35. Il feticcio dei mercati (3)
Ovvero il mercato dei feticci
DISUNITED STATES OF EUROPA
LA CONCENTRAZIONE INDUSTRIALE E LA CENTRALIZZAZIONE FINANZIARIA IN RAPPORTO ALLA CONCORRENZA FRA CAPITALI E FRA STATI NELLA DINAMICA STORICA DELLA SOCIALIZZAZIONE SEMPRE PIÙ SPINTA DEL LAVORO CI PERMETTONO DI VALUTARE L'UNITÀ EUROPEA AL DI LÀ DELLE PRESE DI POSIZIONE POLITICA DEI GOVERNI BORGHESI
L’unificazione, la liberalizzazione e la moneta unica per tutta l'Europa continuano a rimanere dei tentativi politici di superficie, mentre nella struttura profonda del mondo capitalistico si preparano grandi tensioni. Ogni capitalista vede aumentare la minaccia da parte dei suoi simili e ogni Stato si comporta nei confronti degli altri Stati come i capitalisti che rappresenta. In corsa affannosa dietro una redditività del Capitale più alta di quella dei loro concorrenti, i capitalisti nostrani non riescono a darsi dimensioni continentali rimanendo ai margini del processo di centralizzazione che investe l’intera economia mondiale (41) . Facile previsione è che, per la sua debolezza nei confronti dei concorrenti, l’industria italiana tornerà a batter cassa presso lo Stato, nella piena certezza di ottenere appoggio. L’esperienza recente degli Agnelli, dei De Benedetti e dei Berlusconi, conferma.
Lo Stato quindi, lungi dal perdere la sua funzione al servizio del Capitale, invece di alleggerire la sua presenza nella società da tutti pretesa più liberista, la appesantisce nel tentativo di mettere ordine all'anarchia capitalistica. Siccome però il plusvalore estorto al proletariato occupato è una quantità data e non si può variare a capriccio (nel senso che non si può estorcere in quantità volute secondo piani prestabiliti), ecco che lo Stato rafforza la sua classica funzione di redistributore di plusvalore tra le varie sfere della produzione, della circolazione e dell'amministrazione. Lo fa anche ipotecando il plusvalore futuro, cercando di programmare in qual modo estorcerlo, possibilmente in quantità aumentata.
Di fronte a quest'azione dello Stato, si sviluppa spontaneamente la "politica" sia dei capitalisti che degli amministratori. Si sviluppa del tutto conseguentemente, anche quella degli addetti a far da tramite fra lo Stato e l'industria (comprendente capitalisti e proletari), cioè i sindacati corporativi di quest'epoca imperialistica, difensori dei fattori della produzione.
Sia i sindacati, sia i partiti che pretendono ancora di rappresentare anche il proletariato pur essendo spudoratamente interclassisti e perfettamente responsabili di fronte alla conservazione capitalistica, impostano la loro politica sulla rivendicazione di una diversa ripartizione sociale del plusvalore, cosa che dovrebbe essere decisa nel dibattito parlamentare e nelle riunioni "tra le parti". Il motore della loro azione non è neppure più quello di fare a parole gli interessi dei loro presunti rappresentati, ma quello, dichiarato, di rendere competitiva l'economia di fronte ai "mercati".
Ma sarebbe sbagliato concluderne che lo schieramento a favore della borghesia finisca con il confine sinistro dello schieramento parlamentare. La stessa ideologia permea, con diverse sfumature, anche l'ampio spettro di organismi e movimenti fiancheggiatori. Essi a volte si esprimono con fraseologia pseudo-rivoluzionaria ma di fronte alla cartina di tornasole della democrazia da difendere, dell'antifascismo e anche di insensatezze come il tifo pro o contro Maastricht, rivelano di essere nient'altro che propaggini confuse dell'ideologia dominante. Infatti corrono a votare tutte le volte che si tratta di "decidere da chi essere fregati" (Lenin). Il confine è impossibile da definire, perché anche raggruppamenti che non sono dichiaratamente democratici e si astengono dal voto cascano sulla democrazia e sulla concezione della lotta di classe, a partire dalle questioni rivendicative che pongono il proletariato in lotta quotidiana contro il Capitale. Su questo terreno vi sono raggruppamenti che non prendono neppure in considerazione il significato del rapporto fra le classi nella dinamica verso il comunismo (non sanno quindi neppure che cos'è il comunismo), ma agitano parole d'ordine del tipo "giù le mani dalle pensioni", o "lotta contro l'attacco del padronato", o "abbasso la reazione", oppure ancora "difesa dei diritti" ecc., frasi che di per sé non significano nulla se sono poste contingentemente, al di fuori di ogni comprensione di cosa significhi divenire del comunismo, concetto che è alla base di tutta la grandiosa costruzione marxista.
La faccenda non è per nulla nuova. Negli anni '50, all'interno di un movimento che pur aveva basi molto più vaste di quello di oggi, esistevano le stesse invarianti distorsioni sui temi della lotta di classe e oggi le ritroviamo semplicemente appesantite da un ulteriore confusionismo che è direttamente proporzionale alla confusione indotta dalle difficoltà di accumulazione in campo economico. Queste difficoltà pongono problemi reali alla classe proletaria, coinvolta in un complesso fermento internazionale per l'estorsione ulteriore di plusvalore, ma è veramente superficiale basarsi sui riflessi della complessa situazione e non sulle radici per affrontare i problemi anche solo dal punto di vista sindacale. Come se fossero i parametri di Maastricht ad impoverire la classe operaia.
Nel testo Raddrizzare le gambe ai cani (42), la Sinistra Comunista prese in esame alcune affermazioni che erano correnti negli anni '50 ma che, abbiamo visto, sono ancora in circolazione. Le chiamò controtesi e ad esse contrappose le tesi marxiste. Una prima controtesi riguardava il cosiddetto attacco padronale contro i proletari: il ciclo di svolgimento dell'economia capitalista va verso una continua depressione del tenore di vita dei lavoratori, a cui sarebbe lasciato solo quanto basta per vivere. Un'altra controtesi poneva sul piano sindacal-riformista la grande questione dell'emancipazione di classe: il capitalismo sarebbe superato qualora si riuscisse ad attribuire al lavoratore la quota di plusvalore sottrattagli dal capitalista. Vale a dire: il frutto indiminuito del lavoro deve andare tutto al lavoratore, come se il comunismo fosse una questione di grandezza del salario. Tra l'altro questa era una controtesi già fulminata da Marx nella Critica al programma di Gotha in quanto consacrava il socialismo riformista e pasticcione di Lassalle (43) . Queste due affermazioni sinistrorse non hanno nulla a che fare con i concetti marxisti.
Alla prima controtesi il marxismo risponde che, nel modo di produzione capitalistico, ferma restando la tesi della concentrazione della ricchezza in unità sempre maggiori in volume e sempre minori in numero, l'immiserimento relativo del proletariato non deriva affatto da una diminuzione generalizzata dei consumi. Infatti, è aumentata enormemente la produzione delle merci destinate al consumo, e ciò è avvenuto rompendo la produzione parcellare, aumentando progressivamente i bisogni e nello stesso tempo la loro soddisfazione. Ciò vale per tutte le classi. La teoria marxista mostra però nello stesso tempo che, in questo modo, l'anarchia della produzione borghese disperde i nove decimi delle centuplicate energie, espropria spietatamente i piccoli e medi detentori di riserve di beni utili e, quindi, aumenta enormemente il numero dei senza riserve, cioè di quelli che consumano tutta la loro remunerazione. La maggioranza dell'umanità è così senza difesa contro le crisi economiche e sociali. Ma l'immiserimento della classe operaia non si identifica con la riduzione dei beni di consumo ad essa destinati, non significa soltanto diminuzione di salario, non è in definitiva una tendenza costante a ridurre alla mera sussistenza la vita dei lavoratori. La legge della miseria crescente è, da un lato, il ricorso sempre più massiccio all'estorsione di plusvalore relativo, che non significa abbassare il salario in valore assoluto, bensì in rapporto al plusvalore; dall'altro lato è la creazione di una massa di lavoratori in sovrappiù che non trovano lavoro e quindi vanno ad accrescere la sovrappopolazione relativa. In ultima analisi, conteggiando nel proletariato occupati, disoccupati e tutti i senza-riserve, anche a livello internazionale, la legge della miseria crescente significa
"lasciare senza difesa il lavoratore contro le crisi economiche, le crisi sociali e le spaventose distruzioni belliche inerenti al capitalismo" (44).
Alla seconda controtesi il marxismo risponde che questo modo di produzione sarà superato solo quando sarà resa alla collettività dei lavoratori non la quota del dieci per cento sull'intero valore prodotto consumata dai capitalisti ma il restante 90 per cento dilapidato dall'anarchia economica. Ciò non potrà avvenire semplicemente con una diversa contabilità sui valori scambiati, ma togliendo ai prodotti il loro carattere di merce e abolendo il salario in moneta, in modo che, con una contabilità di quantità fisiche, l'umanità possa organizzare l'attività produttiva sulla base di un piano centrale. Il problema non consiste nella diversa ripartizione della "ricchezza sociale" ma nel considerare quest'ultima esclusivamente sulla base dei valori d'uso che la compongono e non più sul valore di scambio. Qualsiasi misura tesa a riformare il capitalismo attraverso la ripartizione del plusvalore nella società è profondamente reazionaria perché tende a conservare lo stato di cose esistente. Ben diversa è invece la questione della lotta per la ripartizione della giornata lavorativa tra lavoro necessario e pluslavoro in quanto, nello scontro di classe che ne consegue, non è importante il risultato, effimero, ma l'attitudine al combattimento, alla solidarietà e all'organizzazione che ne viene consolidata.
Nerbo della replica marxista al duplice sfondone dell'avversario è, con tutta evidenza, l'esatta considerazione dei rapporti di classe nell'ambito dello sviluppo incessante delle forze produttive, e perciò dei fenomeni collegati, tra i quali la continua concentrazione del Capitale, fino alle situazioni di monopolio (45), condizione produttiva particolarmente congeniale all'autorità dello Stato quando sia imprenditore in proprio.
Lo Stato moderno, il "capitalista collettivo ideale" ha una funzione decisiva all'inizio del ciclo di accumulazione. A partire dagli inizi di questo secolo, in coincidenza con la stabilizzazione in Occidente dello specifico modo di produzione capitalistico basato sempre più sull'estorsione di plusvalore relativo (organizzazione del lavoro, macchinismo, scienza applicata), esso compie un ulteriore passaggio, dato che
"l'equivalente delle tesi marxiste sul crescere della miseria, sulla accumulazione e sulla concentrazione del capitale, nella sfera dei fatti politici non poteva essere altro che il concentrarsi, il potenziarsi dell'energia racchiusa nell'impalcatura statale" (46).
In quella che Lenin studierà come l'epoca dell'imperialismo, nasce così a livello sovrastrutturale, politico, una ulteriore forma della dominazione di classe, volta, da una parte, a realizzare le istanze riformistiche, incentivando le forme di assistenza materiale (47), dall'altra a reprimere (controrivoluzione preventiva) ogni movimento che minacci l'ordine costituito, ovvero sfugga al controllo borghese (48).
Nel secondo dopoguerra, benché la forma fascista classica avesse lasciato il posto alla forma democratica parlamentare, la struttura corporativa e regolatrice dello Stato rimase in sostanza quella ormai storicamente raggiunta. La ricostruzione delle infrastrutture andate distrutte (strade, porti, telecomunicazioni, ecc.) fu un effettivo e centralizzato piano per il riassetto delle "condizioni generali della produzione" a carico del capitale che lo Stato prelevava direttamente dal plusvalore prodotto nella società. In quella occasione venne ipotecato anche il plusvalore futuro, dato che fu necessario pianificare la gestione del debito interno e quella del debito americano. Tutto ciò prescindendo dalla immediata ed effettiva redditività degli investimenti richiesti.
Fino agli anni '80, in Italia, lo Stato gestì, in maniera pressoché esclusiva, due settori industriali: quello siderurgico e quello energetico. In questo caso il monopolio, invece di garantire un sovrapprofitto come nell'industria privata, veniva utilizzato per garantire a tutti i settori industriali un prezzo politico di due fattori fondamentali della produzione, in modo da abbattere mediamente i costi individuali e quindi garantire un più alto saggio di profitto. D'altra parte, proprio in quei settori, l'alta composizione organica e i lunghi tempi di rotazione deprimono oltremodo i tassi di profitto a medio termine e quindi, per un privato, sarebbe stato necessario un grande anticipo di capitale con inevitabile ricorso al credito, per cui una parte del profitto se ne sarebbe andato in interesse con conseguenze ancora più marcate sul prezzo finale del prodotto. L'intervento dello Stato nei settori fondamentali dell'economia, quindi, non solo rispondeva alle esigenze della ricostruzione, ma rappresentava una delle forme attraverso cui l'intervento dispotico nell'economia diventa una costante generale per distribuire sull'intera società i costi dell'accumulazione.
Per lungo tempo siderurgia ed energia fornirono parte del capitale costante necessario ai cicli produttivi dei settori privati a prezzi inferiori agli standard del mercato internazionale, e l'inevitabile tendenza al deficit fu coperta per un lungo periodo con il successivo aumento della quantità di merci prodotte, cui conseguì automaticamente un aumento di capitali utili ai cicli successivi. Il grande incremento della produzione e degli investimenti privati permise così allo Stato un'emissione continua di moneta senza che le tensioni inflazionistiche superassero un livello fisiologico. La costituzione dell'ENI (idrocarburi, 1953) assicurò alle imprese e alla nascente motorizzazione la fornitura di combustibili a basso costo, mentre la costituzione dell'ENEL (elettricità, 1962) sull'esempio della Francia e dell'Inghilterra, assicurò la fornitura di energia praticamente gratuita e il Piano Sinigaglia (49) permise la pianificazione di tutta la base siderurgica italiana. La costruzione della rete autostradale, anch’essa opera dell’IRI, rese possibile il rapido sviluppo della industria automobilistica nazionale ecc.
Se il tipo di aiuto all'accumulazione appena descritto è ormai parte integrante del capitalismo, il suo perdurare porta anche ad una sua stabilizzazione sempre più degenerata, trasformandosi in moltissimi casi in puro e semplice trasferimento gratuito di plusvalore dalla società alle tasche dei capitalisti privati, e ciò anche a prescindere dalla inevitabile corruzione. Nel caso delle Ferrovie, per esempio, la suddivisione fra pubblico e privato fa sì che lo Stato (e dunque la massa dei contribuenti che versa quote di salario e profitto) si accolli perdite e spese di ammodernamento e di manutenzione degli impianti, mentre tutti i profitti vanno a selezionate imprese di costruzione del materiale fisso e rotabile o a concessionarie della gestione dei servizi. Con i progetti per l'alta velocità, già realizzati in parte con gli ibridi protagonisti dei recenti disastri, il fenomeno si accentua. Non sono ancora intaccati i 30.000 miliardi di investimenti previsti o stanziati che già si accumulano "perdite pubbliche e cuccagne private" (50). È recentissima la vicenda STET, società con utile netto di 3.000 miliardi, quindi appetibile per il capitale privato e perciò prossima alla vendita ad un prezzo favorevole a quest'ultimo, calcolato dallo stesso Stato non in base alla sua "perdita" ma in base al vantaggio ottenuto nello stimolo all'economia in generale. E quello è un settore che oggi è trainante, tant'è vero che, non appena la finanziaria per le telecomunicazioni è passata sotto il controllo diretto del Tesoro, ha concluso con l'IBM un accordo
"ad ampio spettro per l'offerta, in Italia e all'estero, di servizi globali innovativi, come posta elettronica, applicazioni per il lavoro a distanza, navigazione su Internet, scambio elettronico dei dati, servizi di video conferenza, outsearching di rete" (51).
Un altro indice della funzione redistributrice dello Stato viene dall'impostazione del suo budget, il bilancio preventivo delle spese e delle entrate, nel quale rientrano le cosiddette finanziarie. Ultimamente lo scopo di queste ultime è quello di contenere la spesa in alcuni settori sociali (sanità, istruzione, assistenza, previdenza, ecc.), e continuare a sostenere, con l'enorme massa monetaria ricavata dalla imposizione fiscale, la competitività del sistema economico nazionale nei confronti dei sistemi concorrenti, cosa che significa nello stesso tempo sostenere le singole imprese italiane nelle tempeste del mercato mondiale con provvedimenti per settore, per tipo di investimenti o, nel caso di grandi complessi, con provvedimenti ad hoc come abbiamo affermato in apertura (52).
Tutti i paesi sostengono le loro economie, e i paesi d'Europa tentano di farlo sia uno contro l'altro, sia in modo coalizzato verso terzi. L'unione monetaria, di cui si sta parlando e straparlando, porta in sé questa contraddizione flagrante. Ma la contraddizione più grave, per l'intero capitalismo, deriva dalla separazione sempre più profonda fra gli interessi dei capitalisti nazionali, particolari, e il capitale derivante dalla loro attività industriale internazionale, universale, contraddizione che induce nell'intera classe dei capitalisti due nature assolutamente opposte e incompatibili. La grande industria
"produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l'allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni [...] in generale essa creò dappertutto gli stessi rapporti tra le classi della società e in tal modo distrusse l'individualità particolare delle singole nazionalità. E infine, mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi particolari, la grande industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso" (53).
Nell'economia capitalistica, qualunque impresa, che si affacci all'estero o no, è legata a filo doppio con il mercato mondiale: dall'approvvigionamento delle materie prime alla fornitura delle proprie merci presso paesi lontani, dalla concorrenza internazionale, che la obbliga a livellare i costi di produzione, ai cambi monetari e alle conseguenti politiche riguardanti il suo settore.
Ora, come abbiamo visto, la "politica" è molto influenzabile dalle condizioni materiali in cui si svolge il processo produttivo e distributivo, per cui diventano automatici gli schieramenti politici a favore o contro certe soluzioni nazionali e internazionali, come Maastricht insegna. La tragedia è che, se per i borghesi è naturale far parte di schieramenti del genere, al proletariato essi non dovrebbero interessare che per quanto riguarda la realizzazione dei propri interessi, mentre purtroppo esso è invece coinvolto e viene utilizzato. I marxisti con questa specie di tifo non c'entrano, anche se naturalmente auspicano le soluzioni più favorevoli al processo rivoluzionario. Ciò non significa che non parteciperebbero a manifestazioni come quelle svoltesi un anno fa in Francia, anche se avessero, come quelle avevano, forti spinte antieuropeiste. Il fatto è che Maastricht non c'entra con la rivoluzione e neppure con la lotta sindacale.
Per il proletariato, non c'è nulla di favorevole o sfavorevole nell'Unione Monetaria Europea considerata in sé e per sé. Essa è in sé una coalizione di Stati borghesi e quindi una coalizione nemica; per sé è una coalizione utile a far concorrenza ad altri capitalismi nazionali e quindi utile ad un maggior sfruttamento del proletariato locale e internazionale, quindi altrettanto nemica. L'eventuale realizzazione di una unica economia europea, o almeno di un gruppo di economie sintonizzate sulla moneta unica, produrrebbe certamente una perdita di autonomia delle nazioni, specie quelle più deboli economicamente (54), ma di ciò al proletariato, che è una classe internazionale e non nazionale, non dovrebbe importare proprio nulla.
Dal punto di vista della rivoluzione internazionale, piuttosto che il piagnisteo sulla perdita di autonomia, dato che qui è ormai scomparso da un pezzo l'intralcio della questione nazionale, sarebbe meglio la realizzazione di quella storiella ritornata in circolazione proprio in questi giorni: noi italiani dichiariamo guerra alla Germania; questa in ventiquattr'ore ci invade fino a Pantelleria, annettendosi nel passaggio l'Austria e la Svizzera; noi ci arrendiamo il mattino dopo e così dal Baltico al Mediterraneo la questione della moneta unica sarebbe risolta; siccome il nuovo paese sarebbe fortissimo, la Francia chiederebbe di essere annessa per condizionarlo dall'interno e non perdere così la sua occasione di fare storia. Come italiani passeremmo alla Storia per essere stati gli unici, autentici e concreti costruttori dell'Europa Unita.
Se il lettore crede che stiamo scherzando, si ricreda pure. Anzi, per dimostrargli la nostra temerarietà internazionalista, non indifferentista, fuori da ogni canone mutuato dal pensiero borghese, rincariamo la dose ed estendiamo lo stesso concetto a tutta l'America, dove un unico Stato continentale dal Polo Nord al Polo Sud con il dollaro o un suo sostituto per moneta, sarebbe meglio, per la Rivoluzione mondiale, che ogni tipo di balcanizzazione esistente. Per noi lo Stato forte continentale vagheggiato quasi duecento anni fa dal massone Simòn Bolìvar era più progressivo di tutte le opposizioni nazionalcomuniste dei sinistroidi attuali. È ovvio che un'Europa Unita (non solo in base alla nostra fantaprospettiva ma anche secondo i più modesti parametri di Maastricht) richiederebbe in aggiunta alla moneta unica anche la costituzione di un governo unico, che coordini le condizioni generali della produzione a livello europeo e quindi il controllo sul capitale salari, cioè sulla classe operaia. Questo governo, per armonizzare ciò che armonico non è, dovrebbe essere molto più autoritario in campo sociale e più dispotico in campo economico di quanto non siano gli attuali, democratici governi. Sarebbe un danno per l'umanità? Il rifondazionista di ogni tipo, in parlamento o fuori, direbbe senz'altro di sì. Il rivoluzionario comunista prenderebbe il 18 brumaio di Marx e direbbe di no. Poi prenderebbe Lenin e vi leggerebbe che la democrazia è il miglior involucro per la dominazione borghese trovando una verifica per il no. Poi prenderebbe un testo della Sinistra "italiana" dove si dimostra che il fascismo nella successione storica viene dopo la democrazia e quindi è progressivo rispetto alla vecchia forma di dominio e manderebbe definitivamente al diavolo tutti i democratici e resistenziali antifascisti di questo mondo.
Lenin era contrario alla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa. Siamo dunque contrari a Lenin? No, perché egli precisava che quella era una parola d'ordine
"irrealizzabile in regime capitalistico perché presuppone uno sviluppo armonico dell'economia mondiale [...]; una parola d'ordine reazionaria che significa un'alleanza temporanea delle grandi potenze d'Europa per una più efficace oppressione delle colonie e per la rapina del Giappone e dell'America, che si sviluppano rapidamente" (55).
E in altra pagina, collocando l'opposizione alla parola d'ordine nel contesto dell'epoca, dimostrava come essa non fosse valida di per sé, ma in rapporto alla dinamica storica in cui tale contesto rappresenta un passaggio e solo un passaggio senza possibilità di ritorno:
"Sono anche possibili gli Stati Uniti d'Europa, come accordo fra i capitalisti europei... Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l'America che sono molto lesi dall'attuale spartizione delle colonie e che nell'ultimo cinquantennio si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell'Europa arretrata, monarchica, la quale incomincia a putrefarsi per senilità. In confronto agli Stati Uniti d'America, l'Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. Sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, gli Stati Uniti d'Europa significherebbero l'organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell'America. Il tempo in cui la causa della democrazia e del socialismo riguardava soltanto l'Europa è passato senza ritorno" (56).
Oggi è passato, e senza ritorno, anche il tempo delle rivoluzioni nazionali borghesi, della dominazione dell'Europa sul mondo e anche sugli Stati Uniti d'America e sul Giappone cui non vengono sottratte colonie ma modernissimi mercati. Il periodo delle rivoluzioni nazionali, per quanto abortite a causa delle borghesie nazionali inconseguenti condizionate dall'imbastardimento dell'Internazionale e dallo stalinismo, è trascorso per sempre e oggi è la putrescente Europa che deve rispondere alla minaccia rappresentata dai suoi antichi rivali, i quali, a loro volta, un po' di putredine senile incominciano a denunciarla.
Che il maturare delle condizioni geo-storiche faccia mutare la valutazione dei processi dinamici in corso, è dimostrato dallo stesso Lenin il quale, già nel 1920, nella prefazione alle edizioni francese e tedesca dell'Imperialismo, accomuna Inghilterra, America e Giappone nella stessa banda di predoni che si spartiscono il mondo intero. Non è un ripensamento di Lenin, è il teatro della storia che cambia il ruolo dei suoi protagonisti.
Certamente non faremo mai nostra la parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa per via del fatto che saremmo semmai per gli Stati Uniti del Mondo (lo dice Lenin nello stesso articolo), tenendo presente, oltre tutto, che la forma statale non è nostra ma del nemico, e che noi la adotteremo transitoriamente solo per vederla estinguere. Ma è essenziale capire che la concorrenza fra Stati riproduce la concorrenza fra capitalisti all'interno di essi e che, così come valutiamo positivamente il massimo sviluppo delle forze produttive che trovano nel modo di produzione attuale il loro limite, così valutiamo positivamente il massimo sviluppo dei rapporti capitalistici interstatali che trovano nella limitatezza del globo terracqueo il loro rispettivo limite.
Di fronte ai saggisti socialdemocratici che vedevano nell'imperialismo nient'altro che un "intreccio" di affari e relazioni tra capitali e capitalisti, Lenin s'infuria e martella sul significato di questo "intreccio" e sulla sua importanza per la rivoluzione mondiale:
"Che cosa significa la parola 'intreccio'? Essa indica soltanto il carattere più appariscente di un processo che si va compiendo sotto i nostri occhi [...]. Quando una grande azienda assume proporzioni gigantesche e diventa rigorosamente sistematizzata sulla base della valutazione di dati innumerevoli [che provengono dai suoi legami col mondo intero], allora diventa chiaro che si è in presenza di una socializzazione della produzione e non già di un semplice 'intreccio'; che i rapporti di economia privata e di proprietà privata formano un involucro non più corrispondente al contenuto" (57).
L'anarchia del mercato si accompagna alla sistematizzazione di processi che coprono il mondo. Già i due fenomeni non erano compatibili quando le loro scale di diffusione erano molto inferiori a quelle di oggi, ma adesso diventano esplosive. Lenin dice che è solo questione di tempo, ma l'involucro capitalistico deve fatalmente saltare; la sua eliminazione dipende dal peso degli ostacoli artificiali che vengono frapposti alla putrefazione, quindi anche dall'influenza del bubbone opportunistico. Quest'ultimo, nello stesso testo, viene fatto risalire al coinvolgimento del proletariato nello sfruttamento del mondo.
L'anarchia di mercato non può essere considerata espressione del libero arbitrio; e infatti la "sistematizzazione" sottolineata da Lenin dimostra che le leggi ferree della produzione e dello scambio annullano la libera volontà del singolo produttore. Il controllo del proprio prodotto e dell'andamento generale del mercato, vengono negati in partenza; è quindi il mercato che, attraverso le leggi coercitive della concorrenza, domina il singolo produttore.
Di qui il fatto che il movimento della concorrenza esercita una costrizione sociale, impone l'osservanza di regole generali, pena l'estromissione dal mercato. Ecco perché il movimento per l'Europa Unita non dipende dalla volontà degli uomini. La concorrenza impone a tutti i produttori di merci le leggi immanenti della produzione capitalistica, ed essa è il tramite fra queste leggi e la pluralità anarchica dei singoli capitalisti che si affrontano sul mercato. In quanto tale non produce direttamente valore ma nello stesso tempo ne è un fattore essenziale. Essa è, dice Marx,
"locomotore essenziale della economia borghese, anche se non crea le leggi ma si limita a eseguirle, anche se non spiega ma si limita a farle vedere" (58).
La concorrenza è sempre esistita, ma ha effetti diversi con il mutare delle epoche. In passato, quando i singoli capitalisti erano costretti, per ottenere super-profitti, a cambiare i loro impianti per altri più perfezionati, producevano poi merci a un valore più basso di quello della media sociale. Per un certo tempo godevano del differenziale di prezzo in quanto partecipavano al valore medio delle merci prodotte da altri; ma alla fine imponevano l'emulazione al loro standard e, di conseguenza, la stessa ristrutturazione produttiva si generalizzava, prima in un settore, poi ai settori correlati, infine a tutto il mondo della produzione. La concorrenza aveva quindi la funzione di livellare i capitali individuali e il tentativo di superare tale livellamento portava a generalizzare l'industrializzazione.
Oggi l'enorme massa di capitali necessari a far fronte ad investimenti sempre più massicci fa sì che quasi nessuno possa risolvere individualmente il problema: deve intervenire qualcuno che possegga la quantità di capitali necessari, ovvero le Banche o lo Stato (59). Da quando la concorrenza nazionale ha dovuto capitolare di fronte al monopolio dei capitali nazionali, la grande industria non può che dare la caccia a nuovi mercati su tutta la superficie terrestre, in una lotta aperta tra colossi, cui si accompagnano sia la creazione di trust che tregue armate e provvisorie.
Rientra nei compiti dello Stato, in quanto agente del Capitale impersonale e totale, togliere dalla circolazione le industrie e i settori non competitivi o, al contrario, rimettere in circolazione quelli resi competitivi dalle iniezioni di capitale pubblico. Anche se in Italia tale processo si svolge col linguaggio maccheronico della politica nostrana, con i pasticci che ne risultano, tuttavia qui è stato inventato e qui in continuazione si applica, come del resto ormai in tutto il mondo. Da questo punto di vista il gran baccano sulle privatizzazioni sarebbe una normale routine, se non vi fossero le questioni legate alla concorrenza e all'Unità Europea che accelerano ogni processo di ristrutturazione delle economie interne ad ogni paese. A proposito di una delle privatizzazioni in corso, un comunicato governativo affermava:
"Il processo di privatizzazione ha come obiettivo la creazione di una azienda fortemente competitiva, con un nocciolo duro di azionisti prevalentemente italiani, con una significativa presenza di soci stranieri" (60).
In questa breve frase è concentrato il significato delle privatizzazioni in corso. La nuova azienda ha come obiettivo la concorrenza perché dev'essere fortemente competitiva; dev'essere in mani nazionali; deve essere in grado, con soci stranieri, sia di arginare una parte della concorrenza, sia di trovare nuovi capitali. Siccome solo i grandi gruppi esistenti sono in grado di maneggiare affari di questo tipo, la cessione delle imprese pubbliche coincide direttamente con il rafforzamento dei grandi gruppi monopolistici dei rispettivi settori. Per la politica borghese il monopolio è malefico e oggetto di repressione se uccide il libero mercato interno, ma è benefico e oggetto di cure se va a conquistare mercati altrui. Tutto ciò esclude categoricamente che per privatizzazione si possa intendere, banalmente, un ritorno a forme di libera concorrenza e a metodi di sana iniziativa individuale. Un tal modo di vedere sarebbe il rigetto di uno dei più classici degli enunciati della scuola marxista:
"Nel trust la concorrenza si trasforma in monopolio, la produzione della società capitalistica, priva di un piano, capitola davanti alla produzione secondo un piano dell'irrompente società socialista. Certo in un primo tempo questo avviene ancora a tutto vantaggio dei capitalisti. Ma qui lo sfruttamento diventa così tangibile da dover necessariamente crollare. Nessun popolo sopporterebbe una produzione diretta da trust, uno sfruttamento della collettività per opera di una piccola banda di tagliatori di cedole" (61).
I popoli hanno dimostrato di sopportare più di quanto prevedesse Engels, anche perché gli Stati hanno incominciato già ai suoi tempi, a partire dagli Stati Uniti, a varare politiche antitrust per costringere il libero mercato a rimanere tale contro la sua tendenza naturale al monopolio. Ciò significa che
"in un modo o nell'altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumere la direzione" (62).
Assumere la direzione dell'economia non significa evidentemente prendere in gestione, sempre e comunque, l'intero apparato produttivo, ovvero il complesso delle aziende esistenti. Com'è provato abbondantemente - almeno in Occidente - dal corso plurisecolare della società borghese, esaurito il compito di primo investitore della storia (Comune, Signoria, Repubblica, Monarchia: insomma, il dirigismo economico degli albori), lo Stato si fa diretto e universale imprenditore solo allorquando i singoli capitalisti rivelino assoluta incapacità a perpetuare il processo di accumulazione, quando cioè nessuno di essi dispone, durante e dopo le crisi periodiche da sovrapprodotto, degli enormi capitali necessari alla ripresa. Mentre non elimina l'estorsione e l'acquisizione ancora privata del plusvalore, e perfino enfatizza il saggio di sfruttamento, tale "statalismo" permette, in forza del pubblico erario, di socializzare le perdite eventuali. È, in breve, la realizzazione del profitto senza capitale, la riprova che, a dispetto di quanto si poteva dire dell'economia statizzata dell'URSS,
"l'inghiottimento dell'economia da parte dello Stato [...] è fenomeno che non viene dopo il capitalismo ma nel capitalismo, e serve ad assicurare la ricchezza alla dominante classe borghese, che tiene nelle mani lo Stato, il suo Stato [poiché il capitalismo statale] non è una soggezione del capitale allo Stato, ma una più ferma soggezione dello Stato al capitale" (63).
Allo scopo di confutare la tesi rivoluzionaria varrebbe dunque, da parte di tutti i nostri avversari, non il ridicolo conteggio delle imprese pubbliche cedute a privati solerti e danarosi, ma la dimostrazione, impossibile, dell'effettiva rinuncia dell'organo statale all'intervento nella sfera economica. L'enfiarsi spropositato del debito pubblico testimonia proprio l'opposto, dato che questo è
"una delle più potenti leve dell'accumulazione originaria [e della riproduzione allargata tout court], in grado di conferire 'come per magia', al denaro, improduttivo, la facoltà di procreare" (64).
Questa apparente facoltà di procreare come per magia ricorre tutte le volte che è possibile rastrellare piccoli capitali inutili per la loro dimensione ininfluente rispetto ai bisogni dell'economia, e si riesce ad utilizzarli come un capitale unico. Questo effetto lo ottiene lo Stato con i suoi tipici metodi di raccolta, ma lo ottengono allo stesso titolo le banche, le società finanziarie, i trust. Il processo di centralizzazione ha portato il Capitale alla sua forma finanziaria e oggi è la condizione irrinunciabile per la sopravvivenza. Quindi, la battaglia contraddittoria che porterà alla riunione degli sforzi europei per battere la concorrenza extraeuropea, insieme con le ristrutturazioni delle economie, porterà inevitabilmente la ulteriore centralizzazione del Capitale e quindi la sua finanziarizzazione alle estreme conseguenze. Ciò porterà a contraddizioni importanti.
Quando si parla di centralizzazione s'intende altra cosa rispetto alla concentrazione. Nella concentrazione il capitale monetario si trasforma in capitale produttivo, macchine, tecnologia, forza-lavoro, materie prime; da questo capitale, attraverso il processo di produzione scaturisce nuovo capitale, il quale a sua volta contribuisce alla unificazione sia di forza-lavoro che di mezzi di produzione che di capitale in unità produttive sempre più grandi. La concentrazione è il processo tipico dell'accumulazione, in quanto il Capitale originario si accresce. Il fenomeno della centralizzazione è diverso: esso presuppone una ripartizione tra capitalisti del capitale già esistente, non abbisogna di accrescimento generale per dimostrare la sua potenza, gli basta l'accrescimento in un punto particolare. La sua potenza è quindi dimostrata gratis, semplicemente raggruppando il capitale esistente in poche mani e facendolo agire, così aumentato, in altra maniera. Si capisce che al Capitale odierno, già in crisi di accrescimento, la possibilità di ottenere qualcosa gratis è piuttosto gradita. Solo che di effettivamente gratuito, nella società della misura secondo valori di scambio, non esiste nulla:
"In quanto presuppone solo una diversa suddivisione dei capitali esistenti e operanti, la centralizzazione non dipende dal grado di crescita della ricchezza capitalistica ma è frutto maturo della concorrenza; essa è, precisamente, l'espropriazione del capitalista da parte del capitalista, la trasformazione di parecchi piccoli capitali in pochi capitali più grossi" (65).
Il motore dell'Unione Europea e di tutte le unioni che saranno possibili negli schieramenti interimperialistici del prossimo futuro, è la concorrenza, non banalmente intesa come battaglia dei prezzi delle merci (compresa la forza-lavoro), ma come impossibilità di proseguire senza scosse e crisi sulla strada della concentrazione del Capitale. La concentrazione, che accresce il capitale investito e si attua attraverso di esso, può avvenire di pari passo per tutte le imprese, ma ciò presuppone crescita infinita, e non possono esistere in natura sistemi di tal fatta. La centralizzazione avviene invece smistando capitale esistente e può solo provocare il vantaggio di alcuni capitalisti a scapito di altri. Perciò il vantaggio di alcuni paesi a scapito di altri. Ciò è invece possibile farlo ed è per questo che i capitalisti singoli e le borghesie nazionali si accingono all'impresa. In Europa. In America. In Asia. In ogni paese. Ma non possono centralizzare tutti: solo qualcuno. Gli altri devono inventarsi altre Maastricht, fare la guerra, o soccombere. O entrare nell'epoca della rivoluzione comunista.
Note
(41) Vedremo in seguito le importanti conseguenze che i rivoluzionari possono e debbono trarne, ma occorre anticipare alcune conclusioni per capire meglio l'attuale rincorsa alle fusioni concertate o piratesche (Takeover), agli impegni di cartello, alle enormi raccolte di capitali di rischio (Venture capital) ecc.; diciamo quindi subito che, mentre la concentrazione di capitali può avvenire solo con un aumento della massa complessiva del Capitale e in contemporanea per più capitali e quindi a vantaggio di più capitalisti, la centralizzazione avviene senza aumentare il Capitale esistente ma solo ripartendolo fra un numero sempre minore di capitalisti, quindi a vantaggio degli uni e a scapito degli altri. Le borse, che registrano il fenomeno e lo amplificano, sono in questo caso da osservare attentamente: l'indice Dow Jones di Wall Street era a 4.000 punti due anni fa, 6.000 lo scorso autunno ed è arrivato a 7.000 mentre scriviamo, raddoppiando in poche settimane ad uno come Bill Gates, della Microsoft, il capitale posseduto (da 25.000 miliardi di lire a 50.000). Questa non è creazione ma spostamento di capitale.
(42) Ora in Per l'organica sistemazione dei principii comunisti Ed. Quaderni Internazionalisti.
(43) Cfr. Marx, Lettera a Bracke, 5 maggio 1875.
(44) Raddrizzare ecc. cit.
(45) "Uno dei tratti più caratteristici del capitalismo è costituito dall'immenso incremento dell'industria e dal rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie [...] la concentrazione, a un certo punto della sua evoluzione, porta, per così dire, automaticamente, alla soglia del monopolio" (Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, Ed. Riuniti, pagg. 40, 42).
(46) Partito e classe, ed. Programma Comunista, pag. 94.
(47) "Ogni misura economico-sociale dello Stato, anche quando si arriva ad imporre in modo effettivo prezzi di derrate o di merci, livello dei salari, oneri al datore di lavoro per 'previdenza sociale', ecc.. risponde ad una meccanica in cui il capitale fa da motore e lo Stato da macchina 'operatrice'..." (Proprietà e capitale, Edizioni Quaderni Internazionalisti pag. 130).
(48) "Non potete fondare un’economia di stato senza uno stato di polizia", Diceva Churchill ai laburisti inglesi (cit. in Partito e Classe, dove anche sta scritto: "l’equivalente delle tesi marxiste sul crescere della miseria, sulla accumulazione, e sulla concentrazione del capitale nella sfera dei fatti politici non poteva essere altro che il concentrarsi, il potenziarsi dell’energia racchiusa nell’impalcatura statale").
(49) Da Oscar Sinigaglia, allora presidente della Finsider, holding dell'IRI capocommessa dei maggiori impianti.
(50) 2.600 miliardi di perdite nel 1996; per il 1997 (stima a legislazione vigente) è previsto un deficit di 5.500 miliardi.
(51) La Repubblica, 21 dicembre 1996. "Il tira e molla parlamentare a proposito del decreto STET non reca novità all’analisi".
(52) Non tutto funziona in modo così lineare nel mondo del "sostegno alle attività produttive", come recita il Protocollo del 23 luglio 1993. Dal punto di vista marxista è chiaro che ogni forzatura tesa a far funzionare il capitalismo ad ogni costo dev'essere valutata dal punto di vista della legge del valore. Questa ci dice che, se la pletora di merci cui corrisponde la pletora di capitali produce inceppamenti nel meccanismo di accumulazione, l'unico lubrificante gradito dal Capitale è altro capitale a basso prezzo, ottenuto spremendo i profitti più alti della media e soprattutto i salari, e distribuendolo verso i punti deboli. Qui c'è una contraddizione in termini, perché il capitale agisce bene solo dove trova le condizioni favorevoli ed è lì che andrebbe spontaneamente se lo Stato non intervenisse. Il "sostegno alle attività produttive" fornisce certamente capitale a basso prezzo, ma questo, come il lubrificante iniettato in esuberanza su ingranaggi pigri, va solo in parte a fare il suo servizio, mentre il resto cola via e finisce nelle tasche dei vari capitalisti senza sostenere nessuna attività produttiva. È chiaro che in questa situazione possono fiorire tutte le tangentopoli possibili, anche se queste sono un fenomeno secondario rispetto allo sciupìo congenito al Capitale. Ha ragione Craxi, la cui filosofia procede in modo diretto dal proverbio popolare: è l'occasione che fa l'uomo ladro.
(53) Marx, L'ideologia Tedesca, Opere Complete, Ed. Riuniti, vol. V pagg. 59-60.
(54) Al di là della chiacchiera esperta sull'Euromoneta (che già s'inflaziona in ogni gazzetta), di fatto in Europa "l'unica religione ammessa rimane quella della Bundesbank" (F. Rampini, L'Italia e l'Unione Monetaria Europea, in Affari esteri, primavera 1995). E ben si conosce, dal "Documento Schaeuble", l'ambizione tedesca a estendere l'area del marco lungo varie, strategiche direttrici: a Est, verso il Baltico, sull'esempio trecentesco della Lega Anseatica; a Ovest, verso i Paesi Bassi, da sottrarre alla sempre più fiacca influenza britannica; a Sud, verso i mercati di "nuovo sviluppo", rivieraschi del Mar Nero.
(55) Lenin, Nota della redazione del Sotsial-Demokrat sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa. Opere Complete, Ed. Riuniti vol. 21 pag. 315.
(56) Lenin: Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa Op. Comp. cit., pag. 313.
(57) Lenin, L'Imperialismo, Op. Comp. cit. vol. 22 pag. 301.
(58) Marx, Gundrisse, Ed. La Nuova Italia, vol. II pagg. 198-99
(59) Negli Stati Uniti si sono sviluppate organizzazioni finanziarie apposite (Venture capital firms) che raccolgono capitali per metterli a disposizione dei nuovi investimenti, il 70% dei quali nei settori delle nuove tecnologie. Nel 1996 hanno prestato 10 miliardi di dollari 16.000 miliardi di lire (fonte: The Economist).
(60) Comunicato stampa del consiglio dei Ministri sul progetto di privatizzazione della STET, 6 settembre 1996.
(61) Engels, Antidühring, Op. Compl. Ed. Riun. vol. XXV pag. 267.
(62) Ibid.
(63) Formule, entrambe, di Amadeo Bordiga, nella serie di scritti in dedica a Pantalone: l'una in L'imperatrice delle acque purgative, l'altra in Dottrina del diavolo in corpo.
(64) Cfr. Marx, Il Capitale, I, cap. XXIV.
(65) Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII.