrano in nessun altro raggruppamento sociale (giovani, contadini, piccola borghesia, ecc.), in quanto hanno la capacità di provocare tutti i cambiamenti storicamente significativi della storia moderna. Questa energia può, come nel caso dei corpi fisici, presentarsi in due forme distinte: quella puramente potenziale, che esprime una capacità soggettiva, latente, una forza non ancora esplicita che deriva dalla posizione reciproca degli individui nel sistema di rapporti di produzione, quindi da un accumulo di tensioni che costituiscono il riflesso sovrastrutturale delle contraddizioni della vita materiale, e quella cinetica, che esprime movimento effettivo, lotta politica, scontro sociale. Queste due forme sono intercambiabili e concorrono assieme alla formazione di quella che è, in un dato momento storico, l'energia totale della classe ovvero, in termini politici, del suo potenziale rivoluzionario.
I periodi di grande fermento sociale costituiscono dunque l'espressione del fatto che le classi tendono, in certe condizioni, a sviluppare in forma cinetica tutta l'energia di cui dispongono. La Storia mostra inoltre che processi di questo tipo avvengono sempre in modo repentino, catastrofico, quando le tensioni accumulate superano una determinata soglia critica. Sono, questi, momenti durante i quali un evento di per sé insignificante può costituire la miccia che innesca lo scontro sociale. A questo punto una frazione più o meno grande dell'energia sviluppata viene dispersa nello scontro, producendo però, in ogni caso, un cambiamento significativo delle condizioni di produzione. Infatti, a parte la possibilità che la lotta si risolva in un capovolgimento totale del sistema di rapporti di produzione, questo cambiamento consiste sempre, quanto meno, in una modificazione radicale dei parametri quantitativi che caratterizzano la riproduzione materiale.
Quest'ultima possibilità rappresenta chiaramente solo una soluzione transitoria delle contraddizioni che hanno innescato il processo ma, trattandosi pur sempre di una soluzione, essa segna l'inizio della cosiddetta fase "calante", caratterizzata dalla graduale ritrasformazione dell'energia residua dalla forma cinetica a quella potenziale e dal progressivo accumulo di nuove tensioni. Al contrario della fase di "ascesa", questo stadio della lotta può proseguire per un tempo considerevole. Ad esempio, il periodo attuale presenta ancora tutti i caratteri tipici della fase calante dello scontro avvenuto all'inizio di questo secolo. Perciò non ha alcun senso affermare che il proletariato oggi non esiste come classe. Le classi di fatto consistono pur sempre in un accumulo di tensioni sociali ineliminabili, anche quando l'apparenza ne cela la sostanza. Prova ne è il fatto che il partito storico del proletariato non cessa di esistere.
Il carattere ciclico della lotta di classe, la quale presenta, come abbiamo visto, tre fasi distinte: rapida ascesa, scontro e graduale involuzione, può essere meglio compreso attraverso un'analogia tratta dalle scienze della Terra. La crosta terrestre risulta essere suddivisa in grandi placche o zolle dotate di movimento reciproco. Le masse rocciose sono pertanto sottoposte continuamente a deformazioni provocate dalle tensioni che si sviluppano nei punti di contatto tra le placche. Queste tensioni possono accumularsi sotto forma di deformazioni elastiche per un periodo di tempo abbastanza lungo, dando l'impressione di una immobilità del sistema, in altri termini di un'assenza di movimento. Ma non appena l'energia potenziale accumulata lungo le linee di contatto, che i geologi chiamano faglie, supera un limite determinato, si ha una liberazione improvvisa di tutta l'energia che si traduce in un movimento repentino delle masse rocciose. Questi movimenti improvvisi sono alla base di quei fenomeni che chiamiamo terremoti. Essi rendono evidente la vitalità di un sistema apparentemente immobile, proprio come quelle esplosioni inattese di contrasti sociali che sconvolgono in tempi brevissimi le condizioni di svolgimento della riproduzione materiale. È questo il motivo per cui i marxisti devono basare le loro analisi politiche sull'osservazione di avvenimenti che si distribuiscono su un arco di tempo relativamente lungo, non su valutazioni di carattere immediato che prescindono dalla tendenza generale.
Da questo punto di vista, il criterio che seguiamo per studiare la dinamica della lotta di classe è analogo a quello impiegato dal sismologo, il quale misura l'attività della crosta terrestre per lunghi periodi di tempo, al fine di attribuire un significato corretto agli eventi sismici di piccola entità che si susseguono incessantemente nei periodi compresi tra due eventi significativi.
In definitiva, il filo conduttore che deve guidare la nostra analisi politica può essere riassunto come segue. Ad un certo grado di sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale, i rapporti di produzione borghesi entrano in contraddizione con le forze produttive materiali, in un primo tempo ostacolandone ed in seguito limitandone in modo assoluto l'ulteriore estensione. Le contraddizioni della vita materiale determinano sempre un drastico aumento del potenziale rivoluzionario delle classi sociali, il quale può dar luogo in tempi brevissimi ad una vera e propria esplosione di lotta politica, ad una lotta di classe contro classe. Quando la natura di tali contraddizioni coinvolge in modo diretto la principale forza produttiva della società, ossia il proletariato, si innesca un processo che vede innanzitutto la trasformazione della grande massa dei salariati in classe nei confronti della borghesia, classe in sé dunque, in quanto l'elemento fondamentale di coesione tra gli individui consiste in un primo momento soltanto nella comune condizione di esser venditori di forza-lavoro. La contrapposizione fra le due classi principali assume pertanto inizialmente la forma di un vasto movimento basato su rivendicazioni immediate, di carattere salariale o normativo (richiesta di una giornata lavorativa ridotta ecc.), insomma su obiettivi che riflettono in modo immediato solo la posizione dei lavoratori nell'ambito dei rapporti di produzione, non ancora la contraddizione materiale che ha innescato il processo. Bisogna infatti sempre distinguere tra la base materiale di uno sconvolgimento sociale, e la coscienza che gli uomini acquisiscono, nelle diverse fasi della lotta, riguardo alla reale natura del conflitto in atto. Nell'ambito di questo processo si vengono così a delineare in modo sempre più netto delle forme organizzative di carattere sindacale, che costituiscono la vera ossatura del movimento di classe in questa fase. Queste forme possono in linea di principio essere mutuate da forme preesistenti dell'azione sindacale spontanea, ma in ogni caso si mantengono ben separate dalle vecchie organizzazioni integrate nello Stato borghese e ad esso funzionali.
A questo punto, se non diamo per scontata una sconfitta già a questo stadio primitivo della lotta, la reazione della classe dominante non produce altro effetto che quello di rafforzare l'organizzazione proletaria, in quanto per i singoli lavoratori inizia ad assumere un'importanza maggiore la salvaguardia degli strumenti che essi hanno a difesa del salario che non la salvaguardia del salario stesso. Questa fase segna dunque l'inizio di una nuova e più profonda trasformazione, in quanto il proletariato assume finalmente il carattere di una classe per sé, non solo nei confronti della borghesia ma come fatto cosciente a livello collettivo. La lotta economica si trasforma ora in lotta politica, nella misura in cui lo scontro si estende, si approfondisce, ed una nuova e più potente forma dell'organizzazione proletaria, il partito comunista, emerge nella lotta per il raggiungimento di quegli obiettivi, in apparenza parziali, i quali non possono tuttavia essere soddisfatti che attraverso uno sconvolgimento profondo del sistema di rapporti di produzione esistente. Ed è questo il momento in cui le stesse organizzazioni che nella fase precedente avevano guidato la lotta generalizzata a sfondo economico si presentano come ostacoli che devono essere a loro volta superati. Questo è in sintesi l'insegnamento che dobbiamo trarre dagli avvenimenti che hanno segnato la storia del movimento operaio negli ultimi due secoli.
La lotta puramente economica, che periodicamente contrappone singole categorie di lavoratori a settori particolari della borghesia è però un fatto permanente e non rientra nella dinamica appena descritta. Queste lotte, anche quando nascono spontanee, si svolgono sempre sotto la direzione dei sindacati, indipendentemente dal loro carattere più o meno opportunista e, nei paesi più evoluti, dalla loro più o meno forte integrazione nell'apparato statale. Tali lotte non alterano in alcun modo le condizioni generali della produzione. Esse tendono semplicemente a migliorare le condizioni di vendita della forza-lavoro per una particolare categoria di lavoratori, tipicamente ma non esclusivamente nei periodi di espansione, e costituiscono pur sempre un'ottima palestra nella quale gli operai possono misurare la loro capacità di combattimento, anche se solo nell'ambito ristretto della fabbrica o della categoria.
Arrampicare in una palestra artificiale è sicuramente cosa diversa da un'ascensione himalayana, ma può risultare utile nella fase preparatoria all'impresa vera e propria. L'importante è non farsi troppe illusioni. È questo il motivo per cui non dobbiamo assolutamente escludere, laddove se ne presenti l'occasione, un'attività di propaganda delle nostre posizioni politiche generali ed un'azione di indirizzo verso le più risolute forme di lotta possibili ed attuabili per il raggiungimento del fine immediato che i lavoratori si propongono. Il discorso sulle lotte puramente economiche si ferma qui, ma è opportuno sottolineare il fatto che spesso i compagni fanno confusione tra lo stadio economico della lotta politica, che riguarda l'intero proletariato e che preannuncia ben più profondi sconvolgimenti sociali, e la vera e propria lotta economica, la quale può solo coinvolgere singole categorie di lavoratori.
La lotta politica viene spesso identificata, in modo automatico, con lo scontro insurrezionale che conduce alla presa del potere, per cui anche una vasta ondata di scioperi generalizzati e prolungati per l'ottenimento di una giornata lavorativa ridotta o per altri motivi legati al rapporto inverso che esiste tra salario e plusvalore verrebbe considerato come una lotta immediata per scopi puramente economici. Questo è chiaramente un errore che deve essere evitato, in quanto qualsiasi episodio di lotta generalizzata che coinvolga l'intero proletariato su obiettivi unificanti, indipendentemente dal giudizio che ne possa dare un osservatore qualsiasi e dalla coscienza che gli stessi proletari ne abbiano, costituisce un momento della lotta di classe e come tale va considerato. Di fatto, la coscienza rivoluzionaria si fa strada proprio quando semplici obiettivi immediati ma irrinunciabili si pongono con chiarezza in contraddizione con il sistema di rapporti di produzione esistente.
Questi sono ancora solo discorsi di metodo, di impostazione del lavoro, i quali non forniscono chiarimenti decisivi sulla difficile scienza dell'analisi politica. Di fatto possiamo tranquillamente ammettere che la nostra capacità di portare avanti questo compito, soprattutto con le scarse forze a disposizione, è tuttora assai limitata. Il quadro che abbiamo della storia borghese nell'ultimo quarto di secolo è ancora approssimativo; manca per esempio la possibilità di continuare con quel potente strumento di lavoro che furono gli articoli Sul filo del Tempo, scritti apposta per unificare in un tutto indissolubile l'intuizione e l'algebra della rivoluzione, la storia e la scienza, la lotta immediata e il rovesciamento della prassi operato nel e dal partito.
Manca soprattutto la doppia direzione che unisce lo scritto e il lettore in quell'influenza reciproca che è alla base dell'organicità del lavoro. Sono questi i motivi concreti che ci hanno impedito fino ad oggi di avere un vero organo di stampa. È questo dunque l'ostacolo che la maturazione dei rapporti reali di forza dovrà abbattere. In definitiva, i nostri sforzi futuri saranno indirizzati verso un lavoro che superi sempre meglio la separazione fra i vari campi d'indagine, soprattutto superi la separazione fra analisi politica e sintesi teorica, quando essa non sia dovuta a mera necessità espositiva (6).
Abbiamo già discusso intorno a un organo di stampa che coinvolga soprattutto i compagni oggi presenti in Italia, Francia, Germania, e la prospettiva ottimale sarebbe quella di avere una diffusione dei risultati raggiunti con il lavoro comune diretta verso tutti coloro che intendano dare un contributo all'attuazione del programma che andiamo esponendo con le nostre Lettere.
Un esempio pratico
Consideriamo, a titolo di esempio, il "caso italiano". Ci limiteremo per ora a delineare i caratteri generali della questione, nel tentativo di dimostrare che anche i problemi di più difficile interpretazione possono essere risolti con metodo scientifico utilizzando lo schema teorico marxista. Partiamo dunque da una "fotografia" della situazione attuale. Essa mostra i seguenti caratteri essenziali:
1) Una lotta politica aspra tra formazioni parlamentari, nell'ambito della quale è possibile scorgere almeno due schieramenti contrapposti;
2) A parte il breve intervallo del governo Berlusconi, una successione di tre governi cosiddetti tecnici;
3) Una magistratura impegnata nell'eliminazione dalla scena politica delle formazioni che dal dopoguerra agli anni '80 avevano governato questo paese;
4) Una piccola borghesia delle aree più industrializzate organizzata in partito.
Cercheremo in seguito di dimostrare che questo quadro è il risultato di un processo iniziato molti anni addietro. Esso rappresenta da un lato il punto terminale di una traiettoria continua nell'ambito della quale si sono progressivamente delineati i contorni di un problema e parallelamente una soluzione al problema stesso. D'altro canto esso potrebbe rappresentare un indizio significativo dell'approssimarsi di una transizione che avrebbe sicuramente carattere discontinuo, dunque repentina e drammatica. Per quanto riguarda il punto 1), osserviamo innanzitutto che la contrapposizione tra i due schieramenti è totale su almeno sei punti:
a) L'adesione all'Unione Europea;
b) La stabilità dei cambi;
c) L'atteggiamento nei confronti della magistratura;
d) La possibilità dell'aumento della pressione fiscale;
e) L'atteggiamento verso i governi "tecnici";
f) Le modalità di intervento sul saggio d'interesse.
Apparentemente, dunque, la lotta politica riguarda esclusivamente la ripartizione del plusvalore nelle sue componenti, profitto, interesse e rendita. Se questa interpretazione fosse corretta, potremmo ad esempio affermare che ciascuno dei due schieramenti rappresenta un settore determinato della borghesia, ad esempio che il "polo" di Berlusconi costituisce l'espressione di una borghesia che ha la necessità di recuperare finanziamenti a buon mercato, che questa stessa borghesia ha inoltre tutto da guadagnare da una svalutazione della lira e nessuna intenzione di sacrificare i propri interessi sull'altare di Maastricht, ecc. Al contrario, potremmo affermare che il polo "progressista" rappresenta gli interessi di quella parte della classe borghese che dipende dai finanziamenti internazionali, dalle importazioni, dalla solvibilità dello Stato al quale ha prestato grosse somme nella forma di titoli di Stato. In questo contesto la magistratura potrebbe essere vista come il braccio armato di uno dei due schieramenti contro l'altro.
Questa interpretazione, anche se suggestiva, non è corretta, o almeno mostra solo alcuni caratteri secondari della faccenda. Essa ad esempio non spiega l'atteggiamento passivo del proletariato, o meglio la sua apparente assenza in quanto classe, e per di più sembra avvalorare l'idea di una borghesia soggetta a profonde lacerazioni interne ed incapace di seguire il suo interesse generale. Quest'ultima viene infatti vista solo come un insieme di gruppi caratterizzati da interessi contrapposti, non come una classe che, al di là della contingenza e pur non essendo unita e compatta come una classe ideale, è determinata a muoversi al fine della conservazione sua e del suo modo di produzione. Infine, si tratta di una interpretazione statica che prescinde totalmente dagli aspetti storici della vicenda, per cui tutto appare inspiegabilmente improvviso, privo di qualsiasi nesso con gli eventi precedenti.
Torniamo dunque indietro nella storia, ed osserviamo il processo di riproduzione italiano degli anni settanta. Se partiamo dalla crisi del 1974-75, vediamo che questo sistema era l'espressione più elevata del meccanismo nato dal Piano Marshall, il quale aveva dato luogo, come è noto, al cosiddetto "miracolo italiano". Esso si presentava innanzitutto come un sistema orientato verso produzioni "tradizionali" attraverso l'impiego di tecniche anche avanzate.
La composizione organica media era dunque piuttosto elevata, come del resto mostrano le curve di accumulazione e quella della popolazione operaia occupata, malgrado il carattere generalmente non innovativo delle merci prodotte per il mercato mondiale.
Ad esempio, nel 1971 più del 50% delle esportazioni italiane si articolava nei seguenti sei settori: macchine agricole (16.62%), chimica (8.42%), tessile (8.23%), abbigliamento (7.69%), calzature (6.26%) e siderurgia (5.25%), mentre tutti gli altri settori avevano un'incidenza inferiore.
D'altra parte, se prescindiamo dal tipo di valori d'uso prodotti e consideriamo solo il lato quantitativo, il tasso di penetrazione italiana sul mercato mondiale a partire dagli anni cinquanta è stato notevole, confrontabile con quello degli altri due ex-alleati del secondo grande conflitto mondiale: Germania e Giappone.
Il grafico riportato in fig. 1 mostra infatti che a fronte di una crescita del mercato mondiale di un fattore pari a 7 dal 1950 al 1980, le esportazioni italiane e tedesche sono aumentate di un fattore pari a 18 nello stesso periodo, e quelle giapponesi di uno pari a 50.
La fig. 2 mostra che sul fronte opposto si è avuta un'espansione molto più limitata da parte della Francia, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, in quanto la crescita è stata in tutti e tre i casi al di sotto di un fattore 10 e addirittura, per quanto riguarda gli ultimi due, inferiore a quella dello stesso mercato mondiale, il che indica una perdita progressiva delle quote di mercato per questi due paesi.
Tornando ora all'Italia, il fatto che la tendenza generale del saggio medio di accumulazione abbia seguito un andamento simile a quello manifestato da due paesi imperialisti, la Germania ed il Giappone, potrebbe far pensare ad un'analogia di condizioni per quanto riguarda lo svolgimento del processo di riproduzione materiale. Vedremo tuttavia che questa conclusione sarebbe errata, a causa di un insieme di fattori storici che da un lato rendono conto della "peculiarità italiana", dall'altra implicano l'esistenza di una contraddizione che sta alla base degli eventi politici recenti. Per comprendere questi fattori è necessario introdurre nuovi elementi di analisi, in particolare osservare quello che è il sistema creditizio di questo paese.
Osserviamo innanzitutto che se da un lato i grafici precedenti, in quanto mostrano la tendenza degli indici delle esportazioni di merci in termini quantitativi, forniscono un quadro del processo di sviluppo delle forze produttive per questi sei paesi nel periodo considerato, d'altro canto non forniscono alcuna informazione sui volumi effettivi, per cui non è ancora possibile effettuare un'analisi comparata del peso relativo che ciascuno di questi paesi assume nell'ambito del mercato mondiale.
I grafici 3 e 4 colmano questa lacuna, fornendo per di più indicazioni non secondarie sui rapporti reciproci tra questi sei paesi nell'ambito della lotta per la conquista di aree sempre più vaste del mercato mondiale.
La fig. 3 mostra che la Francia ha mantenuto per tutto il periodo compreso tra il 1950 ed il 1990 una quota stabilmente compresa tra l'11 e il 12% delle esportazioni totali dei sei paesi considerati. Viceversa, nel ventennio 1950-70 la Germania e l'Italia sono passate assieme da una quota complessiva pari al 15% ad una quota pari al 35% del totale, con un guadagno di 20 punti. Non è un caso che nello stesso periodo la Gran Bretagna abbia subìto da sola una diminuzione relativa di ben 18 punti, passando dal 31% al 13% delle esportazioni totali di questi sei paesi. Questa compensazione tra le curve indica che quasi certamente le quote di mercato perdute dalla Gran Bretagna sono state acquistate dalla Germania in primo luogo, secondariamente dall'Italia. In ogni caso, a partire dal 1970 tutti e quattro i paesi europei stabilizzano le loro quote di esportazione su valori determinati, che verranno conservati per tutto il successivo ventennio: Germania 24%, Francia 12%, Gran Bretagna 11% e Italia 10%.
Consideriamo ora la fig. 4. Essa mostra una situazione molto più fluida e non ancora stabile, in quanto nel corso di quaranta anni gli Stati Uniti passano da una quota pari al 40% ad un molto più contenuto 23%, con una perdita totale di 17 punti, mentre il Giappone passa dal 3% al 19%, con un guadagno perfettamente complementare di 16 punti. Inoltre, le due curve non mostrano per ora alcuna tendenza a stabilizzarsi su valori costanti, almeno nel breve periodo, come è invece avvenuto in Europa a partire dal 1970.
Se ne deduce che la progressiva erosione della frazione di mercato mondiale controllata dagli Stati Uniti è stata causata quasi interamente dalla penetrazione giapponese, e che questo processo è tutt'altro che giunto a compimento. In altri termini, il rapporto reciproco tra questi due paesi rappresenta un fattore importante di squilibrio che dovremo valutare con attenzione in futuro.
In ogni caso, questi dati indicano senza ombra di dubbio che il processo di accumulazione del ciclo postbellico italiano ha portato alla formazione di una massa di forze produttive paragonabile a quella degli altri grandi paesi a capitalismo maturo. Tuttavia, dal punto di vista dei rapporti internazionali di produzione, l'Italia non presenta i caratteri di una nazione imperialista al livello delle sue dirette concorrenti.
Vediamo ancora una volta come le forze produttive possano entrare in contraddizione con il sistema di rapporti di produzione, giacché l'enorme potenza accumulata dal sistema produttivo italiano si scontra oggi con una serie di rapporti interni ed internazionali che ne limitano l'ulteriore sviluppo, ad esempio con un sistema bancario fortemente controllato dallo Stato e frammentato, ma più in generale con un insieme di relazioni esterne che tendono a confinare questo paese ad un ruolo marginale.
D'altra parte, non dobbiamo mai dimenticare che una delle peculiarità storiche del modo di produzione borghese consiste proprio nel fatto che il capitale si conserva solo aumentando se stesso. Ad esempio, il singolo capitalista non può fare a meno di introdurre nuovi macchinari, aumentare la forza produttiva del lavoro, estendere la base produttiva, in breve accumulare, in quanto non esiste altro mezzo che questo per sopravvivere in un mercato in espansione. Allo stesso modo, l'Italia potrà conservare una quota pari al 10% delle esportazioni complessive dei sei paesi più industrializzati solo attraverso un tasso di accumulazione, e quindi di espansione delle forze produttive, che è tuttavia incompatibile con un sistema creditizio privo delle strutture che si osservano in una vera nazione imperialista; ma che è anche incompatibile con l'assenza di un'azione politica e militare conseguente, in quanto, come aveva giustamente sottolineato Lenin, ogni paese imperialista ha bisogno di una forza militare sufficiente ad impedire qualsiasi possibilità di coalizione da parte dei paesi debitori.
Ironia della sorte, l'Italia di oggi risente proprio della mancanza di quell'apparato politico e militare che invece possedeva nel periodo prebellico, quando al contrario poteva contare solo su una scarsa potenza produttiva. Questo problema è chiaramente condiviso dalla Germania e dal Giappone, due paesi che oggi si pongono a livello mondiale come forti esportatori netti di capitale finanziario. Per quanto riguarda la Germania, a Maastricht è stato di fatto annunciato il futuro eventuale matrimonio tra il potenziale bellico francese ed il sistema economico tedesco.
Il Giappone, viceversa, non ha altra chance che quella di un riarmo generalizzato ed autonomo (nel 1993 la sua spesa militare ammontava a 36 miliardi di dollari, e la sua flotta era già allora la più numerosa del Pacifico). Il problema, dal punto di vista della borghesia italiana, si pone tuttavia diversamente, in quanto la potenza militare rappresenta solo il supporto politico necessario al mantenimento di un rapporto di produzione determinato, che noi sintetizziamo con la parola imperialismo, il quale combina l'esportazione di manufatti con l'esportazione di merce-capitale, cioè di capitale finanziario internazionale. Questo è dunque il vero problema che la borghesia italiana dovrà risolvere, pena l'esclusione definitiva dal mercato mondiale. Non essendovi altro modo che una maggiore estorsione di plusvalore e un migliore utilizzo di esso, il mezzo sarà come sempre la lotta di classe.
Queste considerazioni ci consentono di dare una prima spiegazione degli eventi politici di questi ultimi anni, poiché mettono in evidenza la vera natura del problema fondamentale che si presenta oggi alla borghesia italiana. Ed è interessante notare come le contraddizioni che stanno alla base di uno squilibrio strutturale sempre più marcato abbiano dato luogo, in questi ultimi anni, ad una corrente ideologica che ha costituito alla fine il substrato necessario all'azione della magistratura e all'opera "risanatrice" dei cosiddetti governi tecnici. Questa corrente è attualmente l'espressione più genuina degli interessi generali della borghesia, in contrasto con quelli particolari, settoriali, di una parte più o meno rappresentativa di questa classe.
Di conseguenza, lo scontro politico attuale non deve essere considerato soltanto come una lotta intestina per la spartizione del plusvalore, ma come un indizio dell'approssimarsi di una lotta nell'ambito della quale la classe borghese tenterà con tutti i mezzi di affermare il suo interesse storico collettivo, anche a scapito dell'interesse particolare di singoli gruppi capitalistici.
Note
(1) Cfr. Tesi di Napoli, paragrafo 8.
(2) Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi 1975, pagg. 1437.
(3) Il rapporto del marxismo con la filosofia è anch'esso dinamico: prima l'adopera, poi la critica, in ultimo la elimina (cfr. Amadeo Bordiga, Appunti sui Manoscritti del 1844, In Riconoscere il comunismo, Quad. Int. 1992). Al loro apparire i testi di Marx erano stati intesi come l’avvento di una nuova scuola economica o una nuova scuola filosofica e il Manifesto era stato accolto come l’annuncio di un nuovo partito politico. La dottrina della nuova scuola rivoluzionaria invece "comprendeva una visione generale di tutti i problemi dell'azione umana in cui sono inclusi tutti i problemi del sapere; e ciò nello stesso tempo che si annunziava non come il parto di una nuova scuola di pensatori, ma come il bagaglio teoretico di una parte degli uomini ben definita dai suoi rapporti materiali con gli altri: la classe salariata" (Amadeo Bordiga, Appunti, circa 1929. Di prossima pubblicazione in Critica alla filosofia).
(4) Si può definire assioma ogni premessa che sia considerata evidente, cioè accettata come vera senza dimostrazione, da tutti coloro che ne comprendono il significato. In ogni sistema deduttivo gli assiomi sono le proposizioni primarie, o principii, che non si possono derivare da altre.
(5) Vedi Lettera ai compagni n. 31 Demoni pericolosi, pag. 26 cap. "Rivalutazione dell'intuito e dell'istinto".
(6) Negli anni immediatamente precedenti l'éclatement del Partito Comunista Internazionale, criticammo aspramente l'introduzione di una suddivisione delle pagine del giornale secondo argomenti chiamati "Questioni teoriche", "Questioni sindacali", "Questioni internazionali", "Questioni economiche" ecc. In contrapposizione a ciò, occorre ricordare che in precedenza le riunioni generali in cui si esponeva il lavoro di partito affinché fosse riverberato verso tutta la periferia organizzata, era presentato come "riunioni collegate" o "argomenti concatenati" per dare sempre l'idea di una elaborazione senza soluzione di continuità tra i vari campi.