35. Il feticcio dei mercati (4)
Ovvero il mercato dei feticci
PER ESSERE PRECISI: VOLETE IL MERCATO?
IL CAPITALISMO È UN MODO DI PRODUZIONE CHE SI BASA SULLE CATEGORIE DI MISURA DEL VALORE LA CUI RAPPRESENTAZIONE GENERALE È IL DENARO. TUTTE LE VOLTE CHE NON SI ESCE DALLE CATEGORIE SUDDETTE NON SI ESCE DAL CAPITALISMO. QUINDI, ENTRANDO NEL MERITO DEI MECCANISMI CAPITALISTICI QUANDO SIA IN GIOCO LA VITA UMANA, SI ACCETTA IN FONDO DI STABILIRNE IL PREZZO.
Giornalista. Colonnello Mathieu è vero che, nella lotta contro il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, viene applicata la tortura?
Mathieu. Cerchiamo di essere precisi. Non è questo il problema. Il problema è: Il Fronte di Liberazione Nazionale vuole mandarci via dall'Algeria e noi vogliamo restarci. Ora, a me sembra che, anche se con sfumature diverse, siete tutti d'accordo che dobbiamo rimanere. Per essere precisi pongo io una domanda: la Francia deve rimanere in Algeria? Se rispondete ancora sì, dovete accettare tutte le necessarie conseguenze.
Dal film La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo
"È impossibile fornire una soglia di sicurezza nei confronti di una sostanza cancerogena. Le soglie di sicurezza oggi vigenti per tutte le sostanze cancerogene vanno ritenute soglie socialmente accettabili, ma sono biologicamente non sicure". Questo affermò il professor Cesare Maltoni, il 3 ottobre 1996.
Nella sua richiesta di rinvio a giudizio del 16 ottobre, seguita alle indagini sulle patologie causate da CVM e PVC nell'area del Petrolchimico di Marghera, il Sostituto Procuratore della Repubblica, Felice Casson, definisce "agghiacciante" l'affermazione del professor Maltoni. Casson, usando quel termine, mostra evidentemente di essere "indignato".
Per parte nostra non proviamo alcuna sorpresa e, se di indignazione bisogna parlare (a parte la carica moralistica che il termine comporta), essa deve scaturire soprattutto dal substrato materiale - economico e sociale - sul quale si misurano le "soglie socialmente accettabili" descritte in modo "agghiacciante" dal professor Maltoni.
Casson cita anche una Nota di servizio centrale di manutenzione dal Budget di manutenzione per gli anni 1978-1980, spedito dalla sede centrale della Montedison a tutti i suoi stabilimenti in Italia. Tale nota di servizio era tutt'altro che segreta, visto che fu pubblicata sul giornale Lotta Continua, ed era a conoscenza di un gran numero di operai, considerato che, all'epoca, le fotocopie giravano per tutti i reparti. Tale nota avvertiva che, sul fronte della sicurezza,
"bisogna correre dei ragionevoli rischi; non ha senso infatti affrontare oggi perdite di prodotto e costi sicuri per evitare conseguenze possibili in futuro se non si è accuratamente verificato che la loro gravità e la probabilità che si verifichino sono tali da non lasciare dubbi".
Per inciso, notiamo che la proposizione "tali da non lasciare dubbi" non può legarsi al concetto di probabilità, bensì al concetto di certezza. Il che significa: dato che il concetto di probabilità lascia spazio alla possibilità che nessuno muoia, e dato che delle certezze "tali da non lasciare dubbi" sono possibili solo qualora si sia "accuratamente verificato" il decesso di qualche lavoratore... aspettiamo che ne muoia qualcuno.
Questa nota di servizio veniva inviata agli stabilimenti del gruppo quando già, dall'autunno del 1973, si era a conoscenza del caso Goodrich, lo stabilimento statunitense nel quale degli operai addetti alla produzione del CVM erano morti per angiosarcoma epatico; inoltre, la nota veniva inviata nonostante la relazione finale (datata 12 marzo 1977) dell'indagine epidemiologica, effettuata nel 1975-76, parlasse di "situazione sanitaria complessiva grave".
Nel suo esposto, Casson parla di "omicidio colposo plurimo aggravato" in quanto difficilmente dimostrabile l'ipotesi di "omicidio plurimo a titolo di dolo eventuale", per quanto "la linea di demarcazione giuridica fra le due citate fattispecie delittuose sia piuttosto sottile". Si parla dunque di omicidio, non di fragoline!
L'imputazione riguardava inizialmente 39 persone; ne rimangono 27, in quanto 2 sono state stralciate e 10 sono decedute. Conoscere i responsabili di questi omicidi è compito specifico della magistratura, la quale seguirà il suo corso nell'opera di individuazione delle responsabilità individuali dei singoli soggetti. Essa deve porsi, e si pone, la seguente domanda: "chi è il colpevole?". Nel fare questo, la magistratura deve limitare il proprio campo di indagine ai fatti specifici che hanno portato un dirigente d'industria ad essere imputato di omicidio colposo plurimo. Deve cioè rinunciare alla domanda "perché è colpevole?" cosa che noi lavoratori non possiamo evidentemente fare. Infatti noi notiamo subito che nella stessa nota di servizio della Montedison, che Casson definisce "sconcertante", è spiegato il perché sia necessario correre dei "ragionevoli rischi" all'interno delle varie attività produttive ed è questo:
"l'obiettivo primario e costante di tutta la Divisione è la competitività... la necessità di far quadrare il bilancio... poiché la nostra divisione opera sul mercato ed ha... un profitto".
Siccome sulla vicenda si è innescato un "caso" sindacal-giudiziario, e siccome non si sente nessuno, diciamo nessuno, che tenti di capire che casi come questo attirano il lavoro dei sindacati e della magistratura ma non sono risolvibili nell'ambito delle funzioni di questi, occorre portare alle estreme conseguenze la logica soggiacente a questi morti di cancro. Se dicessimo semplicemente che "tutto è colpa del capitalismo", avremmo né più né meno assunto l'atteggiamento "indignato" di Casson, il quale fa il suo mestiere cercando di dimostrare che "tutto è colpa di qualcuno". Quando si dice che è colpa di qualcuno, si intende che, eliminata la colpa, tutto va bene. Ma coloro che accettano di "entrare nel merito" del caso sindacal-giudiziario e si danno da fare per una sua "giusta" soluzione, non salgono neppure all'altezza di quei preti combattenti che dicono: eliminiamo il capitalismo colposo; quando ci si tuffa nei processi di una determinata realtà, senza vederla nel suo cambiamento verso un'altra realtà che la supera (per noi ovviamente la società futura), si finisce per legittimarla rivendicandone il miglioramento, non l'eliminazione.
Nel documento appena citato si parla di competitività e di profitto e quindi si potrebbero incolpare queste due categorie: basta estendere oltre i limiti della magistratura l'indignazione di Casson e avremmo rivendicato un'azione moderatrice di qualche organo sociale sui guasti provocati da competitività e profitto. Ciò rappresenta la classica visione "sindacalista", cioè basata su "rivendicazioni", tipica non solo dei sindacati, ma di tutte le forze che, in un modo o nell'altro, si agitano contro gli effetti del capitalismo e non giungono alla critica distruttiva e rivoluzionaria delle cause. Ma anche l'azione dello Stato borghese è criticamente costruttiva (quindi equilibratrice e conservatrice) nei confronti dell'anarchia della produzione, della distribuzione e dell'ambiente, insita nel modo di produzione attuale. È ovvio che il capitalismo ha in sé elementi per la sua sopravvivenza.
La critica profonda al modo di produzione capitalistico non ha bisogno del ricorso a luoghi comuni e a parole che significano quel che il contesto le fa significare. Potremmo, nel contesto della ricerca sulla responsabilità giuridica e morale delle morti per cancro, inserire decine di termini come "rivoluzione", comunismo", "lotta di classe" ecc. e non avremmo che insultato il loro significato originale, contribuendo a mistificarlo.
Ci basta una considerazione generalissima che è questa: il capitalismo è un modo di produzione che si basa sulle categorie di misura del valore, specificamente valore di scambio. Esso si esprime attraverso la sua rappresentazione generale che è il denaro. Tutte le volte che non si esce dalle categorie di valore, non si esce dalla salvaguardia del capitalismo.
Nel documento citato è ben specificata la fondamentale categoria di valore del capitalismo: il profitto; insieme ad essa la completano due inseparabili conseguenze: il mercato e la competitività (concorrenza). Là si sofferma la nostra attenzione. Ma a quale parte del documento potrebbe legarsi lo sconcerto di Casson? Alla parte relativa ai "ragionevoli rischi"? Se così fosse ci troveremmo di fronte ad una palese incongruenza, in quanto i ragionevoli rischi non sono altro che la conseguenza della fondamentale premessa data dalla realtà economica del mercato, all'interno del quale l'obiettivo costante dev'essere la competitività al fine di ottenere un profitto.
Ed allora, lo sconcerto deriverebbe dalla constatazione che esisterebbe un mercato e se ne difendono le leggi? È difficile crederlo. Se così fosse, lo stesso Casson non se ne occuperebbe sul piano giuridico e la questione sarebbe demandata alla politica, dato che non sarebbe affrontabile e risolvibile da qualsivoglia livello della magistratura. Ma politicamente essa potrebbe essere affrontata e risolta solo da quel movimento e da quella organizzazione di classe che sapessero fondere le due separate domande "chi è colpevole?" e "perché è colpevole?", in una sola domanda: "perché è colpevole chi?". Attenzione: la ricerca del motivo per cui qualcuno sarebbe colpevole non serve qui ad accontentarci del fatto che abbiamo ben formulato la domanda; nel nostro caso la formulazione della domanda è solo una via per giungere ad una risposta precisa, che in effetti distrugge la domanda stessa e fa scattare l'argomento in un'altra dimensione.
Una lettura superficiale di quanto stiamo affermando potrebbe suggerire l'impressione di un discorso astratto che distoglie l'attenzione da un problema specifico e dalle relative responsabilità rispetto ad esso. Tralasciando per il momento questioni che riguardano l'annosa discussione sul concretismo e l'astrattismo, limitiamoci a sottolineare che noi lavoratori - e non parliamo in maniera esclusiva di quanti hanno provato direttamente sulla propria pelle il valore dei "ragionevoli rischi" - non possiamo accontentarci di soluzioni salva-coscienza, di responsabili occasionali (il chi?) che svolgano la funzione di parafulmine di un sistema il quale, rimanendo inalterato (mercato, profitto, ecc.), possa riproporre periodicamente dei nuovi "ragionevoli rischi", dei nuovi lavoratori ammazzati, dei nuovi responsabili, dei nuovi chi?... lungo un ciclo infernale che continuamente si ripete.
Quei dirigenti (i chi?), nei confronti dei quali è stato chiesto il rinvio a giudizio da Casson, sono sotto la spada di Damocle rappresentata da una condanna per "omicidio colposo plurimo" e nell'attesa, forse, troveranno individualmente la forza per riflettere sul rapporto tra profitto e carne da cannone. Ma non è questo il punto. Noi vogliamo qui mostrare che omicidi colposi plurimi di queste dimensioni non hanno origine da individui, a cominciare dal fatto banale che non possono essere compiuti da un numero esiguo di persone.
La domanda "perché è colpevole chi?" è formulata a questo modo proprio per non spostare il discorso su un esclusivo e apparentemente nebuloso, astratto "perché?" e tacere sulle responsabilità soggettive e individuali. Ma l'aggiunta del perché? incomincia con l'allargare l'atto d'accusa di "omicidio colposo plurimo" all'intera rete di relazioni sociali che caratterizza l'attuale società capitalistica. La domanda così formulata pone il problema dell'individuazione non solo degli esecutori di questi omicidi, ma anche dei loro ispiratori, i quali sarebbero sicuramente pronti a tirar fuori il loro alibi scontato: "io non c'ero sul luogo dell'assassinio", pur sapendo benissimo di essere parte attiva di quella rete di interessi che è la determinante causa di questi omicidi.
Come si vede, non stiamo ancora usando categorie nostre: per ora ci limitiamo a spingere ai limiti ciò che dicono gli stessi borghesi. Spezzeremo in seguito questi limiti. A titolo d'esempio, prendiamo il libro di un certo Aldo Fabris, L'organizzazione dell'impresa (66), che fa parte di una collana dal significativo titolo: Biblioteca dei quadri aziendali. Nel retrocopertina sono riportati vari titoli di merito che ricordano a chi compra il libro che l'autore è un elemento competente ed è anche ispiratore di linee-guida per la formazione dei dirigenti.
Questo signor Fabris, criticando la "visione burocratica e statica" in contrasto con l'effettivo presentarsi di "variabili, in termini di economicità, efficacia ed efficienza", pone la funzione dei quadri in un contesto che comporta "il privilegiare le caratteristiche dinamiche di adattamento e flessibilità". Egli considera che una qualsiasi attività produttiva è immersa in quell'ambiente chiamato mercato ed è sottoposta alle leggi di aspra guerra (competitività) economica, per cui deve dotarsi di un'organizzazione che leghi dinamicamente in un unico concetto la triade strumento-risorse-risultati; deve, cioè,
"guardare all'organizzazione come strumento per integrare delle risorse ed ottenere dei risultati che devono essere tali da reggere il confronto con modi alternativi di lavoro... pena il declino e la morte".
È a questo punto che, al concetto di organizzazione, il signor Fabris collega due aspetti: l'efficacia, indicante che "l'obiettivo previsto e programmato deve essere raggiunto" e l'efficienza, indicante la modalità con cui si deve tendere all'obiettivo. Se "il rapporto fra efficacia ed efficienza deve essere costruito in relazione alla situazione specifica", ciò significa che l'efficienza rimane sempre funzione dell'efficacia, pena il "il declino e la morte" dell'azienda stessa. Banalmente, altisonanti giri di parole ci dicono che l'obiettivo sono i ricavi e che l'efficienza sono i costi. Abbiamo quindi un classicissimo esempio di dove si vada sempre a parare quando il criterio per stabilire "la vita o la morte" sia la misura del valore. Considerando che l'obiettivo di una qualsiasi attività produttiva, operante all'interno delle leggi di mercato, è determinato dal raggiungimento di una quota x di valorizzazione del proprio capitale investito, e considerando inoltre che questo obiettivo (efficacia) è sempre contrastato dall'obiettivo di una diversa e concorrente organizzazione produttiva, ne consegue che esso sarà tanto più alto quanto più il costo dell'efficienza sia basso.
Per esempio: supposta l'efficacia di un'organizzazione che si ponga un obiettivo pari a 100 e supposta la modalità efficiente il cui costo sia pari a 50, il rapporto efficacia/efficienza risulterà pari a 2. Qualora i limiti dello sviluppo (sovrapproduzione, competitività, esacerbata guerra economica, ecc.) costringano a ridurre l'obiettivo a 90, il rapporto scenderebbe a 1,8. Per l'azienda si porrebbe il problema del declino economico (in vista della futura morte) a meno che essa non riuscisse a riportare il rapporto obiettivo/modalità (efficacia/efficienza) al precedente valore. Lo si può fare in un unico modo: data la caduta dell'efficacia da 100 a 90, il costo dell'efficienza deve scendere assolutamente a 45, per ristabilire il rapporto pari a 2 (90/45).
Arrivato a questo punto il signor Fabris ci dice qualcosa di veramente interessante:
"Il rapporto fra efficacia ed efficienza deve essere costruito in relazione alla situazione specifica; alcune volte non ci si può permettere di non raggiungere il risultato anche a scapito dell'efficienza: come esempio possono essere ricordate le situazioni dove sono in pericolo le vite umane".
In parole povere ci viene detto che quando sono in pericolo vite umane il risultato va raggiunto senza badare ai costi dell'efficienza. L'apparente filantropia dell'affermazione è però contraddetta da ciò che precede: se infatti per l'azienda è questione di vita o di morte raggiungere l'obiettivo, l'alternativa è, in condizioni di concorrenza (competitività), o la morte dell'azienda o la morte degli uomini. In una società che misura tutto con le categorie del valore, l'alternativa si risolve nel senso di ciò che conviene.
Ci è rimasto nella memoria un processo sindacal-giudiziario per un fatto accaduto molti anni fa negli Stati Uniti. Seguendo i filoni naturali di silice, una cava a cielo aperto si trasformò in miniera. Nelle gallerie aumentarono ovviamente i costi e quindi, come ci insegna il signor Fabris, diminuì il rapporto efficacia/efficienza. La miniera chiuse, anche perché nelle gallerie, a differenza che all'aperto, la polvere silicea era ad una concentrazione tale che per la sicurezza sarebbero occorsi impianti di estrazione ad acqua, quindi pompe, drenaggi e nuovi tipi di struttura di contenimento. Vi fu sciopero per la difesa del posto di lavoro, ma il vecchio proprietario, conti alla mano, rifiutò di riaprire la miniera. Essa fu allora concessa in appalto temporaneo ad un altro imprenditore il quale, con gli stessi conti, dimostrò che poteva ristabilire l'equilibrio efficacia/efficienza risparmiando sugli impianti e mettendo più uomini, come se avesse letto Marx e la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. La bassa composizione organica del capitale nelle gallerie permise profitto e posti di lavoro in abbondanza, infatti si scavò intensivamente silice pura fino all'esaurimento della miniera. Nessuno ne parlò più, ma dopo alcuni anni i minatori che si erano avvicendati in quella miniera incominciarono a morire di silicosi. Si aprì un'inchiesta e, prima del processo, ne erano già morti duemila. Non ricordiamo se ci furono condanne, ma ci pare evidente che la legge che il signor Fabris crede di aver scoperto funziona benissimo.
Noi, in quanto lavoratori che non si accontentano di condannare un macellaio sostituendolo con un altro macellaio e in quanto uomini che lavorano e che non vogliono essere carne da cannone, ci dobbiamo porre una domanda: che rapporto esiste fra la nota di servizio della Montedison, citata da Casson, la richiesta di rinvio a giudizio dello stesso per "omicidio colposo plurimo" e le considerazioni contenute nel libro del signor Aldo Fabris? Dato che questa società si basa sulle categorie di misura del valore e che, generalizzando il significato del rapporto efficacia/efficienza, è una questione di vita o di morte per il Capitale, la formuletta del libro è da considerare come "istigazione a delinquere". Certo, solo dopo che ci sono i morti, perché prima il margine di discrezionalità è talmente ampio da essere descritto con la frase statisticamente poco precisa di "ragionevoli rischi". Dopo un numero statisticamente probante di morti, però, c'è la certezza che i rischi non erano tanto ragionevoli.
A leggere fino in fondo nell'indignazione di Casson, è evidente che egli vede, nella sua lucidità giuridica, quale ampiezza dovrebbe assumere la sua azione se per obbligo deontologico dovesse andare fino in fondo. Egli sa bene che
"ai fini della sussistenza del reato di istigazione a delinquere non è necessario che il fatto istigato abbia assunto una precisa individuazione attraverso la specificazione del nomen juris (omicidio, ecc.) che lo qualifica penalmente, ma è sufficiente che contenga i presupposti che consentano di inquadrarlo in uno o più tipi di reato previsti dall'ordinamento penale" (Sentenza '85, Cass. Pen.- Sez. 1, '85/170600).
Questi "fondamentali" distinguo presenti nel codice penale e nella giurisprudenza, ci allargano l'orizzonte, ma certo solo sulla stessa "fondamentale" materia. In quanto appartenenti alla classe salariata rimaniamo refrattari di fronte al diritto mentre riteniamo fondamentale sapere come e se si caverà silice o si fabbricherà plastica nella società futura senza che siano distrutte vite umane nella quadratura del rapporto efficacia/efficienza. E più ancora ci interessa indagare come si vivrà senza dover morire per la silice o il CVM, senza dover morire ogni giorno un poco anche solo per il più venefico effetto di questa società: il furto del tempo di vita, che corrisponde al tempo di pluslavoro.
E affinché nel suo intimo il lettore non senta diminuire il senso di nausea che speriamo gli sia venuto di fronte ai fondamentali argomenti del pensiero borghese, gli sottoponiamo un'ulteriore elaborazione di tale pensiero, che giunge ad avvalersi degli alti risultati della statistica. Nella già citata nota Montedison, la scienza matematica statistica, ridotta ai già ricordati "ragionevoli rischi", è di nuovo scienza positiva e rigorosa:
"Ognuno di noi paga un premio ad una Società Assicuratrice per cautelarsi dai rischi derivanti dall'uso dell'automobile [...] che, considerati nell'ambito individuale possono essere gravissimi. Nell'insieme di una comunità peraltro gli assicurati prosperano perché la somma del danni è sempre inferiore alla somma dei premi pagati agli individui. Analogamente rischi di affidabilità che potrebbero essere non accettabili se considerati nell'ambito del singolo impianto, diventano accettabili se sono frutto di una mentalità estesa ad un intero stabilimento o ad una Divisione".
È evidente che la natura di un discorso del genere è squisitamente politica, anche se mortalmente politica. I vari Cefis, Medici, Schimberni, la cui conoscenza tecnico-industriale sicuramente non è eccelsa, potrebbero parlare di rischi "accettabili" solo dopo aver incaricato dei tecnici specialisti per fare accertamenti, e non nell'immediato, bensì negli anni. Ciò mostra come da una non superficiale lettura della nota Montedison emerga una doppia ipotesi di "reato": se indubbiamente vi è differenza fra l'ordine di accertare un pericolo di morte e quello di accettare un tale pericolo, essa non sussiste più fra l'ordinare e l'eseguire in piena consapevolezza. È dunque strumentale e demagogico scaricare la responsabilità soltanto su chi ordina, quando appare evidente che tale responsabilità omicida appartiene a tutta la struttura piramidale che esegue e poggia sulla "carne da cannone".
La domanda quindi diventa: quanti chi? all'interno della struttura piramidale Montedison-Enichem non solo conoscevano, ma ordinavano, accettavano ed eseguivano modalità produttive comportanti il pericolo di morte per un numero non indifferente di lavoratori? Quando mai sono stati avvisati i lavoratori del grave pericolo (di morte) cui erano sottoposti? Ma soprattutto: quante e quali situazioni permangono di "rischio socialmente accettabile" rientranti anche solo nella limitata sfera del Codice Penale? E dunque, se il Codice Penale persegue responsabilità oggettive chiaramente individuabili in persone fisiche, chi ancora oggi, conoscendo modalità produttive comportanti rischio accettabile di morte - e forse anche di strage - le ordina, le accetta e le esegue? Dove ci si ferma lungo la catena? Sarà processato, alla fine della catena, anche il petrolio?
Nessun anello della catena umana che forma le responsabilità vive in un limbo asettico privo di relazioni col mondo circostante. Si pensi alla catena di uomini che hanno dato ordini o ne hanno eseguiti per quanto riguarda il cancerogeno Dicloroetano, il cui
"effetto è noto quanto meno dal 1978 e consiste in un rilevato eccesso di tumori gastrici e di leucemie".
Ora, proseguendo nella logica dei processi giudiziari, se sistemi di monitoraggio sono stati progettati solo nel '92, acquistati nel '95 e posti in funzione nell'estate del '96, bisogna ancora chiedersi: "perché è colpevole chi?", e conseguentemente perseguire tutti i chi. E se l'entrata in funzione di questi stessi sistemi di monitoraggio è dovuta ad una legge "emanata con grave ritardo come spesso è successo in questa materia", bisogna chiedersi il perché di un tale ritardo e chi è o chi sono i responsabili di un così criminale ritardo, e perseguire anche loro, sennò l'indignazione di Casson non rispetta il fondamentale diritto ma le sue opinioni personali. Quindi egli dovrebbe spingersi lungo i fili di una ragnatela di connivenze che va dall'industria alla sanità, dalla stampa all'università, connivenze che hanno evidentemente il placet dell'apparato politico dello Stato. E poi c'è la "cultura" in generale, difficile da individuare in ogni soggetto giuridico, ma altamente colpevole, in base al concetto di concorso morale, perché favorisce un clima sociale e psicologico utile al reato.
Come una qualsiasi direzione aziendale non vive in un vuoto asettico, così la magistratura è parte integrante dell'ambiente sociale in cui vive, ed il suo Codice Penale non è la "tavola della legge" dettata da un'entità esterna. Il Codice Penale della magistratura è lo strumento tecnico che, di volta in volta, si rende indispensabile in relazione alle specifiche esigenze di ordine sociale, vale a dire di controllo e restringimento del campo del disordine sociale entro limiti accettabili per l'insieme della classe borghese e del suo Stato.
La magistratura dello Stato è parte integrante di quella rete di interessi che si sviluppa su una base economica e sociale tessuta da quelle esigenze di valorizzazione del capitale, le quali, indipendentemente dalle volontà soggettive di Tizio o Caio, comportano "rischi socialmente accettabili" in funzione della competitività delle merci sul mercato nazionale ed internazionale.
Se la magistratura potesse essere conseguente e applicare il Codice Penale ai diversi livelli di omicidio colposo aggravato, di istigazione pubblica, di concorso morale, essa sarebbe socialmente asettica e potrebbe perseguire i colpevoli. Non avremmo nessuna rivoluzione lo stesso, ma in compenso si verificherebbe un notevole incremento del Prodotto Interno Lordo attraverso i salari e i profitti generati dall'espansione di un'edilizia carceraria che avvolgerebbe l'intero pianeta.
Coloro che vorrebbero inserirsi "in ogni piccola contraddizione del sistema" per scardinarlo ragionino: Casson può indicare i presupposti di un omicidio colposo, ma non può perseguirli perché nessun codice della magistratura (penale o civile che sia) può perseguire il mercato, la competitività, il profitto, ecc.. Può solo perseguire certi effetti delittuosi di tali presupposti e più precisamente alcuni chi fra i responsabili di tali effetti. Ma che se ne fa la rivoluzione di tutto ciò?
Qualcuno si chiederà: ma allora, nell'attesa di una "completa giustizia" a venire, questi devono intanto farla franca? Non è qui il problema. Nessuno può essere per principio contrario al fatto che qualche pezzo grosso al servizio del Capitale sia messo in condizione di riflettere pacatamente sui morti proletari. Ma non possiamo fare a meno di osservare che, quando inizierà il processo, il 3 marzo prossimo, se sarà più rapida l'individuazione delle responsabilità penali rispetto alle passate stragi del Vajont, di Ustica, ecc., se gli imputati che rimarranno (alcuni per evidenti limiti d'età) saranno riconosciuti colpevoli, allora pagheranno quanto stabilirà la magistratura. Se, a seguito di ciò, essi si "pentiranno", potranno usufruire di tutti gli eventuali benefici di legge, permettendo un più facile avvio delle eventuali cause civili di risarcimento ai parenti delle vittime causate dal Cloruro di Vinile Monomero; ossia delle vittime di Montedison-Enichem (in attesa che il supplemento d'inchiesta verifichi la posizione di EVC). Allora il grande processo avrà dimostrato fino in fondo che dal circolo vizioso della misura secondo le categorie del valore non si esce neppure di fronte al rapporto tra i vivi e i morti. E sarà stabilito il precedente, con valore giuridico per i prossimi morti e i prossimi processi, di quanto vale, in denaro, un proletario che muoia in quelle specifiche circostanze. Con gli interessi arretrati.
E allora non ci si accontenti - in quanto lavoratori salariati, in quanto classe sfruttata - di rivendicare diritti "particolari", perché contro di noi non viene esercitata alcuna ingiustizia "particolare", bensì l'ingiustizia senz'altro ed essa non è descrivibile secondo un linguaggio giuridico e neppure morale, bensì con quello della forza (Marx). Questo particolare tipo di "ingiustizia" non avrà mai fine finché continueremo ad appellarci ad un titolo storico, cioè al diritto di una società che è storicamente data. Non ad un titolo storico, dunque, bensì al titolo umano, dobbiamo appellarci: imparando a rivendicare con forza la nostra prerogativa di uomini che non si trovano in contrasto unilaterale rispetto alle conseguenze, ma in contrasto universale con tutte le premesse del sistema economico, sociale e politico attuale.
Troppo semplicistica e fuorviante la semplice messa sotto accusa dei vari dirigenti succedutisi ai vertici Montedison ed Enichem. Molto più difficile da percorrere - ma unica risolutrice - la strada che non ammette processi e toghe ma condanna per sempre l'intera classe dei borghesi, non solo per omicidio plurimo aggravato, ma per essere ormai una classe inutile alla storia. Lungo questa strada non ci sono mai stati compromessi o confusioni e sarà facile rendersi conto che gli odierni "amici della carne da cannone" faranno fronte comune e si riveleranno quali "amici del mercato della carne da cannone".
Allora, chi ha ucciso i lavoratori colpiti da angiosarcoma epatico? Per essere precisi: chi vuole il mercato?
Note
(66) Edito nel 1982 dalla ETAS Libri.