32. La questione italiana (2)
Keynes, ieri
Per approfondire il discorso è necessario ora considerare più in dettaglio, e da un punto di vista teorico, alcuni aspetti fondamentali della vicenda. Gli accordi di Maastricht prevedono, come è noto, una serie di condizioni per la partecipazione all'area monetaria unica guidata dalla Germania. Una di queste condizioni impone un debito pubblico non superiore al 60% del PIL, il quale non mette assolutamente in discussione gli schemi di politica economica keynesiana che tutti i governi, volenti o nolenti, sono costretti a seguire. Uno dei maggiori problemi che si presentano oggi alla borghesia italiana è costituito tuttavia dall'entità del debito complessivo contratto dallo Stato, il quale ammonta a due milioni di miliardi di lire, una cifra che si pone molto al di sopra dei parametri fissati a Maastricht. Ma questo è in realtà solo un aspetto del problema. Infatti, la parola d'ordine che con sempre maggiore insistenza compare sui quotidiani della grande borghesia, "Riduzione del debito pubblico", non ha altro significato che quello di una richiesta di restituzione del denaro prestato allo Stato ed attualmente presente sotto forma di titoli pubblici. Si tratta dunque di una rivendicazione che solo la classe borghese, che detiene per ovvii motivi la stragrande maggioranza di questo capitale fittizio, può avanzare, ma che viene tuttavia mistificata sotto forma di ragionevole necessità dell'economia italiana, e quindi di nodo politico che deve essere sciolto nell'interesse generale di tutta la nazione. Come vedremo tra poco questi due aspetti del problema si intrecciano tra loro e forniscono indicazioni non secondarie su quello che potrà essere l'atteggiamento della borghesia italiana nel periodo critico che si avvicina.
Prima di procedere nell'analisi è opportuno però richiamare alla mente quelli che sono i cardini del sistema keynesiano. Osserviamo innanzitutto che le regole di politica economica individuate a suo tempo da Keynes non costituiscono un'opzione, cioè una scelta alla quale un governo può sottrarsi oppure aderire.
Esse infatti hanno lo scopo primario e dichiarato di evitare che le crisi periodiche del XX secolo possano costituire la base materiale per una rivoluzione proletaria. Non si tratta dunque di semplici ricette per l'ottimizzazione delle risorse, ma di una vera e propria cura tesa al salvataggio del capitalismo maturo da una malattia che potrebbe rivelarsi fatale. Il motivo per cui le crisi vengono in questo contesto viste come una minaccia per l'intero sistema, pur riconoscendo ad esse il ruolo di meccanismo di regolazione degli squilibri del processo di accumulazione, è reso evidente dal grafico storico (fig. 5), che mostra gli incrementi assoluti dell'indice della produzione industriale degli Stati Uniti dal 1861 al 1991. In questo diagramma una serie di incrementi positivi indica una fase di espansione, mentre i periodi di crisi sono associati ad incrementi negativi, dunque a fasi di ritiro del capitale dal processo produttivo. Vediamo dunque come a fronte di una banda di oscillazione degli incrementi relativi sempre più ridotta (cfr. Quaderni Internazionalisti n.1), si sia avuto un aumento progressivo dell'ampiezza assoluta delle oscillazioni. In altre parole, mentre l'ampiezza relativa dei cicli si è contratta, quella assoluta ha subìto un'amplificazione, per cui le stesse crisi, pur avendo oggi un'incidenza relativa minore, si approfondiscono in termini assoluti, cioè nell'estensione e nell'entità del fenomeno. È questo il motivo per cui la borghesia ha dovuto introdurre dei meccanismi che impedissero il libero decorso dei periodi di recessione.
Nel sistema keynesiano lo Stato assume in prima persona il ruolo di soggetto attivo per il controllo della crisi. Sono, questi, periodi durante i quali il plusvalore si cristallizza nella forma di denaro, per cui accanto all'interruzione forzata della riproduzione di una parte più o meno grande del capitale operante, determinata dalla chiusura di molte fabbriche, si ha il "congelamento" di una frazione considerevole del plusvalore prodotto nella forma di tesoro, dunque una brusca interruzione nel processo di formazione dei capitali addizionali. Nelle crisi classiche del secolo scorso questo denaro restava rinchiuso nelle casseforti delle banche per l'intera durata della recessione, per riaffacciarsi sul mercato come domanda di mezzi di produzione e forza-lavoro solo quando i guai erano terminati e la redditività del capitale ristabilita. D'altra parte, già negli anni '20 la borghesia era ormai cosciente del fatto che questo meccanismo non avrebbe funzionato all'infinito, soprattutto per le conseguenze che avrebbe comportato a livello sociale.
Marx sottolinea la potenza del credito, che favorisce l'utilizzo dei capitali stagnanti, in questo modo: "Il profitto medio del capitale particolare è determinato, come abbiamo visto, non dal sopralavoro che questo capitale si appropria di prima mano, ma dalla somma di sopralavoro che si appropria il capitale totale, contentandosi ciascun capitale particolare, parte aliquota di un tutto, di ritirare un certo dividendo. Questo carattere sociale del capitale non è completamente realizzato che col pieno sviluppo del sistema di credito e di banca. Il capitalista industriale o commerciale può disporre di tutto il capitale reale o potenziale che resta libero nella società, cosicché sia chi lo presta e chi lo impiega non ne sono né proprietari né produttori. Il sistema di credito e di banca toglie dunque al capitale il suo carattere privato e racchiude in sé, ma solo in teoria, la soppressione del capitale. È certo infine che il sistema di credito sarà una leva potente durante il periodo transitorio, il processo di passaggio dal modo di produzione capitalista al modo di produzione del lavoro associato, ma solo in connessione con grandi sconvolgimenti del modo di produzione" (7).
Nella misura in cui "il sistema di credito e di banca" non fu più sufficiente, gli Stati furono costretti a prendere misure tramite la loro autorità centralizzata e l'economia politica registrò il dato di fatto. L'idea centrale del sistema keynesiano fu dunque quella di rastrellare per quanto possibile il capitale momentaneamente immobilizzato nel sistema bancario ("rimasto libero nella società") sia attraverso l'emissione di titoli di Stato, sia attraverso l'introduzione di tecniche fiscali adatte, come la progressività delle imposte calcolata in base alle esigenze. Questo denaro doveva essere utilizzato in un sistema di spesa pubblica programmata al fine di essere reintrodotto nella circolazione come mezzo d'acquisto di beni di consumo (8). In questo modo si ottenevano immediatamente due risultati pratici.
In primo luogo si dava un sostegno indiretto alla domanda, che nel corso delle crisi era necessariamente compressa al di sotto del livello medio, al fine di contenere i classici fenomeni di invendibilità delle merci che accompagnavano i periodi di depressione. In secondo luogo, venivano almeno in parte tamponati gli effetti che le crisi producevano sulle condizioni di vita del proletariato.
Per meglio comprendere il meccanismo di intervento statale previsto da Keynes, dobbiamo ora considerarne gli effetti da un punto di vista teorico. Osserviamo innanzitutto che un prestito allo Stato differisce in modo sostanziale da una normale alienazione di denaro in quanto merce-capitale, dunque da quello che è il movimento del capitale finanziario in senso stretto. Nel primo caso tutto il denaro che lo Stato non fa rientrare nel ciclo produttivo (9) viene infatti speso come mezzo d'acquisto di merci che entrano nel consumo individuale. Ciò che resta nelle mani del borghese prestatore è un semplice titolo che esprime il diritto a prelevare annualmente una frazione delle entrate dello Stato in proporzione alla cifra alienata; il denaro infatti è stato ormai speso, non esiste più nelle casse dello Stato come in quelle del prestatore e, da un punto di vista teorico, non può neanche essere considerato come capitale. Viceversa, nel caso del capitale da prestito il denaro viene sempre trasformato in capitale produttivo e quindi nuovamente in denaro, non appena la merce prodotta sia stata venduta. Di fatto, è nella natura del denaro come capitale la sua capacità di riprodursi e di generare simultaneamente nuovo denaro, ossia plusvalore. Ma è proprio questo carattere del denaro, vale a dire la sua capacità di trasformarsi in capitale produttivo, a determinare la possibilità concreta di un rimborso della somma anticipata.
Come può dunque lo Stato restituire il denaro ottenuto in prestito, quando questo non sia stato utilizzato per la sua funzione originaria, ma solo come mezzo d'acquisto? In condizioni ideali di equilibrio, il valore totale dei titoli emessi durante una fase di recessione dovrebbe infatti essere completamente restituito nel corso della successiva fase di espansione. In questo caso il debito pubblico sarebbe soggetto a continue oscillazioni, in perfetta sincronia con i cicli economici di breve periodo, gonfiandosi nel corso delle crisi e riducendosi fino a scomparire nei periodi di boom. D'altra parte, se il denaro che viene rimborsato costituisse ancora capitale immobilizzato, cadremmo immediatamente in un circolo vizioso, in quanto di fatto è come se non venisse restituito alcunché, per cui il sistema non sarebbe affatto in equilibrio.
Donde proviene dunque tale denaro? La risposta a questa domanda è semplice in quanto, se escludiamo che si tratti di plusvalore destinato a trasformarsi in capitale addizionale, momentaneamente fissato in forma di tesoro, non resta che una sola soluzione: esso proviene dai redditi di tutte le classi. In altri termini, affinché il sistema del debito pubblico si mantenga in equilibrio con le esigenze del processo di accumulazione, è necessario che il plusvalore complessivo sottratto alla classe borghese nel corso di una recessione, maggiorato di un interesse, eguagli la frazione del reddito nazionale che lo Stato preleva attraverso l'azione fiscale nel corso della fase di espansione successiva, diminuita delle spese generali relative allo stesso periodo.
In pratica, se questa condizione risulta soddisfatta, si ha semplicemente una trasformazione di plusvalore in reddito nel corso di una crisi e una ritrasformazione di reddito in capitale addizionale nel periodo successivo. Questo meccanismo appare ideale soprattutto in quanto sostiene i redditi quando questi si comprimono, e li abbassa quando si espandono, per cui lo sviluppo del capitalismo segue in generale un andamento più armonico di quello che si avrebbe in assenza di una regolazione da parte dello Stato. Confrontato con il meccanismo generale del credito, esso esprime inoltre una proprietà di invarianza temporale del saggio di accumulazione, la quale si affianca all'invarianza spaziale che risulta dalla trasformazione del plusvalore in capitale da prestito.
Infatti, nel caso del sistema creditizio privato si ha semplicemente una concentrazione del plusvalore non utilizzabile per l'accumulazione, prodotto in certe sfere, e la sua trasformazione in capitale addizionale per altri settori della riproduzione, come abbiamo visto nel Quaderno sull'accumulazione per quanto riguarda la rendita, e come stiamo sviluppando nel secondo volume per quanto riguarda il processo di accumulazione differenziale.
In altre parole, ciò che non viene utilizzato in un punto, viene trasferito in un altro punto dove può trovare un impiego redditizio, per cui si ha semplicemente un trasferimento spaziale che lascia invariante il saggio medio di accumulazione. Viceversa, risulta chiaro che nel meccanismo del credito pubblico si ha in ultima analisi un trasferimento temporale dell'impiego di plusvalore da un momento di crisi ad una successiva fase di espansione.
Tornando ora all'analisi della situazione italiana, possiamo facilmente rilevare come l'applicazione pratica del modello teorico di equilibrio descritto precedentemente abbia in realtà dato luogo ad una deviazione progressiva della traiettoria reale rispetto a quella armonica prevista da Keynes. L'entità di questo scostamento dalle condizioni di equilibrio è oggi rappresentata da un debito pubblico che ha assunto proporzioni enormi e che, come vedremo tra poco, mette in serie difficoltà le condizioni di svolgimento del processo di accumulazione in Italia. È chiaro innanzitutto che la formazione di questo capitale fittizio è stata determinata da un anomalo rallentamento del tasso di accumulazione nel corso degli ultimi cicli di espansione.
In altri termini, e contrariamente a quelle che erano le ipotesi di Keynes, il processo di formazione dei capitali addizionali ha incontrato degli ostacoli proprio nei periodi che dovevano teoricamente determinare condizioni favorevoli ad una accelerazione nel saggio di formazione di nuovo capitale produttivo, quindi il denaro che avrebbe dovuto presentarsi nella forma di capitale monetario addizionale è stato in realtà progressivamente dirottato verso i titoli di Stato.
In sostanza, è come se gli ultimi periodi di boom si fossero svolti in condizioni di crisi permanente, almeno sotto questo aspetto, in quanto è chiaro che il normale svolgimento del processo di accumulazione presuppone che la presenza sul mercato di settori che comprano elementi del capitale produttivo per un valore inferiore a quello del capitale merce realizzato, che sottraggono dunque denaro alla circolazione, sia sempre compensata dalla presenza di altri settori della riproduzione che acquistano merci per un valore superiore a quello effettivamente realizzato, come abbiamo visto studiando il processo di accumulazione differenziale e quello di accumulazione nei settori soggetti al meccanismo della rendita. Nei periodi di crisi questa compensazione può essere ugualmente attuata attraverso l'intervento dello Stato, il quale fa sì che venga speso sotto forma di reddito denaro che avrebbe dovuto essere utilizzato per l'acquisto di mezzi di produzione e forza-lavoro.
È tuttavia piuttosto anomalo che ciò si verifichi nel corso di una fase di espansione, quando al contrario dovremmo assistere alla ritrasformazione di reddito in capitale, e quindi ad un esaurimento del debito pubblico. Ci si chiede dunque quali possano essere state le ragioni di questo rallentamento del saggio di accumulazione, e se questo abbia riguardato tutto il meccanismo di riproduzione oppure solo una parte dei settori produttivi.
Keynes, oggi
La risposta a questi due quesiti richiede un ulteriore approfondimento del problema. Osserviamo innanzitutto che l'espansione progressiva del debito pubblico non costituisce una peculiarità dell'Italia, ma della stragrande maggioranza dei paesi, come mostra ad esempio la Tabella 1, nella quale è riportato il debito delle nazioni più industrializzate in rapporto al prodotto nazionale lordo nominale negli ultimi dieci anni.
Piuttosto, ciò che realmente caratterizza l'Italia è l'entità di questo debito. Osserviamo inoltre che nel corso dell'espansione degli anni '80 solo il Giappone, tra i paesi più avanzati, ha ridotto sensibilmente il debito statale. La Gran Bretagna costituisce infine un caso a sé, in quanto ha ridotto progressivamente la quantità del debito nel periodo 1984-1990 (gli anni del tatcherismo), per poi riprendere una tendenza all'aumento della spesa pubblica negli ultimi quattro anni. Come si spiega dunque questa espansione più o meno generalizzata del sistema dei titoli di Stato? E quali sono le origini dell'"anomalia" italiana?
Come si vedrà nel secondo volume sulla dinamica dei processi storici (attualmente in fase di stesura), studiando i dettagli del meccanismo di formazione dei prezzi di produzione, il saggio medio del profitto costituisce il risultato di un processo graduale che si sviluppa su un arco di tempo molto lungo. Nell'ambito di questo processo il credito svolge un ruolo chiave, in quanto rappresenta il mezzo che consente ai saggi di accumulazione delle diverse sfere di differenziarsi in funzione del saggio locale di redditività del capitale. Infatti, è proprio il sistema bancario nelle sue funzioni di concentrazione e smistamento del capitale monetario a consentire l'incessante trasferimento di plusvalore da una sfera all'altra, e quindi la costituzione di saggi locali di formazione dei capitali addizionali, più o meno elevati, in funzione dello scostamento del saggio di profitto individuale di ciascuna sfera dal saggio medio. È chiaro dunque che nell'ambito di questo processo si viene a determinare una separazione netta tra impiego e provenienza del plusvalore. D'altra parte, nella misura in cui il sistema tende verso un'omeostasi generale, caratterizzata dall'uniformità dei saggi individuali di profitto, questo ruolo del credito perde progressivamente importanza, in quanto solo piccole e transitorie deviazioni dal livello di equilibrio sono consentite nello stadio finale di questo processo.
L'insieme delle sfere che concorrono alla formazione del saggio medio del profitto di una nazione determinano il suo mercato interno. Una delle contraddizioni fondamentali del modo di produzione capitalistico è costituita dal fatto che l'estensione del mercato interno non può mai essere pari al ritmo di crescita della forza produttiva del lavoro. Infatti, mentre la quantità di valori d'uso di un certo tipo che sono vendibili in un paese qualsiasi è limitata superiormente dalla popolazione totale, la capacità produttiva è al contrario teoricamente illimitata, in quanto dipende esclusivamente dal grado di sviluppo tecnico, dall'automazione più o meno spinta, ecc. Ad esempio, non avrebbe alcun senso costruire oggi in Italia 100 milioni di autovetture per una popolazione di 50 milioni di individui. Questa tendenza del mercato interno alla saturazione segue storicamente la tendenza dei saggi individuali di profitto ad uniformarsi ad un saggio medio, ed in un certo senso costituisce essa stessa un aspetto del processo di formazione dei prezzi di produzione.
I limiti del mercato interno sono stati superati, specialmente a partire dall'inizio di questo secolo, attraverso la costituzione del mercato mondiale, il quale ha eroso progressivamente aree sempre più vaste dei vari mercati nazionali. Attualmente gran parte delle produzioni non potrebbe nemmeno essere messa in opera nell'ambito ristretto di un mercato interno (si pensi ad esempio alla produzione di semiconduttori), in quanto il grado di utilizzazione dei macchinari sarebbe insufficiente a garantire anche solo il saggio medio del profitto nazionale.
Queste considerazioni, che per ovvii motivi non possiamo ulteriormente sviluppare in questa sede, spiegano ad esempio la ragione per cui solo un numero relativamente ristretto di sfere produttive concorra oggi alla formazione del mercato interno. Tra queste, ricordiamo i prodotti alimentari deteriorabili, la produzione di energia elettrica, il settore dei trasporti, quello delle costruzioni, le sfere legate ai lavori pubblici, il commercio, l'editoria, l'istruzione e i servizi sanitari. Tutte queste sfere sono caratterizzate da un saggio di accumulazione estremamente basso (in rapporto al saggio medio di profitto) o nullo, anche se singole aziende possono temporaneamente accumulare a ritmi vistosi grazie al processo di concentrazione industriale propria di certi settori. Ma questo tipo di accumulazione si accompagna sempre ad una chiusura di altre aziende, di modo che il saggio totale di accumulazione della sfera resta sempre invariato o quasi invariato.
Malgrado il fatto che tutte le sfere operanti su questo mercato interno ottengano oggi un saggio del profitto uniforme t , il quale assume come vedremo il ruolo di saggio di riferimento, la riproduzione si svolge qui su scala praticamente invariata, o perlomeno non si espande al ritmo che le sarebbe consentito dal saggio di profitto t . Ciò determina evidentemente la formazione di un capitale monetario virtuale, dato dal plusvalore prodotto e non accumulabile, il quale può solo funzionare da capitale da prestito. Si comprende così come il sistema bancario, nella misura in cui perde la sua funzione di sistema per la concentrazione e la distribuzione del plusvalore tra le singole sfere del mercato interno, assuma parallelamente il ruolo molto più importante di concentratore del plusvalore prodotto complessivamente da tutti i settori del mercato interno e non utilizzabile per l'accumulazione a causa dello stato di saturazione di questo mercato. Questo denaro, come tutti sappiamo, si trasforma in capitale finanziario internazionale destinato ad un utilizzo esterno, ed è alla base di quel fenomeno che chiamiamo imperialismo.
Consideriamo ora l'insieme delle sfere che operano in condizioni di concorrenza internazionale, che dunque fanno circolare il loro capitale merce sulle diverse aree del mercato mondiale. In questo caso l'ampliamento della scala della produzione è subordinata a tre fattori: a) all'estensione del mercato; b) al saggio medio del profitto nazionale, il quale costituisce in questo caso il limite minimo di riferimento; c) alla possibilità di ampliare la propria quota di mercato. La presenza di paesi subordinati, in grado di assorbire quote sempre maggiori del prodotto di un paese imperialista, favorisce in questo caso il processo di accumulazione per quelle sfere che operano sul mercato mondiale. Paesi di questo tipo sono sempre importatori netti nei confronti della centrale imperialistica, e saldano il loro deficit commerciale proprio grazie al capitale finanziario proveniente dal paese che si caratterizza per essere un esportatore netto nei loro confronti. Tutto il processo si risolve dunque in un progressivo indebitamento di questi paesi verso le grandi potenze imperialistiche.
In definitiva, ciò che caratterizza una nazione imperialista può essere riassunto come segue: a) un sistema bancario in grado di trasformare il plusvalore prodotto nelle sfere che operano sul mercato nazionale in capitale finanziario internazionale; b) un insieme di sfere che producono per l'esportazione; infine c) un insieme di paesi subordinati che acquistano le merci prodotte da questa nazione grazie al flusso di capitale finanziario in ingresso.
Abbiamo ora tutti gli elementi per comprendere la posizione reciproca dell'Italia e di altri paesi industrializzati nel contesto del mercato mondiale. Osserviamo infatti che le caratteristiche (a) e (c) non sono attribuibili ad un paese come l'Italia, il quale è privo di un vero e proprio sistema bancario e borsistico in grado di operare su scala internazionale, nonché di un'"area della lira" in grado di garantire un sicuro assorbimento delle merci prodotte. Essa non ha dunque tutte le caratteristiche di una vera e propria potenza imperialistica, pur possedendo una capacità produttiva paragonabile a quella di altri grandi paesi ad alta industrializzazione. È questo il motivo per cui la quota preponderante del plusvalore prodotto nelle sfere associate al mercato interno trova forti ostacoli a trasformarsi in capitale finanziario internazionale.
La soluzione è sotto gli occhi di tutti: lo Stato si fa carico di assorbire gran parte del profitto non accumulabile emettendo titoli di Stato. Questo meccanismo, che rappresenta una forma moderna di keynesismo, non è esclusivamente italiano: abbiamo visto che quasi tutte le grandi centrali imperialistiche hanno un debito pubblico in aumento. Ciò avviene quando la concorrenza internazionale, o anche solo ostacoli dovuti al contrasto tra nazioni diverse, impediscono un'ulteriore estensione dei mercati di sbocco. In questi casi lo Stato tampona il disequilibrio aumentando l'emissione di titoli, ma il rapporto tra il plusvalore trasformato in titoli pubblici e quello esportato resta basso.
L'Italia, pur essendo un paese che ha ormai raggiunto una capacità produttiva tale da non poter più assumere il ruolo di paese subordinato, non ha la forza di imporsi come paese imperialista alla pari con i concorrenti. Questa contraddizione sta dunque alla base del suo vistoso debito pubblico.
Per meglio comprendere la posizione finanziaria dell'Italia nell'ambito del mercato mondiale dei capitali monetari, è necessario ora analizzare i flussi monetari che risultano dalle bilance dei pagamenti internazionali.
La figura 6 mostra il flusso netto di interessi e profitti percepiti sugli impieghi esteri da Italia, Germania e Giappone. Valori negativi corrispondono in questo caso ad un pagamento di interessi sul capitale importato, mentre valori positivi indicano un flusso netto entrante di interessi acquisiti sul capitale esportato.
Come si vede, le tre curve seguono lo stesso andamento ed assumono valori analoghi fino all'inizio degli anni '80. Nel periodo successivo, invece, si osserva nettamente una biforcazione tra le curve della Germania e del Giappone da un lato, dell'Italia dall'altra. Quest'ultima mostra infatti un aumento esponenziale dell'interesse pagato sui debiti esteri, che si contrappone all'aumento dell'interesse netto acquisito dalla Germania e dal Giappone sul capitale esportato. Queste curve sono indicative del fatto che a partire dagli anni '80 questi due paesi si sono trasformati in forti esportatori netti di capitale, mentre al contrario l'Italia si è trasformata in un forte importatore netto di capitale monetario da prestito o di investimenti diretti di capitale straniero.
Consideriamo ora la figura 7, la quale riporta gli stessi dati per gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna. La curva relativa agli Stati Uniti mostra che questo paese ha sempre percepito interessi e profitti netti oscillanti tra i 15 ed i 40 miliardi di dollari per anno.
Analogamente, la Gran Bretagna ha sempre acquisito un interesse tendenzialmente compreso tra i tre ed i cinque miliardi di dollari all'anno. Viceversa, nel caso della Francia si osserva un'inversione di tendenza analoga a quella vista per l'Italia, anche se molto più contenuta, in quanto a partire dagli anni '80 questo paese inizia a pagare interessi crescenti su un flusso di capitale netto entrante.
Passiamo ora ai flussi netti annui di capitale a lungo termine, entranti o uscenti da questi sei paesi. Questi flussi comprendono sia investimenti diretti che prestiti a lungo termine, e sono fondamentali per lo studio dei movimenti internazionali del capitale finanziario.
La fig. 8, in particolare, è di estrema importanza, in quanto mostra chiaramente il rapporto finanziario che lega Stati Uniti e Giappone a partire dagli anni '80. Dato che una fuoriuscita netta di capitale è rappresentata da un valore negativo, mentre l'ingresso di capitale straniero è rappresentato da un valore positivo, possiamo osservare come a partire dal 1984 e fino al 1989 gli Stati Uniti abbiano costantemente subìto un'importazione netta assai rilevante di capitale a lungo termine, mentre il contrario è avvenuto nel caso del Giappone.
La forma perfettamente complementare delle due curve indica inoltre che il flusso in uscita da questo paese ha avuto come destinazione principale proprio gli Stati Uniti. Questo dato, assieme a quello relativo alle esportazioni di merci, fornisce quindi indicazioni aggiuntive sulla dinamica del mercato mondiale lungo l'asse Washington-Tokyo.
La fig. 9 riporta invece i dati relativi alla Germania ed all'Italia. Queste curve confermano, salvo poche eccezioni, l'esistenza di un flusso netto entrante persistente nel caso dell'Italia, ed una massiccia esportazione di capitale da parte della Germania a partire dalla seconda metà degli anni '80. Dato che le due curve presentano una debole complementarità, è probabile che i capitali diretti verso l'Italia abbiano soprattutto un'origine germanica.
Per quanto riguarda la Francia e la Gran Bretagna, omettiamo per motivi di brevità il grafico relativo ai movimenti di capitale a lungo termine. Diciamo solo che esso conferma nel caso della Francia un'inversione di tendenza a partire dagli anni '80.
Abbiamo fin qui mostrato la tendenza dei flussi relativi all'interesse ed al capitale finanziario internazionale. È importante osservare che questi ultimi dati possono essere sommati anno per anno, in modo da fornire nuove curve che riflettono l'ammontare complessivo di capitale trasferito a partire dal 1973. In termini tecnici, diciamo che è possibile ricavare la curva della funzione integrale associata al grafico del flusso annuo di capitale a lungo termine. Questa fornisce anno per anno, a meno di un fattore costante dato dal valore iniziale relativo all'anno 1973, la quantità totale netta di capitale investito all'estero o, viceversa, di capitale estero investito in patria. I grafici che verranno discussi di seguito riportano l'andamento di questa grandezza per tutti e sei i paesi considerati, e consentono di effettuare un raffronto completo tra essi.
Nella fig. 10 abbiamo riportato la curva dell'impiego di capitale finanziario giapponese all'estero. Essa mostra un aumento formidabile della penetrazione finanziaria di questo paese negli ultimi venti anni, fino alla cifra attuale, che supera i 700 miliardi di dollari.
La fig. 11 riporta gli stessi dati per la Germania. Come si vede, l'andamento è analogo anche se le cifre coinvolte sono di gran lunga inferiori.
Per quanto riguarda l'Italia, la fig. 12 mostra invece una tendenza del tutto opposta, in quanto la curva è interamente positiva; il che indica una presenza netta ed in costante aumento di capitale straniero, al contrario di quanto si osserva nel caso della Germania e del Giappone. Inoltre, ancora una volta possiamo osservare una certa complementarità tra la curva italiana e quella tedesca.
Ciò mostra chiaramente il motivo per cui l'Italia non possa essere considerata come un paese imperialista a tutti gli effetti, malgrado l'enorme capacità produttiva accumulata. Essa di fatto, dal punto di vista dei flussi finanziari, presenta dei caratteri analoghi a quelli che si riscontrano nel caso di paesi subalterni quali l'Argentina o la Turchia, mentre possiede una massa di forze produttive simile a quella di paesi dominanti quali la Francia e la Gran Bretagna. Questa è in ultima analisi la base materiale della contraddizione che si presenta oggi alla borghesia italiana.
Passiamo ora agli altri tre paesi. Per quanto riguarda la Francia, il forte flusso di capitali a lungo termine in ingresso negli anni '80 ha determinato alla fine un'inversione a partire dal 1990, in quanto per la prima volta questo paese ha dovuto subire una presenza netta di capitale straniero nel proprio meccanismo di riproduzione (fig. 13).
Viceversa, la curva relativa alla Gran Bretagna (fig. 14) mostra un andamento analogo a quello che si osserva nei grafici associati al Giappone ed alla Germania, dunque una tipica curva di accumulazione del capitale finanziario. Ciò indica che la Gran Bretagna, a dispetto dell'arretramento subìto nel settore delle esportazioni di merci, mantiene ancora ben saldamente un ruolo attivo nel campo dell'esportazione di capitale finanziario.
Consideriamo infine gli Stati Uniti (fig. 15). Questa curva ha un interesse particolare, in quanto mostra una netta inversione di tendenza a partire dalla seconda metà degli anni '80. Ciò naturalmente discende da quanto avevamo già visto a proposito dei flussi netti di capitale a lungo termine e dei flussi di interessi e profitti sugli impieghi esteri. Apparentemente, la curva di fig. 15 mostra che a partire dal 1986 gli Stati Uniti hanno utilizzato un capitale a lungo termine netto di origine esterna, mentre in precedenza si comportavano come un paese esportatore di capitale. Questa conclusione sarebbe tuttavia errata, poiché non conosciamo la situazione di partenza relativa al 1973. In realtà l'intero grafico dovrebbe essere traslato verso il basso di una quantità pari al capitale netto totale a lungo termine di origine statunitense impiantato all'estero nel 1973, in quanto si tratta di un dato non trascurabile. In ogni caso, la curva di fig. 15 mostra chiaramente l'effetto dell'enorme migrazione di capitale finanziario giapponese che si è verificata nel corso degli anni '80.
Abbiamo ora un quadro completo dei flussi internazionali di merci e capitali che hanno avuto origine o sono stati diretti verso i sei paesi a più alta industrializzazione del mondo negli ultimi venti anni. Per quanto riguarda l'Italia, aggiungiamo che nel 1993 il capitale netto a lungo termine assorbito da questo paese a partire dal 1973 era pari a circa 120 miliardi di dollari, dunque quasi 190 mila miliardi di lire correnti. Questa cifra corrispondeva a circa 1/10 del debito pubblico italiano dell'epoca, ed è molto probabile che ne costituisse effettivamente una parte. In altri termini, è verosimile che gran parte di questo capitale a lungo termine sia stato assorbito direttamente dallo Stato attraverso il sistema dei titoli pubblici pluriennali a partire dagli anni '80. Se questa estensione del debito statale a livello internazionale proseguisse, l'Italia si troverebbe in breve tempo in una situazione finanziaria analoga a quella di paesi quali il Messico, che aveva nel 1993 un debito estero a lungo termine di quasi 91 miliardi di dollari, o il Brasile, che nello stesso periodo aveva accumulato ben 105 miliardi di dollari di debito. Volente o nolente, la borghesia italiana deve dunque far fronte ora ad una situazione che a ragione viene giudicata critica.
Ora abbiamo tutti gli strumenti teorici che occorrono per valutare in modo obiettivo la situazione attuale e per fare alcune previsioni sul futuro.
Osserviamo per cominciare che l'espansione del debito pubblico ha un limite oggettivo nell'entità del reddito tassabile. Il punto critico viene raggiunto quando il prelievo fiscale basta a malapena a pagare gli interessi su questo debito, per cui diventa problematica non solo un'ulteriore espansione, ma anche la possibilità di una eventuale restituzione del denaro. Questo punto, inutile dirlo, fa ormai parte della realtà italiana. Abbiamo inoltre visto che la contraddizione fondamentale associata a questo processo ha avuto origine nell'incapacità della borghesia italiana (e quindi del suo apparato statale) di porsi sul mercato mondiale come una vera borghesia imperialista, malgrado esistessero potenzialità per effettuare questo salto qualitativo. Questa contraddizione ha determinato un forte aumento del potenziale energetico della classe borghese negli ultimi anni, dato che nessuna operazione indolore può ristabilire un equilibrio che, stando così le cose, risulta ormai perso per sempre. È questo il motivo per cui quello che si prepara oggi è uno scontro di classe che sarà drammatico e violento, in quanto non basterà eliminare il vecchio ceto politico, divenuto inutile, a creare le condizioni per un ridimensionamento del debito pubblico e per una conseguente trasformazione radicale del sistema produttivo e bancario italiano. In questo contesto, i governi tecnici che si susseguono da alcuni anni a questa parte possono solo impedire che nel breve periodo la situazione precipiti, mentre la vera e propria cura comporterà uno scontro di proporzioni enormi, dato che la borghesia sarà costretta a giocare il tutto per tutto. Come? Gettando nella miseria la maggior parte della popolazione, compresi larghi strati della piccola borghesia? È vero che la borghesia ha paura di intraprendere questa strada, ma è altrettanto vero che la lotta di classe aperta rappresenta in determinate condizioni una scelta obbligata, non una opzione possibile, come dimostrano i fatti di dicembre in Francia. Sarà questo il momento in cui il proletariato potrà entrare nuovamente sulla scena della Storia, con tutto il potenziale rivoluzionario accumulato in settanta anni di stasi. Appare infatti chiaro che l'unica via che possa consentire alla borghesia italiana di evitare un crollo finanziario ed il conseguente azzeramento del debito, data l'impossibilità di un ulteriore inasprimento del prelievo fiscale, consisterà in una massiccia riduzione della spesa pubblica e nel graduale rimborso dei prestiti, almeno fino al punto in cui il prelievo fiscale sarà nuovamente in grado di provvedere da solo alla riduzione del debito pubblico. In pratica si tratterà dunque di sottrarre alcune centinaia di migliaia di miliardi di reddito al proletariato e a larghi strati della piccola borghesia. Nello stesso tempo dovrà essere ristrutturato a partire dalle radici il vecchio e frammentato sistema bancario nazionale e dovrà essere adottata una politica di gran lunga più aggressiva in quelle che verranno individuate come potenziali aree di sbocco. Ciò dovrà avvenire anche attraverso il rafforzamento di quei settori tecnologicamente avanzati che hanno avuto finora un ruolo secondario nelle esportazioni italiane e, soprattutto, attraverso un ruolo attivo nella cosiddetta politica estera: "Per aumentare la penetrazione delle imprese italiane nei mercati internazionali occorre definire strumenti più efficaci e moderni... rendere più produttivo l'uso delle risorse pubbliche e orientare queste su obiettivi economici strategici e di politica estera definiti a livello di governo... garantire un coerente coordinamento dei soggetti preposti al rafforzamento della penetrazione all'estero del sistema produttivo" (10).
Osservazioni conclusive
L'analisi precedente aveva essenzialmente lo scopo di mostrare i criteri che dovrebbero essere seguiti quando si affronta l'analisi politica di avvenimenti che determinano o anche semplicemente preparano cambiamenti qualitativi nei rapporti tra le classi. A questo punto è opportuno sottolineare alcuni aspetti metodologici del nostro lavoro. Una volta impostata un'analisi come quella contenuta nelle pagine precedenti, è necessario che essa venga sviluppata come lo furono i classici semilavorati della Sinistra per verificarne l'aderenza alla realtà in un lavoro che comporterà inevitabilmente una ulteriore raccolta di dati e di osservazioni. Il carattere scientifico di un'analisi storica si manifesta di fatto proprio nella sua falsificabilità, cioè nella sua proprietà di poter essere sottoposta ad una verifica sperimentale (11). Osserviamo inoltre che i dati, una volta raccolti, potrebbero non solo confermare i risultati teorici raggiunti, ma anche mettere in luce degli aspetti ulteriori della vicenda non adeguatamente affrontati nella presente Lettera. Solo attraverso questo lavoro organicamente comune, impostato con criteri scientifici, sarà possibile dare un contributo alla ricostruzione di una scuola di pensiero autenticamente marxista.
Note
(7) K. Marx, Il Capitale, Libro III cap. XXXVI. Riportiamo questo passo nella traduzione comparsa nell'opuscolo Sul filo del tempo, Milano maggio 1953 pag. 10.
(8) La teoria di Keynes è chiamata anche Teoria della domanda aggregata perché si basa sull'interdipendenza di tre fattori economici ritenuti fondamentali: consumo-occupazione, tasso d'interesse, investimento. Il presupposto di Keynes è che non si debba spiegare l'equilibrio tra domanda e offerta, occupazione e produzione, come nei modelli dei classici, ma "il loro processo di variazione". Keynes si dichiarava antimarxista, ma è l'unico economista che utilizza uno schema dinamico della riproduzione allargata assimilabile a quello di Marx (anche se lo chiama "principio della domanda effettiva") e soprattutto l'unico che divida l'economia in due settori: quello della produzione di mezzi d'investimento e quello della produzione di beni di consumo.
(9) Vi sono però cicli produttivi completamente artificiosi che, aggiungendosi a quelli esistenti, non fanno che spostare reddito (plusvalore) all'interno della società. Cfr. per esempio: Il progetto Alfa-Sud ed una classica tesi marxista. In Il programma comunista n. 15 del 1967.
(10) Dal Protocollo sulla politica dei redditi e il sostegno del sistema produttivo del 23 luglio 1993.
(11) Non si confonda questo concetto con le teorie di Popper, che è un nemico del materialismo storico e dialettico. I criteri di razionalità e verifica mutano storicamente e con essi muta il linguaggio e la metodologia scientifica. Siccome la verificabilità assoluta non esiste, e neppure la falsificabilità definitiva popperiana, si può solo accettare la falsificabilità come processo di transizione da un enunciato accettabile in un dato momento ad uno più potente ("Se col meccanismo linguaggio si costruisce la scienza, oltre che coi dati sperimentali, e si attende dalla scienza stessa il perfezionamento di quel meccanismo, si è in un circolo vizioso perché mai la scienza acquisterà un valore indipendente dal meccanismo stesso". A. Bordiga, Appunti cit.).