32. La questione italiana (3)

Chi di parametri ferisce...

Nel 1994 in Italia vi fu il movimento contro la riforma delle pensioni e i tagli alla spesa pubblica. Scesero in piazza complessivamente 13 milioni di persone, non solo salariate. Vi fu naturalmente uno sfruttamento degli avvenimenti da parte dei sindacati opportunisti e dei partiti politici, ma l'energia della protesta non poteva essere inventata, suscitata dal nulla. Il fatto è che il debito complessivo dello Stato italiano aveva raggiunto i due milioni di miliardi di lire e la gestione di tale debito si avvicinava pericolosamente alla soglia del collasso, cioè al punto in cui le entrate tributarie non bastano più a coprire le spese per interessi del debito.

Nello scorso dicembre in Francia scesero in piazza altri milioni di persone più o meno per gli stessi motivi. Lo Stato francese varava il piano Juppé pressato da un debito pubblico che era triplicato dal 1991 al 1993 rimanendo costante nel 1994 e 1995 nonostante i tentativi di rientro del precedente governo. Di tutto il debito, la parte dovuta alla Sécurité sociale era quadruplicata nello stesso periodo e non era stato nemmeno possibile porvi freno: aumentava fino al 1995.

In confronto a quelle italiane le cifre francesi non erano così drammatiche per la borghesia, ma l'intento dichiarato, sfruttando i parametri internazionali, era quello di tagliare sulla sicurezza sociale per distribuire al settore privato.

Se gli episodi citati hanno ottenuto un grande rilievo sulla stampa nostrana, non così è avvenuto per episodi simili in altri paesi europei. Nel 1994, in Grecia, esplose un grande movimento sociale a partire dallo sciopero generale del 14 dicembre contro la politica salariale del governo, movimento che continuò per buona parte del 1995 con scioperi durissimi nel settore dei trasporti. In Germania scioperò nel 1994 e 1995 tutto il settore metallurgico i cui accordi servirono da modello per gli altri settori, meno l'editoria e le poste che scioperavano per mantenere condizioni di miglior favore. Anche in Spagna, dopo lo sciopero generale contro la politica governativa dei salari nel 1994, si scatenarono ondate di scioperi per settore, coinvolgendo le miniere, i cantieri navali, la flotta da pesca e la compagnia aerea di bandiera. In Inghilterra tutti i settori pubblici scesero in sciopero durante il 1995 in una ondata di lotta che ebbe il suo culmine nella giornata del 21 ottobre a Londra, dove fu indetta una immensa manifestazione "in difesa del servizio pubblico". Lo stesso era successo in Belgio e in Portogallo.

Tutta colpa dei "parametri di Maastricht"?

Sappiamo che i parametri di riferimento per qualsiasi azione degli Stati sono carta da diplomazia, valida solo finché sono validi i motivi che li suscitano. Se le intese fra gli Stati fossero più importanti dei parametri di Maastricht, questi ultimi o sarebbero cambiati nel giro di due giorni, o sarebbero fatti slittare nel tempo. Ma non è questione di Maastricht. I parametri in gioco sono quelli della funzionalità capitalistica degli Stati, ovvero dei rapporti fra le classi sociali all'interno degli Stati stessi.

Quando le economie più forti ricevevano una richiesta di prestito da quelle più deboli, dettavano i loro parametri attraverso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale: tanto di prestito, tanto di taglio alla spesa pubblica; tanto d'interesse, tanto di condizioni per le garanzie sociali. Per molti paesi la spesa pubblica era ed è costituita quasi esclusivamente nel sostegno del prezzo politico del pane o di qualche genere di prima necessità. Scesero in piazza le masse egiziane, tunisine, marocchine, filippine, venezuelane. Furono schierati gli eserciti e vi furono migliaia di morti e feriti. Per i parametri dettati dal FMI.

Oggi i parametri non sono dettati da un paese economicamente più forte, sono dettati dalle leggi dell'accumulazione nei paesi che un tempo li dettavano agli altri.

Nell'epoca dei comuni era già conosciuta la spesa pubblica a carattere economico e non solo militare. Le Repubbliche Marinare dettero impulso al mercantilismo e al capitalismo armando flotte potenti. Nel '600 Colbert mise a punto un sistema di finanze che tartassava meno i contadini e cercava di cavare il più possibile dalla nobiltà terriera. Odiava il gaspillage di Versailles e varò grandi e moderne "manifatture reali". Con il debito pubblico creava le condizioni del capitalismo. "Il sistema del credito pubblico, le cui origini possono essere rintracciate sin nel Medioevo, a Genova e a Venezia, si estese, nel periodo della manifattura, a tutta l'Europa, e trovò nel sistema coloniale, con il suo commercio per i mari e con le sue guerre di mercato, la propria serra calda. In questa maniera attecchì soprattutto in Olanda. Il debito pubblico, vale a dire l'alienazione dello Stato (dispotico, costituzionale o repubblicano) imprime il suo marchio all'era capitalistica. Il debito pubblico si trasforma in una delle più potenti leve dell'accumulazione originaria. Come per magia, esso conferisce al denaro improduttivo la capacità di procreare, e così lo converte in capitale senza che esso debba andare incontro al rischio e alla fatica che, necessariamente, comporta l'investimento industriale o quello usuraio" (12).

Già nell'epoca manifatturiera, ma soprattutto in quella delle grandi realizzazioni industriali dopo la Prima Guerra Mondiale, la funzione dello Stato in economia passa da quella di semplice regolazione degli scambi commerciali a quella dell'intervento diretto nell'economia. Non solo mirante all'investimento nelle opere di pubblica utilità, ma al controllo delle attività dei singoli capitalisti, fino a divenire puntello della produzione in generale, come recita bene il Protocollo del luglio '93.

Nasce e si afferma in tal modo "il moderno sistema delle imposte", in forza del quale masse crescenti di valore, sottratte in larghissima misura alla classe salariata ma non solo ad essa, vengono trasmesse al processo di accumulazione, sorreggendolo in continuazione, ma specialmente nei momenti di crisi.

Fin dall'inizio, dunque, l'attività dello Stato nel campo economico è tesa a raggiungere fini economici generali attraverso l'investimento di capitali per favorire l'accumulazione. Ma se un Colbert poteva impiantare ex novo le celebri manifatture vietando l'importazione dei beni là fabbricati, oggi lo Stato dirige in vari modi l'investimento per aumentare la produttività, e quindi la competitività dei prodotti di un determinato paese sul mercato mondiale. Aumentare la produttività significa sempre accrescere il divario fra pluslavoro e lavoro necessario (fra profitto e salario) non tanto con l'aumento della giornata lavorativa quanto con macchine moderne, perché in ultima analisi, come dice Marx, il settore dei mezzi di produzione si sviluppa sempre di più in rapporto al lavoro che vi si applica. Basterebbe analizzare la legislazione del dopoguerra in Italia per vedere come sia operante questo fatto (recente la legge sulle innovazioni tecnologiche e ultimissima la legge Tremonti per gli investimenti in macchine e impianti).

Keynes, l'economista che è diventato punto di riferimento quando si parla oggi di Stato ed economia in virtù del fatto che ha registrato nella sua costruzione teorica la prassi ormai applicata, disse: "Nel XIX secolo l'incremento demografico e il progresso tecnologico, la valorizzazione di nuove zone, un generale stato di fiducia, e la frequenza delle guerre (se si considera una media sulla base dei decenni) sembrano essere stati in grado, insieme con la propensione al consumo, di mantenere una curva dell'efficienza marginale (del capitale), capace di permettere, a sua volta, un soddisfacente volume dell'occupazione e un saggio d'interesse sufficientemente elevato (...) Oggi, invece, e senza dubbio sarà così anche in avvenire, la curva dell'efficienza marginale è, per parecchie ragioni, molto più bassa che nel XIX secolo (...) Lo Stato deve chiedere prestiti e investire i capitali raccolti in progetti ad alto livello di occupazione e produttività" (13).

Per noi è evidente che la strana curva dell'efficienza marginale del capitale cade come cade il saggio di profitto nella ben più scientifica legge di Marx. Per risollevare la curva Keynes e i suoi seguaci più o meno ortodossi, si affidano al debito pubblico: "In un'epoca di forte disoccupazione, i lavori pubblici, anche se di dubbia utilità, possono dunque rendere parecchie volte più del loro costo (...) La costruzione delle piramidi, i terremoti e persino le guerre possono apportare ricchezza se l'educazione degli uomini di stato nei principii dell'economia classica si oppone ad una soluzione migliore"(14).

La soluzione migliore sarebbe quella di una politica cosciente degli Stati in favore dell'investimento finanziato con il debito pubblico. Il bilancio in pareggio non è più un dogma, il deficit spending diventa la nuova dottrina. A dispetto delle ferme convinzioni espresse dai discepoli di Keynes, la Teoria Generale del 1936 servì a dare impianto di dottrina a una pratica che, come abbiamo detto, era già da tempo inaugurata dalla borghesia internazionale sotto le specie del fascismo, del nazismo, dello stalinismo e del New Deal (tenendo conto delle ovvie differenze). Ma la nuova dottrina aveva a disposizione un terreno in cui il debito pubblico non aveva le dimensioni di quello attuale. All'epoca della Grande Depressione, il fallimento delle varie politiche di austerità o di risparmio forzoso che peggioravano la situazione invece di migliorarla, indusse i governi d'Europa e degli Stati Uniti a optare per un'altra soluzione: raccogliere, tramite l'emissione di titoli obbligazionari, masse di capitale privato, altrimenti senza possibilità immediata di investimento, per avviarle alla creazione di gigantesche opere pubbliche e al rapido incremento della liquidità posta a gratuita disposizione delle imprese. In breve, si provvide a mobilitare ogni risorsa produttiva (tutto il capitale e tutta la forza lavoro esistente nella società) al fine della massima valorizzazione.

Com'è naturale, all'aumento del capitale investito seguì la crescita del monte salari (capitale variabile), da cui derivò in seguito nuovo impulso al consumo. Negli Stati Uniti, dove la nuova dottrina fu applicata in modo meno conseguente che in Europa, occorse la guerra per porre fine al ciclo depressivo. La funzione storica di "pubblico investitore" dello Stato moderno, vero e proprio "prestatore di ultima istanza" fu così sancita definitivamente e irreversibilmente. Nel dopoguerra, il Giappone basò la sua crescita non solo sui dollari americani, ma su una vera e propria creazione di moneta basata su di un eccesso di credito garantito dalla Banca Centrale. L'inflazione era evitata dosando il denaro mutuato dalle industrie all'aumento della produzione e dosando l'aumento dei salari a quello della produttività.

Nel campo borghese Keynes fu il primo a dire che "nelle collettività di oggi una parte molto grande dei progetti finanziati da prestiti viene eseguita da organismi pubblici o semipubblici. I fondi di credito addizionali, di cui hanno annualmente bisogno l'industria e il commercio perfino in tempi favorevoli, sono relativamente modesti. L'edilizia, i trasporti, le comunicazioni, le aziende di utilità pubblica sono già state, sempre in misura notevole, compartecipi delle spese creditizie correnti. L'iniziativa spetta, perciò, agli organi pubblici. Essa dev'essere presa con risolutezza e in vaste proporzioni, se la si vuole sufficiente a spezzare il circolo diabolico e a contrastare il progressivo deterioramento della situazione economica" (15).

In realtà, non è una questione di risolutezza degli organi governativi ma di necessità materiale. La crescita enorme del debito pubblico, tipica di questo periodo imperialistico, è data proprio dall'integrazione fra Stato e capitale finanziario. Si consideri per esempio il controllo rigido dei tassi d'interesse da parte dello Stato e la politica monetaria delle banche centrali anche nei confronti dei cosiddetti mercati che ormai sono completamente sradicati da ogni riferimento territoriale. Le articolazioni del sistema del credito, come le descrisse già Marx, rimangono pur sempre il capitale bancario, il capitale azionario e il debito pubblico. Essi si integrano in quella che comunemente viene chiamata speculazione e che elementi come Soros, il "mitico" investitore internazionale, pongono invece su un piano più inerente il capitale impersonale e anazionale.

Questi fenomeni indicano che la limitazione del debito pubblico chiesta a Maastricht significa rimborso, ma esso è possibile soltanto eliminando la prevalenza dell'utilizzo rentier del capitale e creando le condizioni per un utilizzo produttivo, vale a dire spostando l'utilizzo del plusvalore come reddito all'utilizzo come capitale. Abbiamo utilizzato apposta il termine "creare". Le condizioni per un utilizzo produttivo sono storiche, non si creano con la buona volontà. Di qui l'ansia borghese di "(ricondurre la spesa pubblica) al suo più corretto contenuto, che è quello di costituire un sostegno delle attività produttive, sia, come avveniva in passato, attraverso l'allestimento di infrastrutture, sia finanziando la ricerca e il progresso tecnologico" (16).

Un programma di lavoro della borghesia italiana

Il capo del governo Lamberto Dini, nel dare le dimissioni dal suo incarico, aveva indicato quali fossero, secondo le esigenze raccolte, le prospettive per un buon funzionamento dei meccanismi legislativi ed esecutivi.

Criticando l’attuale inceppamento del sistema parlamentare, egli proponeva di diminuire il numero dei parlamentari e di eliminare una delle due camere che, così come sono, vedono logorata la loro funzione originaria e si limitano ad essere il doppione l’una dell’altra.

L'indicazione non era ambigua: occorrerebbe in pratica rivedere il concetto di separazione netta fra il potere legislativo e quello esecutivo ed affidare al parlamento il compito di discutere dei grandi problemi politici, mentre il governo si potrebbe occupare in modo sbrigativo degli affari correnti. Si tratterebbe di superare le difficoltà legislative dovute al fatto che ora, per necessità dovute alle lungaggini parlamentari, molte decisioni vengono sempre più affidate ai decreti-legge. Questi ultimi hanno una scadenza alla quale, comunque, devono essere approvati dal parlamento, con il rischio di incorrere in bocciature o revisioni, cosa che comporta non solo perdite di tempo, ma anche effetti retroattivi a volte disastrosi.

Dini proponeva quindi per lo Stato della borghesia italiana il seguente schema di funzionamento: una camera snellita che si occupi della grande politica legislativa; una camera di rappresentanza regionale che rifletta un assetto federativo del territorio; un governo che abbia facoltà legislative per la piccola politica, cioè per gli affari correnti in modo da evitare il ricorso continuo ai decreti legge.

La questione non aveva sollevato grandi dibattiti e non era stata quasi neppure riportata dai giornali, preferendo questi ultimi dilungarsi sul mulino a chiacchiere alimentato dal parlamentarismo così com’è, dentro e soprattutto fuori dei palazzi. Noi l’avevamo sentita in diretta alla radio e vi avevamo attribuito una grande importanza al di là della sua realizzabilità immediata. Bisogna dire che Dini è uno che sa quel che dice, per questo non aveva impiegato che forse due minuti per dirlo, nei venti complessivi del suo discorso. Era la confessione piena dei bisogni della borghesia, non delle sue litigiose frazioni, ma della classe in quanto tale. Era da noi previsto, era evidente, era uno sbocco determinato.

La strada della lotta di classe (in questo caso condotta dalla sola borghesia, ma non certo come dato definitivo) non è lineare. Come in passato, come sempre. Il presupposto enunciato da Dini fu bocciato insieme alla sua candidatura a presiedere un nuovo governo dai vari partiti in lotta fra loro, ma fu ripreso dal nuovo presidente del consiglio incaricato Maccanico il quale, nel sintetico discorso con cui annunciava l'inizio dell'esplorazione per un nuovo governo, ribadiva che si sarebbe battuto per un esecutivo "che non avesse più sofferto del legame organico con i partiti". E i partiti lo bocciarono facendo fallire l'incarico esplorativo e rendendo obbligato il ricorso a elezioni anticipate. Così facendo comprarono la corda che li impiccherà.

Ma che cosa significano i presupposti operativi sottolineati dai due esponenti tecnici incaricati dagli eventi di formare un governo utile alla borghesia per uscire dalla crisi? Che cosa significa "esecutivo snello"?

Nel campo della produzione il ciclo produttivo snello è definito dalla limitazione al minimo del tempo di passaggio fra le varie fasi e della quantità di materiali coinvolti. Si ordina al fornitore di approvvigionare giorno per giorno la produzione in modo da eliminare il magazzino delle materie prime e dei semilavorati. Si limitano al minimo i polmoni di giacenza fra un reparto e l'altro in entrata e in uscita. Si produce al limite solo ciò che si vende, cercando di eliminare il magazzino dei prodotti finiti. Si cerca di eliminare persino il grossista, facendo entrare il dettagliante in società (franchising) in modo da strutturare anche il rapporto con il mercato ed eliminare l'anarchia in esso congenita. Si tratta di un tentativo, grandioso quanto destinato a fallire, di regolamentazione del contrasto più mortale per il capitalismo: la produzione sociale e l'appropriazione privata. Destinato in generale a fallire perché la produzione è pianificata secondo quantità fisiche, mentre il mercato è anarchico in quanto agisce per conto di uno scambio fra valori.

Quel che ci interessa è che la rappresentanza politica della borghesia è distante anni luce dalle stesse realizzazioni della produzione e anche del mercato. Nell'epoca in cui milioni di transazioni giornaliere viaggiano attraverso la rete mondiale dei telefoni, dei fax e dei computer, quindi in tempo reale, i parlamenti discutono e litigano per mesi intorno ad un provvedimento legislativo, con mediazioni infinite, lobbies, calcoli elettorali ecc.

Anche se le questioni legate al parlamentarismo non sono cambiate rispetto a ciò che ne diceva Marx nel secolo scorso e rispetto alle quali non abbiamo una virgola da cambiare, la specifica mobilità del capitale moderno esige una altrettanto specifica mobilità della sua rappresentanza politica, vale a dire velocità di decisione e di elaborazione dei problemi. Questa caratteristica nessun parlamento democratico la può avere per sua natura. A meno che...

Ci sia permesso di ricorrere ad una parabola. In essa si racconta di due amici che si incontrano. Uno ha un buonissimo rapporto con la moglie, l'altro pessimo. Il secondo indaga sui motivi chiedendo lumi al primo. "Molto semplice - risponde il primo - io e mia moglie ci siamo divisi i compiti. Lei decide sulle questioni correnti, mentre io mi occupo delle grandi questioni. In questo modo andiamo d'accordissimo". Interrogativi da parte del secondo che non capisce. "Ti faccio un esempio - dice il primo - Mia moglie ha deciso quando abbiamo cambiato casa, quando ho cambiato lavoro, quando abbiamo fatto un figlio..." Il secondo straluna. "Lasciami finire - continua il primo - io seguo attentamente in TV i dibattiti all'ONU, seguo la politica italiana sulla CEE, i dibattiti parlamentari..."

Ora Dini, che aveva esposto in modo secco e chiaro il suo programma, non aveva fatto altro che dividere i compiti all'interno della rappresentanza democratica. Al governo, all'esecutivo, la legislazione sugli affari correnti, cioè l'economia e gli affari sociali. Al parlamento ridotto a una camera sola, invece, l'onore dei grandi temi, cioè l'assetto costituzionale, i rapporti con l'ONU, la lotta alla mafia, i grandi principii morali della politica ecc. L'altra eventuale camera, quella con rappresentanza regionale, avrebbe dovuto occuparsi di temi amministrativi, vale a dire che sarebbe stata una specie di cinghia di trasmissione tra un esecutivo-legislativo e gli organi capillari preposti all'applicazione delle leggi, cioè delle decisioni veramente operative. Se abbiamo riempito i pochi vuoti lasciati dal discorso di Dini con esempi qualsiasi, non per questo il meccanismo descritto è arbitrario. Da tempo la borghesia persegue una sua realizzazione senza riuscirci, basti ricordare la richiesta di Amato, quando era presidente del consiglio, di avere mani libere per tre anni in campo legislativo economico.

Dini è stato battuto sul piano immediato e Maccanico non ha neppure avuto il tempo di incominciare a trattare che ha dovuto rinunciare, ma ecco che si profila, adesso che ci saranno le elezioni, uno scombussolamento totale: Dini presenta il suo partito, con tanto di tecnici e, guarda chi si rivede, Mario Segni, il leader del "partito che non c'è", quella corrente insignificante ma tanto determinata dai bisogni della borghesia da provocare, tre anni fa, la cancellazione dei vecchi partiti. Se questo progetto riuscirà a prendere corpo, i grandi gladiatori della chiacchiera saranno confinati in un ring da dove le loro diatribe sul nulla non potranno più intralciare gli affari urgenti della borghesia: la condizione di 14 milioni di "famiglie", sui 20 milioni totali, sta per tramutarsi, secondo l'Eurispes "in un potere deflagrante della stabilità sociale" (17); può darsi che l'allarme sia ancora ingiustificato, data la mancanza di risposta conseguente da parte del proletariato, ma la borghesia ha imparato da tempo a giocare d'anticipo.

Italia stile messico?

Alla chiusura del 1995 la borghesia italiana, facendo un bilancio degli ultimi dodici mesi, guardava al suo futuro con un occhio all'economia asfittica e l'altro alla disastrata politica nazionale. Si mescolavano così le aspirazioni velleitarie per un raddrizzamento della situazione economica con i tentativi di adeguare la sovrastruttura politica alle esigenze materiali impellenti del Capitale. La crisi di marzo aveva spinto la lira al minimo storico di 1280 sul marco e rivelato la debolezza intrinseca dell'economia italiana di fronte all'integrazione mondiale dei mercati. La capacità di tenuta della produzione, dovuta alle esportazioni favorite dal tasso di cambio, non aveva corrispettivo nell'apparato finanziario, impossibilitato a reagire di fronte al movimento internazionale di capitali. "Il rischio-Messico ha sfiorato l'Italia. [Vi sono] fondi che si moltiplicano e poi scompaiono all'improvviso, ma capaci di lasciare un impatto così forte sui tassi di cambio e di interesse da mettere in serio pericolo la moneta, e quindi l'economia di un Paese" (18). E Antonio Fazio, governatore della Banca d'Italia: "Dopo lo scoppio della crisi messicana, nel febbraio o marzo, ho detto a Greenspan [presidente della Federal Reserve americana] che avevamo la stessa situazione in Italia: un afflusso di 60 miliardi di dollari nel 1993 e un deflusso di circa 30 miliardi nel 1994 [...] La maggior parte di questi capitali ha avuto origine probabilmente a Londra o altrove, in quello che chiamiamo il mercato dell'eurodollaro [...] Devo rilevare che noi continuiamo a chiamarli capitali, ma non sono capitali: sono solo flussi monetari [...] Non abbiamo idea di ciò che accade in questi mercati"(19).

Ci sono dunque dei flussi che sono "solo" monetari ma che possono mettere in ginocchio un paese come il Messico e far correre dei rischi molto seri a un paese come l'Italia. A che serve questo allarme?

All'inizio di quest'anno si leggeva: "Aumenta il numero di famiglie a rischio. Siete una coppia con due figli che guadagna 4 milioni al mese? Quindi vi ritenete una famiglia benestante? Errato. La perdita del lavoro di uno dei due, una lunga malattia o un figlio tossicodipendente vi potranno scaraventare nell'inferno della povertà" (20).

Qui l'allarme si sposta dalla grande economia mondiale alla sfera individuale. Si tratta solo di poche tra le frasi ad effetto tratte dai bilanci di fine anno da politici, industriali e istituti vari. Un vero bombardamento di allarmi rossi per l'economia Italia, con il corollario di dure strigliate ad una classe politica inetta e di soluzioni fantasiose smentite e riviste nel giro di poche ore. Affermazioni esagerate e deformate, titoli di forte richiamo nel tentativo di perforare le stordite orecchie di una popolazione impossibilitata a trovare dei riferimenti attendibili nella babele di opinioni sfornata dai rappresentanti politici della borghesia.

L'elettore medio, a cui verrà richiesta la scheda per sancire ciò di cui ha veramente bisogno la borghesia nella cosiddetta seconda repubblica, si perde fra bilanci e resoconti statistici, truccati a seconda delle esigenze del committente. Si tratta di una campagna che lascia trasparire il reale inceppamento del meccanismo di espansione capitalistico o dello "sfasamento del motore capitalistico" come lo definisce suggestivamente un giornalista (21) che vuole analizzare un capitalismo che gira male nonostante le sue vittorie sul socialismo. Siccome si tratta di un opinion maker, un fabbricatore di opinioni, come dicono gli americani a proposito dei battilocchi del video o della carta stampata, seguiamolo un momento.

Prima ragione dello sfasamento. Il processo produttivo transnazionale, che tende a trasferire la produzione là dove i salari sono più bassi per limitare i costi e ottenere profitti più alti, ha determinato un calo del livello medio delle retribuzioni. O, meglio, una diminuzione del livello medio dei salari di coloro che consumano ciò che producono. Declinano i consumi, declinano i profitti, declinano gli investimenti.

Seconda ragione. La robotica comporta un calo dell'occupazione, quindi della massa salari e della massa di denaro spendibile.

Terza ragione. Il terziario, anch'esso automatizzato, un tempo sfogo delle crisi di rigetto occupazionale dell'industria, non è più in grado di assumere altri carichi e, anzi, inizia a risentire di "esuberi".

Quarta ragione. Il mercato del lavoro è stato sempre stabilizzato da trasferimenti finanziari da parte degli Stati, trasferimenti che trasformano le imposte (e i titoli di stato) in spesa sociale, la quale mantiene il livello dei redditi e dei consumi. Tale trasferimento è stato altissimo alla fine degli anni '80, raggiungendo il 34% del PIL negli Stati Uniti, il 50% in Germania, il 54% in Francia. Con l'ingigantirsi del government spending si sono ingigantiti i debiti pubblici in modo insostenibile e così si sfasa anche questa parte essenziale del motore. Aggiungiamo noi: esiste anche un'altra definizione della nuova economia ed è deficit spending, la deliberata spesa pubblica in disavanzo, azione inconcepibile nelle teorie economiche borghesi dell'anteguerra.

L'analisi del giornalista ha un suo fondamento empirico, ma il paragone con il motore sfasato dell'automobile rivela che l'osservazione empirica non basta per spiegare le ragioni di una crisi prodotta da fattori irreversibili. Infatti basterebbe chiamare un buon meccanico e rifasare il motore perché l'auto ritorni brillantemente a dimostrare le sue performances, mentre la macchina capitalistica funziona proprio perché è sfasata, riesce a rimettersi in piedi solo con le crisi o le guerre, trova un illusorio equilibrio solo per ripiombare in contraddizioni di livello sempre più alto. Insomma, le quattro "ragioni" elencate sono fattori storici e non le cancella più nessuno.

Naturalmente il giornalista preso ad esempio non si limita alla diagnosi, si cimenta anche con la eventuale terapia, tenendosi al di sopra delle parti, cioè non si mette nei panni della Confindustria, del sindacato e nemmeno (ovviamente) dei proletari. Così facendo si mette dalla parte del Capitale anonimo e imperante, i cui interessi un settore o l'altro della borghesia sarà tenuto a rispettare per forza.

Se il motivo centrale dell'inceppamento, dice il giornalista, è la carenza di consumi dovuta al fatto che già si consuma troppo, è inutile andare a cercare ricette in disastrose deregulation tatcheriane o in altrettanto disastrose difese d'ufficio di un malinteso welfare state in cui si richiedono magari "spazzolini da denti elettrici prescritti dalle mutue". Non si può ovviamente parlare neanche di consumi ad alto livello tecnologico in grado di riprodurre accumulazione ovvero macchine, televisori, computer e attrezzi vari perché si tratta di una strada già percorsa. Da notare che non rientrano nell'analisi i consumi necessari alle popolazioni che non consumano un bel niente, evidentemente perché l'indigente è un soggetto subeconomico e non può partecipare alla rifasatura del motore.

La soluzione più semplice, dice il giornalista, sarebbe un'ulteriore iniezione di intervento economico dello Stato, ovvero ulteriore keynesismo ma, egli osserva, questa medicina è vicina alla saturazione, come dimostrano le battaglie di retroguardia combattute paradossalmente sia da Clinton che dai sindacati francesi (22). Il debito pubblico, non solo italiano, ha raggiunto livelli insuperabili e l'aumento di tasse provocherebbe ulteriori scompensi. Il "Welfare state" dovrebbe quindi essere smantellato a Washington, come a Parigi o Roma, ma senza provocare i danni citati.

Alla diagnosi, piuttosto lucida in tempi come questi, segue il suggerimento di una terapia che invece è del tutto velleitaria e fondata sulla buona volontà di chi dovrebbe applicarla. Occorrerebbe insomma che si revisionasse gradualmente il meccanismo del consumo di massa e che si riportasse alle sue finalità vere la spesa sociale, cioè "scuole, salute, povertà, occupazione". Il capitalismo, dopo la vittoria sul comunismo, "deve imparare a convivere con i propri difetti intrinseci. Non è un caso che proprio il Giappone, invece di perdersi in dispute teologiche sul liberismo ortodosso e sul keynesismo defunto, abbia varato in questi giorni un aumento record della spesa pubblica per uscire dalla stagnazione". Se questo è un opinion maker figuriamoci gli altri: Con due milioni di miliardi di lire in debito pubblico e nessun margine internazionale per rastrellare capitali all'estero, la borghesia italiana dovrebbe varare un aumento record della spesa pubblica per scuole e ospedali che invece chiudono? Per povertà e disoccupazione che invece aumentano proprio a causa della restrizione dei margini di investimento?

La diagnosi empirica è facile perché i guai del capitalismo sono sempre più manifesti, mentre la terapia avrebbe bisogno di un supporto teorico che la borghesia non può avere. La nostra teoria dice che non si può vivere all'infinito con i difetti intrinseci del capitalismo; si dimostra necessaria una società diversa.

Tutti hanno paura dei "mercati", non solo il governatore della Banca d'Italia. Fini, Berlusconi e D'Alema si inchinano ai mercati (cioè ai flussi monetari) e si adoperano per quietarne le potenzialità devastanti: non vogliamo mica fare la fine del Messico, dicono pieni di responsabilità verso il Capitale. D'altra parte si dimostra che con meno di quattro milioni al mese di reddito i due terzi delle famiglie italiane entrano in un'area "enormemente dilatata" di rischio sociale. Certo che il giornalista o chiunque voglia mettersi dalla parte del Capitale ha qualche problema di comprensione riguardo le vie d'uscita. Non si può rispettare l'esigenza del Capitale adulando i "mercati" e nello stesso tempo paventando il disastro incombente sui due terzi delle famiglie che hanno meno di quattro milioni al mese di entrata (ma un terzo è monoreddito o senza reddito, quindi al limite della sopravvivenza). Non si può nello stesso tempo rispettare le regole (imparare a convivere con i difetti intrinseci del capitalismo) e avere cinque milioni al mese per tutte le famiglie italiane uniformemente distribuiti. Ovviamente nessun borghese può dire che non è questione di reddito o di flussi di capitale da mettere sotto controllo, che è invece questione di necessità di cambiamento rivoluzionario.

Allarme economico (siamo come il Messico!) e allarme sociale (due terzi delle famiglie italiane o sono povere o sono a rischio!) vanno a braccetto perché la borghesia italiana dovrà comunque fare un tentativo per uscire dall'attuale situazione. Il risvolto politico è abbastanza chiaro e dirada le nebbie diffuse dai battibecchi televisivi della triade D'Alema-Berlusconi -Fini. Se non si possono fare programmi economici a medio termine vuol dire che si procederà a tentoni per vie obbligate ed ognuno farà la sua parte: i sindacati controlleranno ulteriormente la forza-lavoro; i capitalisti singoli troveranno un freno alla loro anarchia individuale nella dominazione impersonale del capitale che li farà agire come classe; un esecutivo con pieni poteri orchestrerà il gioco fra le parti sociali. È esattamente l'accordo siglato da Ciampi tre anni fa, in parte realizzato e in parte da ultimare, ed è la stessa strada che imbocca oggi la Germania, non a caso tutti sono d'accordo nel dire che i tedeschi arrivano in ritardo (23).

È significativo come le preoccupazioni degli editorialisti non siano più limitate alle presunte storture del "sistema Italia", ma si allarghino ormai a tutto il mondo, dalla crisi economica giapponese al crescere della disoccupazione in Germania e in Europa in generale: gli acciacchi del capitalismo, che per noi sono sintomi della sua malattia mortale, tendono ad emergere sempre più visibili, al di là delle sparate propagandistiche e delle proposte di "correzione di rotta", farcite di buona volontà, sempre più lontane dai fatti reali.

All'interno di questo scenario, il tentativo operato (l'unico possibile) è quello di un'iniezione di efficienza e competitività nel capitalismo italiano: un "risanamento" che consenta di realizzare risultati migliori sul mercato mondiale. Ma come? Anche da questo punto di vista il percorso si configura costellato di enormi contraddizioni: occorrerebbe un sistema di governo nel quale la borghesia riuscisse ad unificare le sue frazioni (o a schiacciarle) e a dirigere con decisione tutta la macchina produttiva e sociale. Il programma teorico esiste, ed è proprio il Protocollo del 23 luglio 1993 (che è intitolato, ricordiamolo, Politica dei redditi e sostegno alla produzione), ma lo scenario politico conferma quanto ancora sia difficile per la borghesia esprimere un suo partito unitario che lo applichi. Questa difficoltà non deriva da mancanza di uomini, ma da un effettivo divario fra la natura della crisi e le possibili ricette per mitigarne gli effetti.

Cretinismo parlamentare: la lotta dei parlamentaristi contro il parlamento

Coccodrilli e soubrettes

Da qualche tempo a questa parte si assiste a un piagnisteo giornalistico rivolto contemporaneamente a denunciare da una parte la perdita di prestigio del Parlamento e della politica e dall'altra la mancata piena realizzazione del patto sociale sottoscritto dal governo Ciampi, dai rappresentanti degli imprenditori e dai sindacati nel luglio del 1993.

In realtà, come si è già sottolineato nelle nostre Lettere n. 27 e 29, il contenuto programmatico del patto di luglio e la continua opera di delegittimazione e messa in disarmo del parlamento e dei partiti vecchi e nuovi colà installatisi, costituiscono ormai da qualche anno l'ossatura e la linea d'azione attorno a cui si è articolata la politica del capitalismo italiano e della sua classe dirigente. Ciò per far fronte alle difficoltà presenti e future del processo di accumulazione, sempre più asfittico e contraddittorio a livello planetario, e alle crisi sociali che ne potrebbero derivare. La confusione politica è una costante dell'Italia e ciò è dovuto alla sua caratteristica di laboratorio in cui il Capitale tenta esperimenti continui per la sua sovrastruttura. Per questo, come diceva già molto tempo fa uno che se ne intendeva, "In Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio" (24).

Gad Lerner, vicedirettore del quotidiano La Stampa, dopo aver assistito a un dibattito televisivo sulla riforma costituzionale tra il leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini e la soubrette Valeria Marini, retoricamente si domanda sul suo giornale: "Ma che cosa sta succedendo alla politica italiana?" Non si accorgono gli elettori quanto "Fini e la Marini, Prodi e la Carlucci, Urbani e la Kanakis, facciano in realtà parte dello stesso baraccone?" (25). E continua indignato: "Ben altro sarebbe il distacco necessario nell'esercizio della politica affinché essa - com'è sua specifica funzione - continui a sedere in veste di capotavola tra gli altri poteri della società e dello Stato" per evitare che "quella sacralità che ovunque dovrebbe contraddistinguerla, dal più piccolo dei Consigli comunali fino al palazzo del Quirinale, appaia come un manto strappato" (26).

Sulla trivialità della politica parlamentare vi sono pagine marxiste a cui non occorre aggiungere nulla, se non fosse che il coro scomposto della critica alla "politica" si accompagna ad esigenze della borghesia nella fase che sta attraversando in questo specifico momento. Tanto tuonò che piovve, dice il proverbio, e non è detto che gli attuali critici del parlamentarismo da avanspettacolo si troveranno tanto contenti se e quando saranno esaudite le loro preghiere.

Quando fu conferito l'incarico esplorativo a Maccanico per la formazione del nuovo governo, il Manifesto se ne uscì con questo commento: "Sta nascendo un mostro e lo sbattiamo in prima pagina. Il mostro è l'intesa tra il fascista Fini, il superinquisito Berlusconi, l'ex-comunista D'Alema. È un mutante tricefalo con tre propaggini: una maggioranza politica mai vista nel parlamento italiano, dall'estrema destra ai progressisti (...); un governo espresso in comune da questa maggioranza, forse lottizzato, affidato a un uomo di fiducia dei poteri extrapolitici; un progetto di rottura costituzionale e di repubblica presidenziale a sfondo plebiscitario, tanto indefinito quanto minaccioso e distruttivo della tradizione democratica italiana" (27).

Eugenio Scalfari sulle pagine de La Repubblica, ancora sul tentativo di Maccanico, si è chiesto: "Si può stare per due anni senza opposizione? Me lo domando e non trovo risposta; o meglio, la trovo ed è negativa: l'esistenza di un'opposizione democratica è essenziale per il funzionamento di una democrazia. Chi la farà? D'Alema e Fini giurano che non ci sarà un governissimo e infatti non c'è. Ma ci sarà una maggioranza parlamentare onnicomprensiva da AN fino al PDS, impegnata a sostenere il governo e a varare le famosa riforme. Perciò ripeto la domanda: chi farà l'opposizione?" (28).

Sergio Romano, sulle pagine de La Stampa, a proposito dell'accordo sul semi-presidenzialismo, osserva: "Sappiamo che la politica richiede flessibilità, pragmatismo, acrobazie e salti mortali. Ma non ricordo un'altra circostanza, neppur nella storia politica italiana, in cui un accordo di tale importanza sia stato bruscamente concluso tra forze che sino a poco tempo prima si erano scomunicate, demonizzate, calunniate.(...) Mi chiedo quale effetto ciò possa avere sulla fiducia degli italiani nella vita politica e sulla loro pubblica moralità" (29).

Il cretinismo parlamentare è una malattia che produce effetti costanti nel tempo. C'è una certa monolitica invarianza che accomuna i democratici dell'epoca di Marx a quelli dei giorni nostri. Essi non si rendono conto che il parlamento non può esistere senza la sua malattia e, adoperandosi per cercargli un'intelligenza politica, contribuiscono sempre a toglierlo di mezzo.

Nel 1871 Marx se la prende con i giornalisti che lo assediano per vedere con i propri occhi lui, il "monster", per via dell'enorme risonanza che l'Internazionale ha avuto e impreca: "finora si era creduto che la formazione di miti cristiani sotto l'impero romano fosse stata possibile soltanto perché non era ancora inventata la stampa. Proprio l'inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno, di quanto una volta se ne potevano costruire in un secolo" (30). La macchina che fabbrica miti è critica verso la politica frufrù, ma non riesce a mettere in piedi uno straccio di mito per far votare un governo che non faccia schifo alla stessa borghesia. Dice un filosofo che chi s'indigna sta mentendo. Perché indignarsi, in fondo? Diceva la Sinistra più di quarant'anni fa: "Se il parlamento servisse ad amministrare tecnicamente qualcosa e non soltanto a fare fessi i cittadini, su cinque anni di massima vita non ne dedicherebbe uno alle elezioni e un altro a discutere la legge per costituire sé stesso!" (31). Facciamo il confronto con i tempi odierni della chiacchiera? Ecco perché la borghesia ha bisogno di chiamare gli elettori a votare per politici e soubrettes che saranno relegati in innocui parcheggi, lasciando a sé stessa il compito di nominare i manager per la direzione degli affari capitalistici.

Ancora una volta i "tecnici"

L'ex-presidente di Mediobanca, Antonio Maccanico, fin dalle prime parole del suo intervento programmatico esposto subito dopo l'investitura ricevuta da Scalfaro ha dichiarato di voler giungere nell'arco di due anni a "un notevole rafforzamento del potere esecutivo, anche attraverso forme d'investitura popolare del vertice dello Stato" e di voler dare vita da subito a un governo "fondato su larghe intese parlamentari, svincolato da un rapporto organico con i partiti" che porti a "una organica revisione" della seconda parte della Costituzione (32). Con questo non ha fatto che ribadire in maniera esplicita ciò che il capitalismo italiano sta perseguendo da anni, ovvero uno snellimento dell'esecutivo che lo renda allo stesso tempo forte, accentrato e agile, così come si è cominciato a fare prima con i decreti legge degli ultimi governi parlamentari, poi con Tangentopoli da un lato e con l'azione dei cosiddetti governi tecnici dall'altro. Governi tecnici e di tecnici che, occorre sottolinearlo, spingono sempre più avanti nel tempo la loro durata (Maccanico si assegnava per l'appunto due anni) rinviando sine die il ricorso alla farsa elettorale. Quello che nella Lettera n. 27 era stato chiamato il partito che non c'è continua formalmente a non esserci, ma la sua costituzione formale può interessare soltanto a coloro che avevano creduto che l'operazione avviata dalla magistratura con Tangentopoli e dalle varie iniziative referendarie fosse una specie di rivoluzione.

In realtà il processo di "ricostruzione" del nuovo consenso, o se si vuole del nuovo ordine politico, è andato avanti nonostante alcuni apparenti incidenti di percorso (ad esempio quello della meteora del governo Berlusconi, indicativo sì del nuovo consenso che si vorrebbe raccogliere sul piano elettorale, ma ancora troppo incerto e contraddittorio nel programma proposto); un percorso le cui linee erano già state tracciate in anticipo dai rappresentanti meno farisaici del capitalismo italiano. Già nel corso degli anni ottanta, infatti, Gianfranco Miglio e il "gruppo di Milano" potevano prevedere che "il parlamento che governa - che cioè tiene quotidianamente sulla corda il Governo dopo averlo nominato - uscirà progressivamente dalla storia.(...) Per garantire la coerenza e la razionalità della compagine governativa, il Gruppo di Milano ha per l'appunto escogitato un primo ministro che, eletto direttamente dal popolo e quindi non costretto a mendicare la fiducia del Parlamento, può nominare (e cambiare) i ministri a suo piacimento. In questo modo si ha il massimo di coerenza nella compagine governativa. Il cordone ombelicale con i partiti in Parlamento verrebbe poi tagliato definitivamente anche per effetto della divisione delle funzioni: tutti i ministri all'atto della nomina, dovrebbero cessare (qualora lo fossero) di essere parlamentari. Quello che verrebbe sradicato , con la nostra proposta, è l'assolutismo parlamentare"(33).

Le alte lamentazioni prima riportate non fanno dunque altro che ribadire nel tempo quel cretinismo parlamentare dei democratici piccolo borghesi i quali, come dice Marx, "dopo aver distrutto con le loro mani tutte le condizioni del potere del Parlamento (...) consideravano ancora le loro vittorie parlamentari vere vittorie" (34), incapaci di comprendere, nella loro pretesa superiorità intellettuale, che "La repubblica parlamentare era più che il terreno neutrale su cui le due fazioni della borghesia (...) potevano vivere l'una accanto all'altra a parità di diritti. Era la condizione indispensabile del loro dominio comune, l'unica forma di Stato in cui il loro interesse generale di classe potesse subordinare a sé tanto le pretese delle sue frazioni singole, quanto tutte le altre classi della società" (35).

La borghesia sa ciò di cui ha bisogno e lo pubblica tramite i suoi portavoce più o meno ufficiali, più o meno in grado di fare affermazioni esplicite. Sono i suoi servitori che fanno pasticci inframmezzando a casaccio prese di posizione di principio sulla democrazia e sulla sacralità della politica eticamente corretta.

E non è nemmeno soltanto per effetto della corruzione o dell'azione cosciente di delegittimazione di qualche eminenza grigia che "Questa repubblica non ha perduto altro che l'apparenza della rispettabilità" (36). Di crisi in crisi, di farsa in farsa, il capitalismo, le sue istituzioni, i suoi rappresentanti non possono far altro che adeguarsi alle modificate esigenze dell'accumulazione e blindarsi sempre più in previsione degli inevitabili scontri di classe futuri. Rispondere insomma a quel "rozzo mondo esteriore" così apparentemente incomprensibile, secondo Marx (37), agli intellettuali piccolo borghesi.

Eugenio Scalfari e Sergio Romano non sono certo degli sprovveduti e sono più simili a quei rappresentanti del "partito dell'ordine" che si unirono ai bonapartisti golpisti "allo scopo di restituire alla nazione il pieno esercizio della sua sovranità" proponendo la revisione della Costituzione (38); ma non riescono a mantenere un atteggiamento coerente: piangono anch'essi lacrime di coccodrillo per ciò che hanno contribuito a costituire e che oggi vogliono demolire, nella speranza del "nuovo" che dovrebbe venire.

Da Bonn a Roma una sola politica per l'occupazione: Patti del Lavoro

Quel "nuovo" senza il quale è impossibile qualsiasi integrale applicazione dei "patti di luglio", ma la cui realizzazione deve passare attraverso fenomeni già verificatisi nella storia e già descritti da Marx nel suo inossidabile Diciotto Brumaio: "Non soltanto il partito parlamentare si era diviso nelle sue due grandi frazioni, non soltanto ognuna di queste frazioni a sua volta si disgregava, ma il partito dell'ordine nel Parlamento era in contrasto con il partito dell'ordine fuori del Parlamento. Gli oratori della borghesia e i suoi esegeti, la sua tribuna e la sua stampa, in una parola, gli ideologi della borghesia e la borghesia stessa, i rappresentanti e i rappresentati erano diventati estranei gli uni agli altri e non si comprendevano più" (39).

Quei patti, la cui bozza fu richiesta, come testimonia lo stesso Maccanico in un'intervista, da "molti paesi europei, dalla Francia alla Spagna (...) che ebbero a considerarlo un modello da importare" (40) e che oggi La Stampa "scopre" essere molto simile al patto recentemente siglato in Germania tra Governo, imprenditori e sindacati: "In fondo l'accordo tedesco del gennaio '96 - che prevede moderazione salariale e maggiore flessibilità in cambio di un tentativo di sostenere l'occupazione - ripercorre le orme dell'accordo italiano del luglio '93, negoziato dal governo Ciampi. Nell'attuale momento di confusione politica, quell'accordo costituisce uno dei pochi elementi di chiarezza e stabilità del Paese. (...) I grandi patti tra governo e parti sociali non sono bacchette magiche contro la crisi dell'occupazione ma ne evitano i guai peggiori e possono preparare le premesse per la ripresa. L'Italia ha aperto la strada in Europa, deve ora essere in grado di continuare lungo questa strada" (41). Non occorre tornare ancora sul contenuto di quell'accordo, già ampiamente analizzato nella nostra Lettera n. 29, se non per citare quelle che secondo il presidente della Confindustria, Luigi Abete, sono le "colpe" dei politici per quanto riguarda la piena applicazione di quell'accordo così importante per i profitti e la concorrenzialità delle imprese italiane.

Secondo Abete infatti "non è affatto vero che i tedeschi sono più bravi di noi ad affrontare il dramma occupazionale. Anzi, il governo di Bonn arriva in ritardo perché l'Italia il suo patto per il lavoro lo ha siglato tre anni fa , nel luglio del 1993, esecutivo Ciampi. Solo che non ha funzionato perché uno dei contraenti, il governo appunto, non ha rispettato i patti". E mentre il ministro dimissionario del Lavoro, Tiziano Treu, si recava a Bonn per discutere di occupazione con il suo collega tedesco, Norbert Bluem, il presidente della Confindustria sottolineava "la colpa dell'inadempienza strutturale del ceto politico, dei governi e del Parlamento che non hanno saputo predisporre il quadro normativo necessario per far decollare il patto di luglio. Le promesse mancate riguardano (...) le norme sulla flessibilità del mercato del lavoro, il lavoro interinale, il part-time..." (42). Ora, a parte il fatto che proprio quell'accordo, unito alla svalutazione della lira, è alla base di quella ripresa produttiva di cui si fanno attualmente vanto le imprese italiane, appare chiaro che "i tredici punti non ancora realizzati" del patto di luglio (43) costituiscono una parte di quel programma di governo a favore del quale si levano le voci dell'imprenditoria, dei sindacati, dei "nuovisti" e dei progressisti di vario genere.

Ovviamente nessuna di queste voci ha il coraggio di affermare ciò che per la nostra corrente è chiaro già da molto tempo: chi vuole essere progressista abbia il coraggio di essere fascista, perché nella scala storica il fascismo viene dopo la democrazia, esso è più "moderno". Nessuno ha il coraggio (o la convenienza politica) di dire apertamente che il protocollo di luglio è la parte di un programma di governo che solo un esecutivo forte sì, ma forte in senso dittatoriale, può realizzare. Ogni qualvolta la borghesia ha bisogno di un esecutivo forte, deciso e agile essa stessa è costretta a sconfessare le strutture parlamentari e a smantellare le strutture partitiche in cui le forze del riformismo piccolo-borghese vorrebbero rinchiudere e ridurre lo scontro tra le classi. Il paradosso è che mentre si smantella si piange sulla democrazia avvilita. Nella logica delle oscillazioni tra le forme, totalitarismo manifesto o democratoide, logica che non è il prodotto di una illuminazione o di un trust di cervelli mediterranei o nordici, ma che è ferreamente determinata dalle leggi della produzione e della accumulazione capitalistica, la successione delle azioni necessarie per il "rafforzamento e rinnovamento" dell'esecutivo borghese non può essere che la seguente:

1) Definizione di un programma che è deterministicamente dettato dalle condizioni di crisi economico-sociale che la borghesia attraversa in condizioni geostoriche date.

2) Smantellamento, più o meno violento e più o meno indolore, dell'apparato parlamentare e di governo esistente e sua sostituzione con un governo d'emergenza. Che sia tecnico, militare o di salvezza nazionale fa lo stesso.

3) Ricomposizione di un partito nuovo che intorno a quel programma e sui presupposti del nuovo governo possa vincere le elezioni e "democraticamente" dar vita ad un governo stabile di lungo periodo.

È importante sottolineare il fatto che totalitarismo moderno e democrazia sono assolutamente complementari. Basti ricordare l'avvento del fascismo, la farsesca "marcia su Roma" e il "listone" elettorale cui diedero vita uomini politici provenienti da partiti di tutto l'arco istituzionale e che permise a Mussolini di vincere le elezioni del 1924 (44). Allora, nonostante il sangue proletario versato negli anni precedenti, l'atteggiamento delle opposizioni democratiche fu non solo pusillanime ma funzionale al totalitarismo fascista in camicia nera. Oggi i piagnistei sulla fine della politica sono funzionali alla fine del gioco delle parti in parlamento in un momento sociale in cui è ancora però necessario "far camminare il cadavere" dell'inganno democratico e parlamentare, anche se la stessa borghesia lo vorrebbe seppellire per sempre. Esso è diventato troppo farraginoso, lento e dispersivo per le esigenze, le decisioni e i tempi rapidi necessari (45) a governare "la quinta potenza industriale, che tra poco tempo potrebbe essere la quarta, del mondo e il sesto finanziatore dell'ONU" (46).

I buoi piccolo-borghesi e l'impossibilità di evitare la lotta di classe.

Soltanto la mistica democratica può impedire di cogliere "che repubblica borghese significa dispotismo assoluto di una classe su altre classi" (47).

Qualsiasi progetto di trasformazione della società per via democratica si impantana in "una trasformazione che non oltrepassa il quadro della piccola borghesia. Non ci si deve rappresentare le cose in modo ristretto, come se la piccola borghesia intendesse difendere per principio un interesse di classe egoistico. Essa crede, al contrario, che le condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali, entro le quali soltanto la società moderna può essere salvata e la lotta di classe evitata. Tanto meno si deve credere che i rappresentanti democratici siano tutti bottegai o che nutrano per questi un'eccessiva tenerezza. Possono essere lontani dai bottegai, per cultura e per situazione personale, tanto quanto il cielo è lontano dalla terra. Ciò che fa di essi i rappresentanti del piccolo borghese è il fatto che la loro intelligenza non va al di là dei limiti che il piccolo borghese stesso non oltrepassa nella sua vita, e perciò essi tendono, nel campo della teoria, agli stessi compiti e alle stesse soluzioni a cui l'interesse materiale e la situazione sociale spingono il piccolo borghese nella pratica. Tale è, in generale, il rapporto che passa tra i rappresentanti politici e letterari di una classe e la classe che essi rappresentano" (48).

Il programma della borghesia, intesa qui non solo come classe ma come funzione e strumento della continuità dei rapporti di produzione capitalistici, è dato dalle necessità di sopravvivenza dell'accumulazione (49); il programma del proletariato è dato dallo sviluppo dei rapporti di produzione e dalle contraddizioni sociali che ne scaturiscono: entrambi non possono che essere uno controrivoluzionario e l'altro rivoluzionario. Soltanto "il democratico, poiché rappresenta la piccola borghesia, cioè una classe intermedia, in seno alla quale si smussano in pari tempo gli interessi di due classi, si immagina di essere superiore, in generale, ai contrasti di classe" (50) e può cercare un'immaginaria via di mezzo.

La repubblica parlamentare nella sua lotta anche soltanto preventiva contro la rivoluzione, insita nello sviluppo stesso del capitalismo, è costretta a rafforzare "assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla. I partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore.(...) Ma la rivoluzione va fino in fondo alle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo.(...) essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l'unico ostacolo per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione" (51).

E allora invece di unirsi alle lamentazioni ipocrite oppure idiote, si deve ritenere positivo ogni passaggio che scarica nella pattumiera della storia gli orpelli parlamentari. Per chi si schiera dalla parte del programma rivoluzionario integrale i fatti di oggi si proiettano nel futuro, non c'è scandalo e indignazione nel leggere sulle pagine dell'organo di stampa della FIAT che "Al di là delle singole competenze il punto di svolta sta nel fatto che mai come in questa crisi la politica dimostra di aver smarrito, insieme con il suo primato, anche il suo remoto incantesimo. In altre parole, non serve più, anzi se ne può fare volentieri a meno: con il che rafforziamo il (legittimo) pregiudizio secondo cui ogni possibile novità positiva, ogni possibile risanamento è incompatibile con le dinamiche che per quarant'anni hanno regolato la vita pubblica" (52).

La ricostruzione è finita da un pezzo, la politica se n'è accorta un po' tardi. La chiacchiera diventa un costo passivo e la borghesia non può più permettersela.

Fine di un ciclo, punto e a capo.

Marzo 1996

Note

(12) K. Marx, Il Capitale, Libro I cap. XXIV.

(13) J. M. Keynes, Teoria Generale, Utet 1963.

(14) J. M. Keynes, citato in P. Delfaud, Keynes e il keynesismo, Lucarini 1988.

(15) J. M. Keynes, I mezzi per la prosperità, 1933.

(16) A. Graziani, Introduzione al libro di H. Minsky, Potrebbe ripetersi? Einaudi 1984.

(17) La Stampa del 27 gennaio 1996: "Pochi 4 milioni al mese - Aumentano le famiglie a rischio povertà". L'Eurispes è un istituto di studi sociali che presenta un rapporto preventivo annuale sulla situazione sociale del paese.

(18) La Stampa del 28 dicembre 1995: "L'Italia ha corso il rischio Messico".

(19) La Repubblica del 28 dicembre 1995: "La lira in marzo subì una crisi stile Messico".

(20) La Stampa del 27 gennaio 1996: "Pochi 4 milioni..." cit.

(21) Alberto Cavallari su la Repubblica del 29 dicembre 1995: "Chiude in rosso il 1995".

(22) Saranno battaglie di "retroguardia", ma non come intende il giornalista che vi scorge del semplice vecchiume. In realtà si è trattato di due episodi che indicano come la borghesia sappia solo mettere dei tamponi agli effetti del capitalismo e non possa far nulla, preventivamente, contro l'insorgere della rabbia sociale. Il presidente americano ha dovuto impersonare la borghesia come classe contro alcune sue componenti ed evitare tagli eccessivi alla "spesa sociale" (che è tra le più basse del mondo) perché non avrebbe potuto evitare l'insorgere di contrasti già latenti nella società americana, come dimostrano i fatti di Los Angeles. I sindacati francesi hanno dovuto correre a rimorchio di un movimento di classe reale che la borghesia non ha potuto scongiurare mentre doveva prendere provvedimenti economici rispetto ad una spesa sociale che è tra le più alte del mondo. In ogni caso si dimostra come il capitalismo scateni forze che sempre più tendono ad uscire dal quadro delle periodiche regolazioni del motore, nonostante i Clinton o i Blondel (leader sindacale di Force Ouvrière).

(23) Alcuni titoli dai giornali. La Stampa del 26 gennaio 1996: "Il patto tedesco? Tutti d'accordo: da noi c'è già". La Repubblica dello stesso giorno: "Italia senza lavoro? La colpa è dei politici - Abete accusa il governo di aver rotto il patto".

(24) Giuseppe Prezzolini in Codice della vita Italiana, 1921.

(25) Forse Gad Lerner non era ancora a conoscenza del recente libro, pubblicato da Vallecchi, L'Italia che vogliamo in cui compaiono interventi di Prodi, Veltroni, Alba Parietti, ecc.

(26) Gad Lerner, "Applausi alla politica malata", La Stampa del 31 gennaio 1996.

(27) Il manifesto, 2 febbraio 1996.

(28) Eugenio Scalfari, "La gran bonaccia delle Antille", La Repubblica, 4 febbraio 1996.

(29) Sergio Romano, "L'accordo raggiunto nell'ombra", La Stampa, 4 febbraio 1996.

(30) Karl Marx, lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871, ora in Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti 1976, p.173.

(31) Il cadavere ancora cammina, maggio 1953, ora in O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale, ed. Quad. Int. nov. 1991.

(32) Antonio Maccanico, Discorso di investitura del 1 febbraio 1996, cit. in Patrizia Rettori, "Un Maccanico di fiducia", Il Secolo XIX, 2 febbraio 1996.

(33) Gianfranco Miglio, Una Costituzione per i prossimi trent'anni, Laterza 1990, p.63 e 76.

(34) Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti 1977, p. 157.

(35) K. Marx, id., p.165.

(36) K.Marx, id., p.201.

(37) Cfr. K.Marx, id., p. 157.

(38) Cf.r. K.Marx, id., p. 173.

(39) K.Marx, id., p. 176.

(40) Antonio Maccanico, Intervista sulla fine della prima Repubblica, Laterza 1994, p. 88.

(41) Mario Deaglio, "Lavoro. La lezione tedesca", La Stampa, 26 gennaio 1996.

(42) Elena Polidori, "Italia senza lavoro? La colpa è dei politici", La Repubblica, 26 gennaio 1996. Nello stesso articolo sono elencate le 13 promesse mancate dell'accordo '93: 1) Decontribuzione del salario aziendale; 2) Riforma del collocamento; 3) Lavoro in affitto; 4) Incremento degli investimenti in ricerca; 5) Ammortizzatori sociali al terziario (banche); 6) Riforma dell'apprendistato; 7) Riforma dell'obbligo scolastico (innalzamento a 16 anni) e riscrittura della legge sulla formazione; 8) Riforma dei contratti di formazione e lavoro e del part time; 9) Pacchetti formativi con salario differenziato per le aree di crisi; 10) Rilancio dei contratti di solidarietà; 11) Revisione della legge sull'orario di lavoro; 12) Riforma del ministero del Lavoro (uffici periferici); 13) Introduzione del price cap e delle authority per le tariffe (attuato solo parzialmente).

(43) Vedi nota precedente.

(44) Un buon numero di uomini politici provenienti dal Partito Liberale, ma anche dal Partito Popolare e Socialista si prestò all'epoca per racimolare voti a favore del governo Mussolini e sostenerlo. Forse che il tentativo d'intesa tra Berlusconi e D'Alema non ha prefigurato il Partitone che in un modo o nell'altro uscirà dalle prossime elezioni ?

(45) "Tutto il nostro progetto è dominato dalla preoccupazione di realizzare tempi molto stretti nelle funzioni di controllo, al contrario di quanto accade oggi.(...) Un punto fondamentale è costituito dai tempi molto stretti. Si sono previste decisioni da assumere in alcuni casi entro trenta e persino quindici giorni". G. Miglio, op. cit. pp. 87 e 88.

(46) Intervista del TGR 1 mattina del 6 febbraio 1996 all'ambasciatore italiano alle Nazioni Unite. L'intervista verteva sulla necessaria entrata dell'Italia nel Consiglio di Sicurezza in qualità di membro permanente.

(47) K.Marx, op. cit., p. 61.

(48) K.Marx, op. cit., pp. 99 e 100.

(49) È quindi inutile sostenere che il governo tentato da Maccanico sia il risultato di un accordo tra D'Alema, Fini e Berlusconi o, in futuro, tra altri personaggi come Dini. Sono piuttosto i personaggi che si riferiscono ai vivai più abbondanti di voti a doversi sottomettere a ciò che è dato dal capitale e dalle sue istanze, pena il rimanere esclusi dal gioco.

(50) K. Marx, op. cit., p. 104.

(51) K. Marx, op. cit., pp. 206, 207 e205.

(52) Filippo Ceccarelli, "L'impossibile Cencelli dei Tecnici", La Stampa, 8 febbraio 1996.

Fine

Lettere ai compagni