38. Padania e dintorni (1)
Le manifestazioni politiche della piccola e media borghesia sulla spinta della riorganizzazione incessante del capitale

Dobbiamo parlare di Bossi?

La cronaca trova più agevole occuparsi dei personaggi che non indagare sui fatti che ne determinano le mosse e i discorsi. E Umberto Bossi è uno di quei personaggi talmente congeniali ai media, che questi ultimi si sono buttati in una gara al risparmio sull'analisi. Non c'è dubbio che il personaggio sia portato al "colore"; tutti lo chiamano senatur; tutti lo citano letteralmente nelle sue inflessioni dialettali; tutti se la ridacchiano alle sue smargiassate; un giorno divenne persino famosa la sua canottiera piccolo-borghese. Si era fatto portavoce del federalismo quando a nessuno passava neanche per la testa che esistesse la questione: ora che sono tutti federalisti (chissà come mai) e Bossi parla di secessione in tono truculento, continua ad essere citato più spesso per le sue battute su Brave Heart e sulla cavalleria celtica.

Non è analisi quella di coloro che hanno scoperto nel fenomeno leghista un piccolo business e fanno gli osservatori professionali sul "pericolo secessionista". Essi scoprono semplicemente una nicchia di mercato che permette di vendere consulenze specifiche ai giornali e agli organizzatori di tavole rotonde, e vanno in giro a sondare l'opinione della "gente" trasformandola in dotte disquisizioni statistiche. Non si può neanche chiamare analisi quella degli zelanti magistrati che confrontano la raucedine bossiana col codice penale e vorrebbero addirittura spedire tutti i capi della Lega all'ergastolo. Bossi come profeta, ma ridicolo e fuorilegge. A proposito di profeti: qualcuno ha censito in Europa 230 casi di "regioni" che aspirano ad una autonomia di un qualche genere, dallo statuto particolare alla secessione, ricorrendo ai metodi più disparati, dal legalitarismo culturalistico alla lotta armata. E ognuna ha il suo profeta.

La società dello spettacolo

Quando nel '67 un inquieto francese scrisse cose epiche sulla "società dello spettacolo", era già in ritardo di una ventina d'anni rispetto a ciò che la Sinistra aveva più modestamente chiamato Barnum sociale; oggi il vibrante autore per farsi notare dovrebbe andare almeno da Maurizio Costanzo, tanto la realtà ha superato la sua lirica. Il leghismo, lo studio del leghismo e la reazione al leghismo, coadiuvati da Maastricht, dal problema dei mercati, dalla globalizzazione e da un po' di geopolitica, sono entrati nel grande e perenne talk show. Si è fatta per esempio una grande manifestazione contro la Lega e la secessione, c'erano le ballerine famose, gli attori, i cantanti e i futuri premi Nobel che si struggevano avvolgendosi nel tricolore unitario al suono dell'inno di Mameli. C'erano anche trecentomila persone che applaudivano in piazza commosse. Milioni erano davanti alla Tv. E nessuno ha visto, dietro Bossi, nient'altro che lui stesso, o al massimo qualche birraio bavarese (1). Noi ci vediamo qualcos'altro.

Parliamo quindi di Bossi, della Lega Nord, della profezia secessionista, delle bandiere celtiche, delle corporazioni democratico-fasciste antileghiste, dei distretti industriali, del capitalismo maturo, del supersfruttamento, del rincoglionimento da colcosianesimo industriale, della cosiddetta globalizzazione dei mercati e di che cosa ne dicono di tutto ciò i marxisti.

I lettori che ci conoscono sanno già che invertiremo l'ordine di questo elenco e troveranno ciò che dice Bossi non all'inizio ma in fondo. Del resto non è una novità. In un nostro testo del 1953, in occasione di una battuta di Stalin che aveva destato curiosità attualistiche, si dice che è brutta abitudine buttarsi sul fatto senza sapere da che cosa esso sia provocato:

"Tutti si sono gettati sul punto di arrivo, anziché sul punto di partenza. è questo invece il fondamentale: vi è tutta una schiera di semisciocchi che vuol precipitarsi a ponzare il poi, e che bisogna poderosamente arginare e ributtare indietro a capire il prima, compito certo più agevole, e cui tuttavia non ce la fanno manco pe' sogno. Ognuno che non ha capito la pagina che ha davanti non resiste alla tentazione di voltarla per trovare lumi nella seguente, ed è così che la bestia diventa più bestia di prima" (2).

Partiamo quindi dal semplice e più agevole "prima" per occuparci del complesso e variegato "poi", secondo la struttura di una riunione tenuta da alcuni compagni, su cui la Lettera è basata e che, registrata e trascritta, fu in seguito oggetto di approfondimento nell'ambito di successivi incontri. Con questo lavoro, al solito collettivo, proseguiamo il discorso sulla "questione italiana" da noi più volte affrontato, per esempio nelle Lettere nn. 27, 29 e 32 (3). In esse veniva analizzato il tentativo, da parte della borghesia nostrana, di riorganizzare le proprie forze sotto la spinta della concorrenza internazionale aumentando in primo luogo lo sfruttamento del proletariato. Affrontiamo ora il problema specifico delle reazioni politiche delle mezze classi e di una parte degli industriali del Nord di fronte alla cosiddetta globalizzazione dell'economia e alla ulteriore necessità di aumentare il plusvalore estorto al proletariato nei cosiddetti distretti industriali di punta.

Non si tratta, come sempre, di lavoro accademico. Da tempo il comunismo è dato per morto e sepolto, ma evidentemente il suo spettro continua a disturbare la tranquillità dei borghesi. Non passa settimana che qualche rappresentante (nel senso di commesso viaggiatore) della felicità capitalistica non si senta in dovere di rassicurare i clienti che la sua merce è più buona che mai e che il guastafeste è proprio sotto terra. Questa attività scaramantica dei borghesi ci rallegra alquanto, perché nessun prete si metterebbe ad esorcizzare il demonio se questi se ne stesse buono buono all'inferno. Come miliardi di peccatori vedono senza bisogno di un credo forzato, la vita e le sofferenze sono un fatto reale, sperimentale. Anche l'esigenza di esorcizzare lo spettro del comunismo nasce dalla realtà, dalla vitalità del comunismo stesso. E' compito dei marxisti continuare a trovare ossigeno proprio nella dottrina sperimentata. Se ciò si ottiene soprattutto con la trasmissione del patrimonio teorico alle nuove generazioni, va da sé che questo patrimonio si impone attraverso la verifica sui fatti sociali correnti. Infatti il marxismo può essere mantenuto vivo tramite le "persone" solo perché esso è vivo nei fatti materiali e nel cammino del capitalismo verso la sua catastrofe. Per questo dobbiamo indagare sulle basi materiali dei fenomeni politici, anche quelli apparentemente di poco conto o presentati come tali dall'informazione borghese.

La formula trinitaria della sovrastruttura politica

In un corpo di tesi scritte nell'immediato dopoguerra, nel contesto di uno studio sul variare delle forme esteriori del potere borghese e delle lotte all'interno della classe dominante, la nostra corrente, riprendendo Marx, Engels e il materialismo storico e dialettico, poneva questo classico punto di avvio:

"I fondatori del nuovo metodo teorico sono indagatori scientifici dei dati offerti dalla storia passata e dalla reale struttura della società presente che, sforzandosi di liberarsi in questa indagine da tutte le influenze oscurantistiche dei pregiudizi dei tempi passati, cercano di fondare un sistema di leggi scientifiche capaci di ben rappresentare e spiegare l'evoluzione storica, e, nel senso scientifico e non mistico della parola, di prevedere le grandi linee degli sviluppi futuri" (4).

E in un altro testo, a proposito del metodo:

"Base di ogni ricerca deve essere la considerazione di tutto il processo storico che fin qui si è svolto e l'esame obiettivo dei fenomeni sociali presenti. Il metodo è stato più volte enunciato, ma molto spesso si travia nel corso della sua applicazione. Il fondamento dell'indagine viene portato sull'esame dei mezzi materiali con cui gli aggregati umani provvedono alla soddisfazione dei loro bisogni, la tecnica produttiva, quindi, e con lo sviluppo di essa i rapporti di natura economica. Questi fattori determinano nelle varie epoche la sovrastruttura degli istituti giuridici, politici, militari, e i caratteri delle ideologie dominanti" (5).

Sono centocinquant'anni che si discute su questa benedetta sovrastruttura e probabilmente se ne discuterà ancora. Non è certo il caso, qui, di sviscerare il problema, cosa che del resto è già stata fatta dalla corrente cui ci rifacciamo. Basti ricordare che con il termine sovrastruttura Marx non indica per nulla un qualcosa di secondario rispetto alla società determinata dalla sua storia economica e dai rapporti di classe che ne derivano. Troppe volte abbiamo visto trattare il tema "sovrastruttura" come se fosse un velo superficiale, un belletto, una maschera, un abito che coprono un corpo o addirittura un'apparenza. L'immagine cui possiamo ricorrere è piuttosto quella di un edificio che poggia su fondamenta che non sono immediatamente percepibili anche se sono esse che lo sostengono (6). La concezione di Marx ha carattere dialettico universale: abbattuta la categoria assoluta e prioritaria del pensiero, egli non poteva limitarsi a sostituirla con la categoria altrettanto assoluta e prioritaria della materia. Una volta dimostrato che tutto poggia sulla base materiale, Marx ci mette in guardia sull'importanza dei fenomeni che coinvolgono masse di uomini e che hanno anch'essi effetti materiali pur facendo parte della sovrastruttura. Tali fenomeni non possono non avere natura di classe:

"Non dite che il movimento sociale non è movimento politico! Grida Marx fin dai primi scritti che espongono il metodo del comunismo critico ormai pienamente formato. E aggiunge, in dieci passi, con le stesse parole, la tesi che capovolse tutto un passato e minò le fondamenta di un mondo: ogni lotta di classe è lotta politica. Il precedente teorema che la storia della società è la storia delle lotte di classe può essere accettato dagli attenti analisti scientifici della società capitalistica come i Sombart e compagni; la tesi successiva della lotta politica nel senso marxista di lotta per il potere, lotta con la forza fisica e con le armi, non è accettabile che da rivoluzionari" (7).

Si tratta ora di vedere se anche i conflitti fra le molteplici componenti della borghesia e quelli tra le componenti delle non-classi, conflitti che hanno certamente un fondamento materiale, sono lotta di classe e quindi lotta politica. Per quanto riguarda la borghesia non ci sono dubbi: essendo questa classe l'antitesi del proletariato è evidente che essa lotta in modo complementare. Ogni azione della borghesia in campo economico e sociale è quindi pura lotta di classe. La caratteristica principale delle non-classi è quella di essere trascinate nello scontro fra le due grandi classi antagoniste e di non poter assumere nei loro confronti una politica indipendente. Fin qui siamo nel campo della lotta di classe, che nella citazione di poc'anzi si dice riconosciuto anche da attenti analisti borghesi. Compito nostro è quello di focalizzare la dinamica che ci permette di vedere con sicurezza lo sbocco politico della lotta di classe, quello che, come detto, mette sul tappeto la questione del potere.

Per riuscirvi occorre prima di tutto sapere di che cosa si parla. Occorre cioè, prima di tutto, capire che cosa sono le non-classi di quest'epoca, se esse reagiscono come nel passato o se c'è qualche differenza, se per caso non siano più mescolate e indistinte che mai, se il borghese piccolo è assimilabile al piccolo-borghese e come. Non è per sfizio sociologico o statistico: sappiamo benissimo che il marxismo ha risolto una volta per tutte la questione dei confini di classe (nella moderna teoria degli insiemi verrebbero chiamati fuzzy, sfocati), e che il più moderno paese del mondo sarà sempre un paese composito quanto a struttura classista. Ma ci sono delle differenze storiche nelle determinazioni che guidano il comportamento delle classi intermedie.

Miseria della filosofia elevata a potenza

E' evidente, per esempio, che la piccola borghesia e l'intellighenzia attuali non sono paragonabili qualitativamente a quelle esistenti al tempo della rivoluzione borghese. I grandi capitalisti, invece, rivestono sempre lo stesso ruolo, avendo fatto semplicemente un salto quantitativo nella gestione dei loro affari, anche se il Capitale tende ad espropriarli sempre più, dominando anonimo sulla produzione e riproduzione sociali. Oggi né la piccola borghesia né l'intellighenzia hanno più la possibilità storica di mettersi in anticipo al servizio della rivoluzione, come fecero nel XVIII secolo inneggiando alle conquiste della scienza e della tecnica borghesi. Dipendendo direttamente dal plusvalore estorto alla classe proletaria, le non-classi non possono mai più legarsi ad essa, neppure transitoriamente. Nella prossima rivoluzione non vi saranno e non vi potranno essere né scienziati enciclopedisti come Diderot, né tribuni avvocati come Robespierre, né medici che possano diventare vigorosi scrittori-giornalisti, come Marat, al servizio della classe emergente contro il vecchio regime. Ma non potrà neppure esservi un'alleanza della piccola borghesia e dell'intellighenzia con la grande borghesia industriale e finanziaria che ormai ha troppo bisogno di far confluire nelle proprie tasche una quota sempre maggiore di plusvalore per le esigenze di reinvestimento in cicli sempre più poderosi.

La prospettiva non è più quindi quella di un radioso progresso comune, ma quella di una lotta delle non-classi contro la grande borghesia per la ripartizione del plusvalore estorto al proletariato, il quale sembra confondersi sempre più nel "popolo", partecipando imbelle ai suoi piagnistei contro le vessazioni del "governo" o dello "Stato". Le non-classi potranno oscillare fra una classe e l'altra, come hanno sempre fatto, ma oggi più che mai esse sono costrette a combattere per la propria sopravvivenza, anche perché al proletariato non si potrà estorcere plusvalore a ritmi crescenti infiniti e dunque ci sarà sempre meno da distribuire, come dimostra il passaggio dalle politiche dei redditi alle politiche di indirizzo monetario dell'economia. Il terreno di coltura delle non-classi, un tempo in espansione per via dei grandi processi di accumulazione (e in questo dopoguerra del processo di ricostruzione) oggi è in declino. Tale terreno di coltura viene limitato non tanto dalle periodiche "stangate", che servono a ridistribuire il reddito verso le classi "inferiori" (keynesianamente ad alta potenzialità marginale di consumo), ma soprattutto da un totalitario controllo statale dell'intera economia attraverso la leva monetaria. Tale controllo, perfettamente compatibile con un aumento dell'attività privata, in realtà la manovra in grande stile, come nemmeno le politiche fasciste hanno potuto fare. Il capitalismo, che ormai solo di nome può definirsi "privato", disciplina sempre di più le attività dei traffici individuali. La situazione è tanto più facilmente analizzabile secondo la legge del valore e della ripartizione del plusvalore, quanto più le non-classi sono ormai diventate le maggiori consumatrici di plusvalore senza che offrano una contropartita sociale. E questo lo Stato capitalistico non lo può sopportare.

In Italia, secondo i dati che abbiamo utilizzato nell'ultima Lettera ai compagni, su di un valore complessivo prodotto ex novo ogni anno di 1.700.000 miliardi, vi sono 500.000 miliardi di salari e 1.200.000 miliardi di plusvalore, di cui 835.000 miliardi vanno alla borghesia industrial-finanziaria e 365.000, cioè più del 30% agli strati non produttivi. Questi pochi numeri dimostrano già di per sé che ogni intervento dello Stato per controllare l'economia in vista della crescente concorrenza internazionale, nel prossimo futuro dovrà basarsi in misura ancora maggiore sull'estorsione di plusvalore e su una sua maggior centralizzazione a danno delle non-classi e delle attività produttive marginali, fattori importanti, queste ultime, dell'anarchica polverizzazione del plusvalore.

La pauperizzazione negli Stati Uniti ne è un esempio lampante. Oscillante da sempre, oggi vede gli strati intermedi più tartassati che un tempo dalla selvaggia "politica dei redditi" neoliberista a favore del grande capitale (8). Se la piccola borghesia non è neppure più all'altezza del nanismo dimostrato ai tempi di Marx, quando già aveva perso per strada le antiche grandezze, come possiamo pensare di utilizzare le osservazioni dello stesso Marx contro Proudhon in quanto rappresentante esemplare della piccola borghesia? E' proprio vero che il marxismo è ancora vitale in tutti i suoi elementi o non bisogna forse trovare qualcosa di nuovo, almeno in questo campo?

"Proudhon non critica i sentimentalismi socialisti o le cose che ritiene tali. Egli scomunica come un santo, come un papa, i poveri peccatori e canta inni di gloria alla piccola borghesia e alle miserabili illusioni amorose, patriarcali del focolare domestico. E questo non è un caso. Proudhon è dalla testa ai piedi filosofo, economista della piccola borghesia. In una società progredita e costrettovi dalla propria situazione, il piccolo borghese diventa da un lato socialista, dall'altro economista, cioè egli è accecato dallo splendore della grande borghesia ed ha compassione per le sofferenze del popolo. Egli è borghese e popolo al tempo stesso. Nell'intimo della sua coscienza si lusinga di essere imparziale, di aver trovato l'equilibrio giusto, e avanza la pretesa di essere qualcosa di diverso dal giusto mezzo. Un piccolo borghese del genere divinizza la contraddizione, perché la contraddizione è il nucleo del suo essere. Egli non è altro che la contraddizione sociale messa in azione" (9).

Non si può paragonare Gianfranco Miglio a Proudhon, e neppure Umberto Bossi a Bakunin o Massimo Cacciari ad Andrea Costa. La differenza non sta solo nel fatto che il tempo passato impedisce ai Nostri di esprimersi con il linguaggio politico dei Proudhon, dei Bakunin e dei Costa. A parte il Costa, che divenne poi socialista, l'anarchismo prima maniera produsse l'ultima teoria delle non-classi attraverso quella del non-partito e quella della non-presa-del-potere, mentre i nostri contemporanei non possono produrre proprio nulla, al massimo balbettano qualcosa intorno alla loro condizione esistenziale. Siamo noi che facciamo il confronto e nello stesso tempo la distinzione. Essi vivono la contraddizione individuata da Marx e cercano di esprimerla con parole prese a prestito dalla borghesia, tracciando schemi che sono della borghesia, come la produzione diffusa sul territorio, la sfida alla globalizzazione, le macroregioni economiche ecc. (10). Come lo stesso Marx nota, questo genere di fenomeni dev'essere osservato nella loro dinamica, e i tempi attuali hanno superato di gran lunga il periodo in cui la piccola borghesia produceva teorie.

Prodotti della formula trinitaria

Bossi, che rappresenta il genuino prodotto delle non-classi e che quindi non rinuncia ad avere teorie, non potendo produrne in proprio copia nel catalogo storico. Sconfina in una mistica padana che si sostiene su un minestrone di riferimenti che non hanno nemmeno pretesa di attendibilità. Alberto da Giussano vien fatto convivere con la cavalleria celtica e le leggi commerciali del Medioevo vengono accoppiate con le non-leggi del capitale modernissimo senza frontiere (11). Oggi la parola d'ordine delle non-classi è quanto mai semplificata: giù le mani da quello che possiedo. Ma se la produzione teorica della piccola borghesia è ormai nulla, le ragioni materiali di tutto ciò rendono molto problematico il tentativo di analizzare la funzione delle non-classi alla luce delle conclusioni di Marx:

"Proudhon deve necessariamente giustificare mediante la teoria ciò che egli è nella pratica, ed egli ha il merito di essere l'interprete scientifico della piccola borghesia francese; e questo è un merito reale, perché la piccola borghesia sarà una parte integrante di tutte le rivoluzioni sociali che si stanno preparando" (12).

Questa è un'affermazione difficile da digerire, e per di più riguarda un personaggio che per Marx era ben al di sotto degli utopisti. Già è difficile vedere Proudhon in veste di "interprete scientifico" del proprio strato sociale, ma gli attuali rappresentanti delle mezze classi lo superano di gran lunga in insipienza e non ce la fanno ad elaborare qualcosa che somigli anche solo vagamente al suo impianto programmatico. Com'è possibile dunque al giorno d'oggi riconoscere un "merito reale" a quelli che dovrebbero essere gli "interpreti scientifici" della piccola borghesia vista come "parte integrante" delle rivoluzioni future? Lo scarto temporale di un secolo e mezzo ci impone di delimitare il problema che noi stessi dobbiamo sollevare per capire il leghismo. Definire un Bossi, un Miglio o un Maroni quali interpreti scientifici della piccola borghesia ha senso non in quanto essi siano "scienziati", ma in quanto sono traduttori in linguaggio politico dei messaggi che le mezze classi lanciano attraverso il caotico affannarsi dei loro singoli elementi. Essi sintetizzano dunque un programma che nasce come risultante di spinte in varie direzioni. Per quanto poco estetico venga giudicato dai critici borghesi, questo programma ha grande interesse per i marxisti ed è facile capire perché.

Nelle ultime pagine del Capitale, Marx giunge all'analisi delle classi, ma proprio qui il manoscritto si interrompe. Si intuisce però il contesto in cui egli voleva studiare il problema, perché il capitolo sulle classi è l'ultimo della sezione intitolata I redditi e le loro fonti, e in esso si conclude che una classe non può essere definita attraverso le sue entrate in denaro. La sezione suddetta è densissima e purtroppo i suoi cinque capitoli sono a livello di semilavorato, ma il concetto chiave da cui si parte per giungere alle classi non è equivocabile:

"Capitale-profitto, terra-rendita, lavoro-salario; questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i segreti del processo di produzione sociale" (13).

Sono le tre categorie del valore. Tutto il processo di produzione sociale si può in effetti rappresentare come massa di valore prodotto ex novo e ripartito nella società secondo la formula. La stessa esistenza delle classi moderne dipende da questa formula. Infatti il proletariato produce tutto il valore e i capitalisti se ne appropriano totalmente. Solo una parte ritorna al proletariato sotto forma di salario, mentre l'altra è divisa fra i capitalisti sotto forma di profitto e i proprietari della terra sotto forma di rendita. La formula trinitaria da cui dipendono le classi evidenzia come esse non siano caratterizzate dal loro reddito cioè dalla mera ripartizione del valore, ma da come il valore è prodotto e come esso è accaparrato. Nel capitolo L'apparenza della concorrenza nella stessa sezione, Marx dice chiaramente che qualunque suddivisione avvenga nella massa totale di valore, vi sono dei limiti entro i quali ciò deve avvenire e tali limiti hanno valore di legge. Il salario varia entro i limiti del valore sociale della forza-lavoro in un dato periodo; il saggio di profitto varia entro i limiti del valore storico delle merci, e la rendita entro i limiti dell'esistenza di un sovrapprofitto. Ma se l'ammontare del salario è legato alla "legge naturale" (Marx) della riproduzione fisica del proletario e perciò ritorna tutto, per definizione, a capitalisti e proprietari dopo il ciclo di consumo, i limiti entro cui variano sia il profitto che la rendita possono subìre grandi variazioni. Stabilito come viene prodotto il valore, il modo della sua ripartizione entro le classi non proletarie è la fonte di tutta la politica nelle fasi storiche in cui il proletariato esiste solo come classe in sé e non come classe per sé.

Ora, stabilito a grandi linee il nesso tra le classi principali, e stabilito che con l'aumento della forza produttiva sociale aumenta il numero dei beneficiari di plusvalore all'interno della società, vediamo che aumenta anche il peso di questi ultimi nel tentativo di mantenere la loro condizione. Bisogna anche tener conto che in effetti la ripartizione è più complicata rispetto alla formula trinitaria, come lo stesso Marx sottolinea e come la Sinistra ha più volte ripreso: il plusvalore, oltre che in rendita va anche in interesse e in reddito delle categorie improduttive, in spese passive e in una quantità enorme di energia sociale sprecata. Ma per quanto la formula trinitaria possa essere da noi complicata, essa non può essere assolutamente cambiata.

Quando la ripartizione incomincia ad interessare troppi soggetti e soprattutto quando di plusvalore se ne produce troppo poco relativamente al capitale anticipato (diminuzione del saggio di profitto), ecco che si pongono tutte le condizioni per una battaglia politica. Ed ecco che viene posta deterministicamente anche l'esigenza di programmi, i quali si sostengono su teorie, non importa se originali o rimasticate. Non è un caso che tra le teorie, nell'ambito del fermento delle mezze classi, siano state raccolte più quelle del popolano Bossi (parole sue) che quelle dei filosofi alla Miglio, alla Cacciari o, come vedremo in seguito alla Berlusconi.

Non è un caso perché il fumetto storico-mistico-tavernesco bossiano è più legato alla realtà dei destinatari che non tutta la filosofia dei Miglio e dei Cacciari. Bossi, come dice Marx, "deve necessariamente giustificare nella teoria ciò che egli è nella pratica" e nella pratica egli è il vero rappresentante di quella parte sociale che vede in pericolo ciò che possiede, ciò che ha raggiunto e che sente minacciato. Se è vero che le semiclassi saranno parte integrante delle prossime rivoluzioni (oggi useremmo il singolare), ciò può essere soltanto dovuto al fatto sottolineato dallo stesso Marx:

"Gli uomini non rinunciano mai a ciò che essi hanno conquistato, ma ciò non significa che essi non rinuncino mai alla forma sociale in cui hanno acquisito determinate forze produttive. Tutto al contrario. Per non essere privati del risultato ottenuto, per non perdere i frutti della civiltà, gli uomini sono forzati a modificare tutte le loro forme sociali tradizionali non appena il modo delle loro relazioni non corrisponde più alle forze produttive acquisite" (14).

D'accordo, Marx parla dell'umanità intera, ma è certo che la paura di perdere i risultati raggiunti vale ancor di più nell'ambito egoistico di una mezza classe, tenendo conto che nel movimento leghista sono rappresentate anche componenti della borghesia industriale minore. Al posto delle teorie contraddittorie di semiclassi che pencolano fra borghesia e proletariato, abbiamo quindi una pura e semplice lotta per la sopravvivenza condita tutt'al più con vaghi riferimenti presi a prestito dalla storia altrui, come quello alla marcia del sale gandhiana (15).

I comunisti e le mezze classi

La disperazione del piccolo borghese è reale, perché mai come oggi egli è rimasto solo, senza possibili alleati sulla scena. La grande borghesia vorrebbe le mezze classi schierate con ogni movimento politico che garantisce la conservazione dei suoi interessi, ma sarebbe come chiedere di schierarsi con chi deve prima o poi tartassarle. D'altra parte, le mezze classi partecipano allo sfruttamento del proletariato e, ammesso e non concesso che siano passibili di proletarizzazione come un tempo, non possono vedere in esso un potenziale alleato, dato che è assente dalla scena come classe per sé. Cade quindi anche ogni possibile azione pratica dei comunisti nei confronti delle non-classi. In un momento di dispersione massima delle energie proletarie, di mancata polarizzazione verso precisi obiettivi, di mancanza del partito in grado di "rovesciare la prassi", è impossibile vedere applicata la prospettiva classica del movimento operaio di un tempo:

"Di fronte agli elementi dei ceti intermedii, noi non possiamo avere altra attitudine che dire ad essi: 'Voi siete i proletari di domani e quindi dovete solidarizzare con l'ascensione del proletariato', senza peraltro sperare che una simile propaganda possa avere un largo successo perché nei ceti medii predomina lo spirito individualistico, e nella grandissima maggioranza tutta questa gente aspira a poter ascendere un giorno all'Olimpo dei padroni borghesi: noi possiamo dir loro soltanto: 'Ricordatevi che voi cadrete nel proletariato, che dalla stessa tendenza monopolizzatrice del capitale siete sospinti verso il proletariato, e che quindi più il proletariato sarà avanzato, più sarà in grado di conquistare la propria indipendenza economica, e meglio sarà anche per voi" (16).

Un fenomeno generalizzato di proletarizzazione degli strati intermedi, presi nel loro insieme, è oggi impossibile anche a causa del crescente limite di applicabilità del lavoro umano al processo produttivo. Tale fenomeno si sta verificando sempre più anche per quanto riguarda il settore dei servizi. Perciò la proletarizzazione classica è sostituita da una generalizzata perdita di "reddito", dovuta a sottrazione di plusvalore dallo specifico strato sociale intermedio. Le cose stanno diversamente per quanto riguarda quella parte dello strato intermedio che si colloca piuttosto nella fascia alta dei salariati, come progettisti, organizzatori, tecnici in genere. Tale fascia può essere danneggiata dalla concorrenza di tecnici e addetti ai servizi provenienti da paesi di nuovo sviluppo o là operanti oppure da quella delle nuove leve di tecnici locali che accettano di lavorare per salari enormemente più bassi, come ormai sancisce una legislazione comune a tutti i paesi sviluppati. Perciò:

"Di fronte alla intellighenzia, diversamente si precisa l'atteggiamento del proletariato. Il proletariato rivoluzionario non si dissimula affatto la necessità di avere i tecnici e gli intellettuali con sé i quali dovranno essere i suoi alleati indispensabili, i quali riceveranno parallelamente tutti i vantaggi che il proletariato si conquisterà. Il proletariato deve insistere nel far presente che l'organizzazione delle forze produttive in senso comunista non reprime con la violenza le funzioni tecniche, culturali, intellettuali che nella società presente sono calcolate pura mercanzia che i ceti intellettuali vendono nell'interesse del profitto capitalistico. Essi si convinceranno dell'errore secondo cui i ceti intellettuali possono essere potenziatori e formatori di sistemi. Quindi anche in questo senso ideale gli elementi della intellighenzia dovrebbero avvicinarsi al proletariato, persuadendosi che la cultura è essa stessa un prodotto delle formazioni economiche nuove. Ma il proletariato non dimenticherà il predominio delle influenze ideologiche borghesi che su questi elementi si esercita potentemente, e quindi si preparerà a combatterli quando nel momento culminante del conflitto essi avranno preso una posizione definita; cioè li utilizzerà nella misura in cui essi si renderanno compartecipi alla produzione e lavoreranno a fianco del proletariato per il consolidamento di un ordine nuovo economico".

Queste citazioni del 1925 sono naturalmente legate ad un'epoca in cui il movimento proletario internazionale contava enormemente più di oggi; ma rimane inalterata la loro validità rispetto alle condizioni materiali soggiacenti alla prassi degli strati sociali. In ogni modo le mezze classi o le non-classi possono essere ben analizzate in rapporto all'effettiva proletarizzazione. Contadini, intellettuali, bottegai, professionisti autonomi, artigiani, ecc. che intascano plusvalore come prodotto di attività autonoma, vanno schierati da una parte; tutti i salariati che non producono plusvalore come insegnanti, amministrativi, tecnici dei servizi ecc. vanno schierati da un'altra. Questa divisione non può avere carattere ideologico perché il "pensiero" non corrisponde all'appartenenza di classe e l'ideologia dominante coinvolge pesantemente anche i proletari puri (17).

Insofferenza verso il controllo economico statale

In questa realtà i piccoli e piccolissimi industriali sono numerosi. Dieci anni fa le Partite IVA erano 2 milioni; salirono in seguito a cinque milioni dopo i massicci licenziamenti dall'industria e le relative liquidazioni e incentivazioni che provocarono un'ondata di "consulenze" (in realtà lavoro irregolare), per giungere ai 3,5 milioni di oggi. Si calcola che le attività industriali minori siano disperse in almeno 2 milioni di "ditte" produttrici. Ognuna di esse vive nel terrore di essere espropriata o dai concorrenti più grossi o dall'impossibilità di accedere al credito, tradizionalmente facilitato per la grande industria e i settori di punta attraverso sistema di aggancio con i canali dello Stato. Da quest'ultimo punto di vista le posizioni dei grandi industriali e dei medio-piccoli sono assolutamente incompatibili, gravide di scontro. Solo che i piccoli sono del tutto impotenti di fronte al meccanismo che ormai è storicamente consolidato:

"La classe dominante, sempre soggetta al dinamismo della concorrenza tra ditte imprenditrici, quando si sente sulla soglia della rovina trova alla concorrenza un limite nei nuovi schemi monopolistici, e dalle sue grandi centrali dell'affarismo bancario decreta la sorte delle singole imprese, fissa i prezzi, vende sotto prezzo, quando convenga al raggiungimento dei suoi scopi, fa oscillare paurosamente valori speculativi, e tenta con sforzi grandiosi di costituire centrali di controllo e di infrenamento del fatto economico, negando la incontrollata libertà, mito delle prime teorie economiche capitalistiche. Per intendere il senso dell'estremo sviluppo di questa terza fase del capitalismo mondiale, si deve, seguendo Lenin, porla in rapporto al corrispondente svolgimento delle forze politiche che l'accompagna, fissare il rapporto tra capitale finanziario monopolistico e Stato borghese, stabilire le sue relazioni con le tragedie delle grandi guerre imperialistiche e con la tendenza storica generale alla oppressione nazionale e sociale" (18).

Su queste basi abbiamo sempre affermato che l'attuale apparente ciclo di liberalizzazione dei meccanismi di mercato non intacca minimamente l'essenza del capitalismo moderno, che è per sua forza storica giunto al massimo livello totalitario:

"Non è pensabile un'autonomia di iniziative nella società che dispone della navigazione aerea, delle comunicazioni radio, del cinema, della televisione [e le reti telematiche, e le borse full time, e le migliaia di satelliti, e la finanza globale ecc.], tutti ritrovati di applicazione esclusivamente sociale. Anche quindi la politica di governo della classe imperante, da vari decenni a questa parte e con ritmo sempre più deciso, si evolve verso forme di stretto controllo, di direzione unitaria, di impalcatura gerarchica fortemente centralizzata" (19).

A tutto questo si contrappongono gli interessi di coloro che sono stritolati dal sempre maggiore controllo del fatto economico. Le forze centrifughe possono riferirsi alle teorie storicamente superate dell'economia liberale, oppure ad altrettanto superati modelli nazionalistici o addirittura localistici irredentisti, ma non possono che sottostare alla logica della dominazione reale del Capitale. Perciò il piccolo borghese non è più "accecato dallo splendore della grande borghesia" come diceva Marx, ma, nel processo storico che traduce in farsa le grandi tragedie del passato, egli è semplicemente invidioso della classe più potente ed è infuriato per la tracotanza economica e politica che questa dimostra quotidianamente verso l'intera società.

Non ha più "compassione per le sofferenze del popolo" in generale, ma distingue all'interno dello stesso i nemici e gli alleati. Da una parte i nemici, pericolosi concorrenti, nelle vesti di quella frazione del proletariato che non vuole "rinunciare ai risultati raggiunti", quella che si aggrappa al sistema corporativo statale con i suoi partiti "romani" nell'illusione di opporsi, con ciò, all'estorsione di sempre maggiore plusvalore (che così può sempre meno essere distribuito verso il basso). Dall'altra gli alleati, cioè la frazione proletaria disposta a farsi supersfruttare in nome di un corporativismo localistico che provoca una mostruosa simbiosi d'altri tempi tra padroncino e operaio.

In Italia, le diatribe sulle pensioni dei proletari hanno dimostrato con chiarezza quanto la piccola borghesia sia sensibile, consciamente o meno, ai grandi movimenti di plusvalore all'interno della società. E' infatti ovvio che la pensione del proletario è salario differito nel tempo, ma se essa si abbassa come il salario di chi entra o rientra nel ciclo lavorativo oggi, quel che avanza diventa plusvalore immediato. Alla fine, come perfettamente previsto dalle nostre tesi del dopoguerra, sulle grandi questioni dell'economia hanno vinto ancora una volta senza battere ciglio i grandi capitalisti. Ciò è ben dimostrato dalla compagine governativa keynesiana e totalitaria uscita dall'incertezza della crisi politica del 1992-94. E i piccoli capitalisti, mescolati col "popolo" padano, si sono infuriati nel vedere la loro autonomia ridursi grandemente.

Sia in campo internazionale che all'interno dei singoli paesi, esistono quindi grandi poli di attrazione formati dai maggiori centri capitalistici, cui sono soggette le forze capitalistiche locali. Non esistono gruppi sociali specifici che possano proiettare una loro forza autonoma sull'insieme: le aspirazioni indipendentistiche, più che fattore sociale, sono il sottoprodotto di condizioni subordinate. Nel dopoguerra, quando forze nazionali e irredentistiche locali infiammavano la politica quotidiana, coinvolgendo purtroppo anche il proletariato, invischiato nella politica dei grandi partiti di sinistra democratica, dicevamo:

"Nei rapporti sociali tra le classi, nel gioco delle forze di produzione, che cosa è cambiato nella repubblica jugoslava da quando Tito era figlio prediletto di Mosca, e dopo la sconfessione? Niente, un accidente di niente. E del resto che cosa cambiò quando in ventiquattro ore si venne a sapere da Belgrado, prima, che il governo si schierava contro l'Asse, poi che passava a suo favore (Aprile 1941)? Sono i campi di forza dei grandi potenziali imperiali che determinano tali mutamenti, non contrasti sociali e politici locali, e ciò perché quei potenziali derivano da tutto il complesso delle forze produttive e sociali nel mondo, dall'interesse della classe capitalistica e dalle violente reazioni che le contraddizioni economiche sollevano contro di lei" (20).

Questa nostra analisi si appoggia robustamente alle considerazioni finali del libro di Lenin sull'imperialismo, là dove si critica la posizione secondo cui l'imperialismo sarebbe un semplice "intreccio mondiale di interessi". La dominazione mondiale del capitale finanziario e dei centri imperialistici è molto di più: è l'effetto della socializzazione mondiale della produzione e del dominio del Capitale su scala conseguente.

Note

(1) La canottiera di Bossi aveva riempito i giornali in occasione di un incontro con Berlusconi in una delle sue case in Sardegna; le 230 regioni sono citate da Philippe Séguin, presidente del parlamento francese ("Contro l'Europa feudale", Limes n. 3 del 1996); il professionista esperto in leghismo è Ilvo Diamanti; il vibrante autore de La società dello spettacolo (ed. Vallecchi) è Guy Débord (un tipo modesto: "Nel 1967 io volevo che l'Internazionale situazionista avesse un libro di teoria"); la ballerina famosa è Carla Fracci; il futuro premio Nobel è Dario Fo. La Lega era stata accusata (dal senatore Saverio Vertone) di connivenza con circoli indipendentisti di Monaco di Baviera e di riceverne finanziamenti (cfr. "L'oro del Reno? Finanza tedesca e Lega Nord", Limes n. 4 del 1997).

(2) A. Bordiga, Dialogato con Stalin, cap. "Giornata prima, domani e ieri", Ed. Quaderni Internazionalisti.

(3) Cfr. Elenco delle Lettere sul Catalogo delle edizioni Quad. Int.

(4) "Il ciclo storico del dominio politico della borghesia", in L'assalto del dubbio revisionista ai fondamenti della teoria rivoluzionaria marxista, edizioni dei Quaderni Internazionalisti.

(5) Tracciato d'impostazione, ed. Quad. Int.

(6) "L'insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale" (Marx, Per la critica dell'economia politica, Ed. Riuniti pag. 5). Poco oltre Marx dice che il cambiamento rivoluzionario della base economica sconvolge anche le forme della coscienza, le quali fanno parte della "gigantesca sovrastruttura". Engels sarà più volte costretto a ribadire, contro il materialismo volgare, che se la forza delle singole volontà non conta nulla nei processi storici, la loro risultante non può essere sempre e comunque ritenuta uguale a zero. Perciò, se i fenomeni sociali vanno sempre valutati in base alle loro determinazioni economiche, non si deve dimenticare che il movimento molecolare delle volontà singole può essere a sua volta un potente fattore materiale (cfr. la lettera di Engels a Bloch del 21 settembre 1890, Sul materialismo storico, ed. Iskra pag. 22).

(7) "Movimento sociale ecc.", in Tendenze e socialismo, ed. Quad. Int.

(8) In questo campo vi sono statistiche interessate: il confronto 1997 su 1996 dell'occupazione e del reddito della middle class americana (categoria a reddito medio) ci dice che in un anno i posti di lavoro di questa fascia sono saliti del 15% e che ognuno che abbia trovato un posto nuovo l'ha avuto per un reddito del 20% superiore a quello precedente. Mettiamola così: nei 10 anni precedenti la produttività dei servizi è aumentata del 100% grazie soprattutto ad un feroce piano di licenziamenti; i salari reali sono diminuiti fino alla metà; ne consegue che chi ha trovato un posto migliore ha avuto un aumento del 20% rispetto ad un salario dimezzato in precedenza. Per converso, pochissimi boss di grandi compagnie, sono stati profumatamente pagati perché ottenessero tutto ciò: il primo in classifica era Steven Ross, di Time-Warner, che aveva uno stipendio di 78 milioni di dollari all'anno all'epoca del "risanamento" (1992). Quest'anno è stato superato da Sanford Weill di Travelers Group con 230 milioni.

(9) Da una lettera di Marx ad Annenkov, 28 dicembre 1846.

(10) I termini produzione diffusa, territorio produttivo, distretto o comprensorio industriale e anche macroregione saranno in questa Lettera utilizzati tutti come sinonimi di area integrata di produzione ad alto saggio di plusvalore, indipendentemente dalle caratteristiche specifiche.

(11) Cfr. Nota allo schema leghista posto all'inizio del capitolo quinto.

(12) Marx ad Annenkov cit., continuazione dello stesso paragrafo.

(13) K. Marx, Il Capitale, Libro III, ediz. Utet pag. 1004.

(14) Ibid., qualche pagina prima.

(15) Nel 1930 Gandhi organizzò una marcia fino al mare dove fu simbolicamente ricavato un po' di sale in spregio al monopolio inglese.

(16) Questa citazione e quella successiva sono tratte da La funzione delle classi medie e dell'Intelligenza, conferenza di A. Bordiga all'Università popolare di Milano, in "L'Unità" del 24 marzo 1925 (riassunto redazionale).

(17) Alle ultime elezioni politiche un'analisi del voto leghista evidenziava che il 65% degli elettori della Lega Nord è composto da salariati.

(18) Da "Il ciclo storico dell'Economia Capitalistica", in L'assalto del dubbio revisionista ecc. citato.

(19) Da "Il ciclo storico del Dominio politico della Borghesia", in L'assalto del dubbio ecc. cit. A questo proposito cfr. il libro Lo Stato introvabile, modernità e arretratezza delle istituzioni italiane, di Sabino Cassese, ex ministro della Funzione Pubblica e docente di diritto amministrativo. L'autore sostiene la tesi che questa "impalcatura gerarchica fortemente centralizzata" è destinata a morire. Il controllo statale, peraltro sempre più necessario, si complica al punto di diventare incontrollabile: il sovrapporsi di controlli periferici che tentano di porre rimedio all'inefficienza centrale provoca un vero e proprio suicidio di questo "medioevo istituzionale" che si autosoffoca. Ecco per Bossi una tesi elegantemente elaborata da uno che se ne intende (ampia recensione su La Repubblica del 9 marzo 1998 e intervista all'autore in Lampi di primavera, Rai3, archivio Quad. Int.).

(20) "Il proletariato e Trieste", in Battaglia comunista del 19 aprile 1950, ora in Fattori di razza e nazione, ed. Quad. Int.

Lettere ai compagni