38. Padania e dintorni (2)
Le manifestazioni politiche della piccola e media borghesia sulla spinta della riorganizzazione incessante del capitale

L'irreversibile ciclo storico del capitalismo e i suoi cicli locali

Nel capitolo del Capitale sul macchinismo, Marx introduce diverse pagine sulla legislazione industriale inglese. Si tratta, egli dice, della prima, sistematica reazione della società capitalistica alle forme spontanee di supersfruttamento e di caos che nascono durante il processo produttivo. La legislazione specifica per l'industria è un prodotto necessario della moderna produzione non meno dei telai automatici, dell'elettricità e del telegrafo. La socializzazione della produzione produce quindi una interazione continua fra lo sviluppo delle forze produttive e i risultati sociali che ne derivano. Ma il risultato più grande è che la legislazione sancisce la trasformazione rivoluzionaria (e dolorosa) già avvenuta del nucleo produttivo di base, l'azienda:

"Il rivoluzionamento del modo sociale di conduzione dell'azienda, questo prodotto necessario del rivoluzionamento del mezzo di produzione, si compie in un groviglio variopinto di forme di trapasso. Esse cambiano con l'estensione in cui, e l'arco di tempo nel quale, la macchina si è già impadronita di questo o quel ramo d'industria, con la condizione preesistente degli operai, col prevalere dell'azienda manifatturiera, artigiana o domestica, ecc." (21).

Il groviglio variopinto delle forme non è quindi il dato importante per Marx. L'essenziale è il rivoluzionamento sociale del modo di conduzione dell'azienda, definita come prodotto necessario quanto rivoluzionario di questo modo di produzione. La legislazione finisce per adeguarsi alle forme più avanzate e colpire le più arretrate, a meno che esse non siano funzionali alle prime: per questo la redazione delle leggi "permette ai capitalisti di evaderle facilmente", dato che i più arretrati oppongono "una fanatica resistenza alle clausole che li grava di una spesa tuttavia più che modesta".

Nonostante le forme apparentemente specifiche, quindi apparentemente degne di studio, il dato importante è ciò che non varia caso per caso, ciò che ci permette di centrare il vero nocciolo del problema. Solo in questo modo possiamo individuare l'erompere non tanto della lotta di classe - che anche i borghesi meno fessi riconoscono - ma la lotta fra le vecchie forme, responsabili del freno allo sviluppo delle forze produttive, e quelle nuove, ovvero quelle su cui si innesterà la lotta politica del proletariato per il potere. Ecco come, poche pagine dopo, continua Marx:

"Le forme variopinte e pittoresche apparentemente sconnesse e fossilizzate del processo di produzione sociale si sono risolte in applicazioni, coscientemente pianificate e sistematicamente distinte a seconda dell'effetto utile perseguito, delle scienze naturali. La tecnologia ha scoperto le poche grandi forme fondamentali del moto in cui ogni azione produttiva del corpo umano si risolve malgrado la varietà degli strumenti impiegati, esattamente come dalla massima complicazione del macchinario la meccanica non si lascia trarre in inganno sulla costante ripetizione delle potenze meccaniche semplici. L'industria moderna non considera né tratta mai come definitiva la forma esistente di un dato processo di produzione. La sua base tecnica è quindi rivoluzionaria" (22).

Che si esamini un enorme e capitalisticamente giovane paese come la Cina, o che si esamini una piccola regione in particolare sviluppo all'interno di un paese qualsiasi, le valutazioni da fare sulle prospettive sono quindi le stesse: al di là delle forme "variopinte", alla fine sarà solo e sempre portata ad un livello superiore la forza produttiva sociale con l'ausilio dell'applicazione sistematica della tecnologia. Marx nei Grundrisse, nell'Introduzione del 1857 a Per la critica dell'economia politica e nel Capitale, poi Engels nell'Antidühring, prendono in esame il processo di sviluppo del capitalismo e sottolineano la differenza sostanziale tra quello maturo e quello in via di maturazione. Entrambi concludono che la questione si era posta storicamente una volta per tutte e che al loro tempo non esisteva più capitalismo in via di maturazione, esistevano solo paesi in cui il capitalismo doveva penetrare e mettere radici.

Dove il Capitale agisce nella forma più moderna

Quello che si percepisce come capitalismo immaturo non è altro che capitalismo quantitativamente poco sviluppato, perché la tecnologia e il livello delle scienze naturali sono dati per tutto il mondo. Una banca, un'acciaieria o una casa di software impiantate oggi in Indonesia o in Thailandia, ma anche un libro di fisica per le scuole, non sono qualitativamente diversi da una banca, un'acciaieria, una casa di software o un libro di fisica americani moderni (23). Né sono diverse le relazioni in cui stanno tra loro e con i concorrenti esteri. C'è più tecnologia nelle torri gemelle da Guinnes di Kuala Lumpur che in quelle, più vecchiotte, di New York, e servono allo stesso scopo: contenere uffici per i traffici modernissimi di merci e capitali. Ogni capitalismo quantitativamente poco sviluppato ha allora solo due possibilità: o raggiungere livelli quantitativi superiori per reggere la concorrenza, o essere spazzato via da un concorrente più forte in cerca di penetrazione ovunque convenga nel pianeta. Se perciò sono già chiare le modalità dei processi di penetrazione del capitalismo giunto alla sua fase suprema, è invece meno scontato valutare gli effetti di questa penetrazione e i riflessi sul cervello di coloro che ne sono coinvolti. Ciò perché la "politica" è una conseguenza determinata da questi riflessi ed entrambi hanno origine in ultima analisi nel consolidarsi del Capitale così com'è già storicamente divenuto.

Così com'è storicamente divenuto. Bisogna sottolineare questa espressione per capire meglio l'assunto di Marx ed Engels. Quest'ultimo dà una descrizione cristallina del processo che porta i prodotti di artigiani e contadini a diventare vere e proprie merci (24). Dapprima ogni produttore scambia il proprio prodotto con i prodotti altrui, quindi produzione ed appropriazione non sono atti separati. Solo con la produzione su scala più vasta e con la manifattura si viene a stabilire questa separazione. A poco a poco la produzione è finalizzata al mercato e non al consumo individuale, proprio o di altri. Se anche parte della produzione viene consumata dal produttore, questo rimane un fatto marginale. Il fatto principale è la produzione per un vasto e anonimo mercato: vi è rottura completa non solo fra il produttore e il consumatore, ma soprattutto, con il lavoro salariato, anche fra il produttore e il suo prodotto.

Con lo sviluppo della manifattura e della fabbrica moderna, le singole fasi di lavorazione non sembrano più avere attinenza fra di loro e gli operai stessi non hanno più coscienza della qualità finale della merce in quanto valore d'uso per altri. Nello stesso tempo ogni fase di lavorazione, che sembra isolata agli occhi dell'individuo, è invece parte del lavoro sociale complessivo e così ogni merce e l'intero movimento delle merci.

Giungiamo in questo modo, già ai tempi di Marx, all'effettuarsi della sottomissione reale del lavoro al Capitale, quindi al dominio reale di quest'ultimo sull'intera società e sul mondo. Questo processo è la rottura totale e definitiva dell'autonomia personalizzata nella produzione e riproduzione della specie umana: dei produttori, dei compratori, dei capitalisti e anche delle società chiuse nei confini delle vecchie nazioni. L'unico soggetto ad avere autonomia reale è il Capitale. Ciò spiega materialisticamente anche le conseguenze pratiche prese in considerazione all'inizio di questa Lettera, cioè i comportamenti delle classi in relazione al comportamento del Capitale.

Si tratta di un fenomeno generalizzato al massimo. Anche se ci spostiamo nelle aree in cui il capitalismo è penetrato poco, quelle comunemente chiamate arretrate o in via di sviluppo, vediamo che, terminato ormai da tempo il ciclo classico delle rivoluzioni nazionali borghesi e quello delle lotte di liberazione coloniale, si formano poli di attrazione di capitali moderni, dove nasce prima di tutto la banca e dopo seguono le attività industriali e commerciali locali. E' inevitabile che qui i movimenti sociali dipendano sempre più dagli effetti indotti dall'azione del Capitale internazionale. Specificamente a proposito di queste aree più volte abbiamo citato il quasi-automatismo fra gli interventi del Fondo Monetario Internazionale e le rivolte, specialmente urbane, di molti paesi. Queste rivolte hanno sempre avuto aspetti rivendicativi contro il governo centrale e contro i centri stranieri "sfruttatori e imperialisti".

Nonostante questi moti non siano quasi mai proletari puri ma "popolari", essi non devono essere trattati secondo un'ottica indifferentista tipica dell'operaismo soprattutto europeo. Noi riteniamo importanti i moti delle "masse oppresse" proprio perché gli effetti indotti in quelle aree non sono dovuti alla loro condizione di arretratezza (la quale ha un suo equilibrio che può essere millenario), ma all'impatto con il capitalismo moderno, che espropria i piccoli produttori senza riuscire a trasformarli tutti in salariati. Questi ultimi poi vengono supersfruttati in condizioni assolutamente precarie, dato che un qualsiasi movimento internazionale di capitali può gettarli fuori dal ciclo produttivo locale.

Nei paesi sviluppati la reazione ai movimenti di capitali si manifesta attraverso un dato sensibile che però non rappresenta la realtà nella sua completezza: l'impressione soggettiva del leghista di turno o del piccolo industriale che opera in una zona ad alta densità produttiva e commerciale, è unicamente quella di produrre capitale tramite capitale originale proprio: dané o sghei fatti col sudore proprio e dei propri bravi operai, soldi aumentati attraverso sacrifici che hanno permesso investimenti, spinte sul mercato estero ecc. ecc.; mai e poi mai l'individuale produttore riuscirebbe a percepire di essere un microscopico tramite, fra migliaia, del capitale mondiale (lavoro passato, morto) che ha bisogno, per valorizzarsi, di fissarsi da qualche parte in attività produttiva (lavoro vivo), la quale, a sua volta, si traduca in plusvalore. La visione ristretta, soggettiva, del capitalista locale e di coloro che vivono nell'ambiente che lo circonda, partorisce campanilismo, anche se alla fine le merci da essi prodotte e commercializzate hanno destinazioni internazionali. Anzi, più si internazionalizza il mercato del singolo produttore, più questi pretende che gli altri tengano giù le mani da quelli che egli vede come grandi e misconosciuti meriti, più pretende di decidere sull'uso dei risultati così faticosamente ottenuti.

Ribellione locale al Capitale mondiale

Questa sorta di egoismo sociale, derivato da forme di rendita o profitto differenziale, porta direttamente a manifestazioni politiche contraddittorie, pencolanti fra il becero localismo e le teorizzazioni sui distretti produttivi internazionalizzati, cioè ormai slegati dalle frontiere degli Stati-nazione. Perciò, se la proliferazione di movimenti autonomisti a base irredentista o etnica o semplicemente localistica fa pensare, lì per lì, a reazioni anarcoidi e atomizzate un po' fuori moda nei confronti delle decisioni macroeconomiche degli Stati, esse sono invece dovute alla marcia inesorabile del capitale internazionale, insofferente di ogni barriera nazionale, ma nello stesso tempo bisognoso di fissarsi sul territorio adatto, di trasformarlo ai propri fini, anzi di costringere gli stessi abitanti a trasformarlo, nella speranza di attrarre sempre più capitali, produrre sempre più, esportare sempre più.

Vi sono quindi analogie fra i molti episodi che scaturiscono dall'impatto del capitale internazionale con le realtà sociali locali. Se i fatti sociali non sono mai paragonabili meccanicamente, specie fra paesi molto diversi come storia e sviluppo, è però certo che di fronte all'avanzare del Capitale tutti i soggetti che tendono ad esserne tartassati o addirittura distrutti si ribellano, rivendicando potere decisionale locale, autodeterminazione economica e indipendenza da centri sospetti di attività vampiresche nei loro confronti. Va da sé che di libero e indipendente nel capitalismo moderno c'è ben poco. Gli Stati nazionali tollerano alcune insignificanti extraterritorialità per una limitata autonomia dei singoli borghesi dai sistemi legislativi e fiscali nazionali o per l'installazione di qualche casinò; per il resto devono rigorosamente limitare libertà d'azione ai capitalisti. L'unico ad essere libero è il Capitale che, incurante di ogni barriera, muove anche i paesi più importanti e potenti ai suoi dettami.

Per reazione, i movimenti locali, nello stesso tempo in cui si riempiono la bocca con la globalizzazione, rivendicano la gelosa auto-amministrazione delle proprie risorse, proprio come ai tempi dei produttori autonomi che scambiavano merci con altrettanti produttori autonomi. I teorizzati distretti produttivi e commerciali, in collegamento tra loro al di sopra dei vecchi confini nazionali, e definiti con nomi altisonanti vagamente internazionalisti come "macroregioni europee" e simili, evocano più le leghe commerciali nordiche medioevali (Hanse), nate per stabilire il loro monopolio e per suddividere i rischi, che non le moderne esigenze del capitale fissato in particolari poli di attrazione.

Alla fin fine gli attuali leghisti "anseatici" di ogni tipo traggono, da moderne condizioni, antiche e non pertinenti teorie. Il fissarsi del capitale in determinati poli di sviluppo non è una semplice questione di produttività, di numero di fabbrichette o di import-export, ma di relazioni complesse con il capitale mondiale, che si muove sulle reti telematiche alla velocità della luce senza che nessuno abbia più la possibilità di controllarlo. Lo Stato moderno non è il padrone del capitale ma il suo servitore. Pretendere che la produzione e riproduzione della società non sia sottomessa allo Stato è come pretendere che non sia sottomessa al Capitale. E' vero che un tempo la questione era rovesciata, che il Capitale era sottomesso alla produzione. Ma si trattava del capitale commerciale individuale, scaturito da merci prodotte ancora in modo individuale, che si accresceva certo attraverso lo scambio di valori, ma ancora di più attraverso la rapina. Tutto ciò fa ormai parte del tempo che fu, ben descritto da Marx nei Grundrisse:

"Sviluppo autonomo e prevalente del Capitale in quanto capitale commerciale significa mancata sottomissione della produzione al Capitale, quindi sviluppo del Capitale sulla base di una forma sociale della produzione ad esso estranea e da esso indipendente. Lo sviluppo autonomo del capitale commerciale sta dunque in ragione inversa allo sviluppo economico generale della società" (25).

In ultima analisi non ci troviamo mai di fronte ad un capitale locale che si autonomizza nei confronti del capitale nazionale od internazionale ma, al contrario, ci troviamo sempre di fronte ad un capitale locale che sta per perdere l'ultima parvenza di autonomia e si infuria. Anche se i portatori di questo disagio sono piccoli e medi industriali (quelli grossi hanno già reso obsolete le frontiere grazie al processo a-nazionale di formazione del proprio plusvalore), la ristrettezza della visione locale li precipita nel tipico processo mentale piccolo-borghese, che è nemico della dinamica altamente distruttrice del capitalismo nei confronti delle vecchie forme. Nemico quindi per antonomasia delle nuove forme, conseguentemente nemico di ogni processo rivoluzionario moderno.

Il bello è che lo sviluppo locale, quello che fa parlare di boom economico, cioè il passaggio da livelli "normali" a livelli modernissimi di creazione di plusvalore, è impossibile, oggi, senza una strettissima relazione con l'esterno. Se anche non ci fosse bisogno in modo diretto di capitale esterno, nel senso di spostamento di soldi altrui (prestiti per investimenti ecc.), è sicuro che l'ultimo arrivato sulla scena dello sviluppo userebbe macchine e applicherebbe metodi anch'essi ultimi arrivati, quindi i più moderni ed efficienti. Il suo investimento deriva dal plusvalore realizzato nel ciclo precedente, quindi deve vendere le sue merci a qualcuno che sia in grado di acquistarle, che abbia, cioè, denaro sufficiente allo scopo. Solo così il nostro orgoglioso capitalista autonomista può produrre di più a costo unitario inferiore rispetto ad altri; solo così può godere di una posizione vantaggiosa che può essere trasformata in profitto differenziale. Come dice Marx, ogni singolo profitto nel mondo della produzione socializzata partecipa nel bene e nel male al profitto medio generale. Ogni sovrapprofitto non è scomponibile che nei due fattori fondamentali uscenti dalla produzione precedente: salario e profitto (plusvalore). In un mondo che centralizza più che non concentri (ovvero che aumenta il controllo dell'esistente più che non accumuli ulteriormente), chiunque goda di sovrapprofitti non fa che sottrarre salario e profitto che sarebbero stati destinati altrove, e la concorrenza alla lunga farà sparire chi non è competitivo.

Lo Stato e l'azione concentrata del Capitale

Mentre è impossibile la creazione pura e semplice di capitale, sarebbe pazzo chi pensasse che un'area qualsiasi del mondo, immersa nella concorrenza mondiale, potesse svilupparsi solo con i propri mezzi, cioè solo con i lentissimi ritmi e le caratteristiche dell'accumulazione primitiva, quella che i vecchi paesi capitalistici hanno conosciuto nella loro giovinezza qualche secolo fa. Né il Giappone, né gli altri paesi asiatici hanno potuto svilupparsi da sé: in tutto questo secolo, in ogni luogo, vi è sempre stato un incontro fra la forza-lavoro locale, che garantiva un plusvalore futuro, e capitale proveniente dall'esterno. Anche in Russia e in Cina (e Lenin si disperava per il fatto che capitalisti americani come Hammer e Vanderbilt non fossero più numerosi e pronti ad ascoltarlo e fare affari con la Russia dei Soviet). In uno studio richiesto dalla Commissione per il Commercio e lo Sviluppo dell'ONU, si demolisce il mito del liberismo capitalistico fautore dei "miracoli economici" asiatici:

"In questo documento sosteniamo che, mentre l'orientamento all'export è desiderabile (nel senso di provvedere a incentivi neutrali tra i mercati esteri e quelli interni), l'esperienza dei paesi di recente e vittoriosa industrializzazione dimostra che il teorema dell'intervento minimalista dello Stato non può essere sostenuto. Al contrario, gli enti industrializzatori che hanno avuto più successo sono stati dinamici proprio perché sono intervenuti pesantemente nel processo di costruzione delle capacità tecnologiche. Il loro intervento è stato al medesimo tempo funzionale (per rafforzare forze di mercato senza favorire particolari attività), e selettivo (per promuovere particolari attività o industrie più di altre)" (26).

I fatti recenti hanno dimostrato quanto l'economia asiatica dipendesse dal sistema finanziario internazionale e dalle politiche governative. E' un processo già conosciuto, tanto che, quando l'URSS crollò, venne suggerito un nuovo Piano Marshall per non lasciare cadere la Russia nel caos. Solo che il salvataggio della Russia avrebbe richiesto una quantità di capitali all'epoca non disponibile. La vecchia Europa semidistrutta dalla guerra fu un campo fertile per gli esuberanti dollari americani. Il Piano Marshall ebbe l'effetto di accelerare enormemente una ricostruzione e quindi un "miracolo economico" altrimenti ben problematici. Poi si trattò di pagare gli interessi, ma l'unione tra i capitali internazionali, la politica economica statale e la forza-lavoro a basso prezzo dettero risultati grandiosi. Per ogni singolo capitalista è certo un inconveniente pagare interessi, specie quando non sa come ipotecare ulteriormente lavoro futuro per gestire il suo debito. Peggio ancora quando gli interessi si sommano alle imposte dello Stato. Ma all'epoca non c'era solo il controllo completo sulla forza-lavoro, in grado di permettere altissimi livelli di sfruttamento: c'erano soprattutto decine di leggi a favore della ricostruzione, specie per quanto riguarda quel motore formidabile di accumulazione che è il settore edilizio. Il plusvalore estorto fu talmente alto che non solo non ci furono problemi per pagare interessi e imposte, ma ci furono addirittura le regole legali per non pagare imposte affatto. Il plusvalore era disponibile per i capitalisti quasi totalmente, mentre lo Stato si accollava la spesa per l'enorme infrastruttura.

Oggi come allora, tenendo conto che la ricostruzione è finita, opera sempre, perfezionato, il vecchio principio capitalistico: socializzazione dei costi, delle diffcoltà e dei problemi, privatizzazione degli utili e dei risultati positivi. Questo nessun grande capitalista riuscirebbe a realizzarlo da sé, senza l'aiuto statale.

Trasformazione continua del tessuto industriale

Ora, la contraddizione capitalistica principale si manifesta proprio come antagonismo tra produzione sociale e appropriazione privata, di cui il fenomeno "parassitario" dello scaricare i costi sulla società è un sottoprodotto. E non è meno importante l'altra contraddizione, quella fra la produzione secondo un piano all'interno dell'unità produttiva e l'anarchia del mercato fuori dalla fabbrica. Normalmente queste contraddizioni, in fondo le sole che rendono possibile la creazione e la realizzazione di plusvalore, sono state storicamente la base materiale dello scontro di classe. Il tentativo di superarle fa parte della storia del modernissimo capitalismo: da una parte il fascismo ha rappresentato il tentativo di controllare dispoticamente il fatto economico - keynesismo - e, nello stesso tempo, di appianare l'antagonismo di classe (sindacalismo corporativo); dall'altra il rigurgito di apparente liberismo, seguito alla massima concentrazione del Capitale, porta alla centralizzazione che continua a rappresentare sotto altra forma il tentativo di organizzare l'anarchia dei produttori nei confronti del mercato. Ma anche la centralizzazione, come dimostrano i massimi rappresentanti attuali, dalla Microsoft alla Nestlé, dalla Bayer alla Philip Morris, non lascia più libertà. I meccanismi del moderno controllo economico escludono ogni velleità autonomistica dei capitalisti; l'unica garanzia su cui questi possono contare è l'alto sfruttamento permesso dagli Stati corporativi in concorrenza fra di loro. Chi si è seriamente "autonomizzato" è il Capitale e basta.

Per quanto riguarda la centralizzazione moderna, che è comunque in contraddizione con le aspirazioni autonomistiche, essa ha bisogno di essere in relazione stretta con il capitale finanziario: ne è un fattore e nello stesso tempo un prodotto. Soltanto la vasta raccolta azionaria di aziende a proprietà intrecciata ha potuto dar luogo a masse di capitale finanziario disponibile per grandi investimenti (Marx fa l'esempio delle ferrovie). I piccoli capitali da soli non sono nulla, ma insieme rappresentano un forza. Una volta che questa forza è consolidata, il capitale finanziario, resosi autonomo, assume partecipazioni in diverse aziende sottoponendole a un unico controllo.

Come si concilia la tendenza alla centralizzazione del capitale e la realtà della produzione diffusa tipica dei distretti industriali? Facciamo un esperimento concettuale. Immaginiamo una grande fabbrica tradizionale com'era la Fiat fino agli anni '60. Essa possiede al suo interno un ciclo verticale quasi completo, dalla produzione di acciaio al prodotto finito. Questo ciclo è integrato da una serie di fornitori esterni molto specializzati (indotto) che producono semilavorati o pezzi su ordinazione, quasi sempre per un unico cliente (in questo caso la fabbrica automobilistica). All'interno della fabbrica vige un piano produttivo che lega i reparti in un insieme razionale.

Questo sistema è stato funzionale alla concentrazione di capitale, e alla conseguente accumulazione, fino alle estreme conseguenze, ma è ora abbandonato ovunque. Il vantaggio consisteva nel fatto che ogni capitalista poteva produrre internamente tutti quei semilavorati che, se acquistati all'esterno come merci, avrebbero contenuto nel loro prezzo il profitto di un altro capitalista. Si tendeva in altre parole a trasformare delle merci acquistate sul mercato, in non-merci prodotte in proprio. Ma questo sistema era rigido e, soprattutto, la sua sopravvivenza era legata alla crescita verticale senza sosta: concentrazione significa accumulazione e concorrenza fino all'eliminazione degli avversari, quindi monopolio.

Immaginiamo ora che la fabbrica del nostro esempio venga scorporata nei suoi singoli reparti di produzione, i quali diventino tante fabbriche autonome, più piccole ma sempre controllate da un unico centro. In poche parole, che si formi una holding. Il piano di produzione razionale dei reparti originari non sparisce: ora, quello che per altre fabbriche è anarchia di tanti produttori alle prese con un mercato anarchico, per la holding è invece una risposta razionale all'anarchia. Ma c'è di più: ogni singolo reparto diventato fabbrica può ottimizzare le proprie funzioni e crescere, per esempio lavorando anche per altri utenti finali. Allargando la scala e affinando le tecniche della produzione, si avrà un prodotto migliore, di costo inferiore ecc.

I passaggi sono dunque tre: in origine venivano acquistati semilavorati all'esterno; tramite essi, in quanto merce utilizzata nel ciclo produttivo, veniva trasferita una quota di plusvalore all'esterno, ad un altro capitalista. In un secondo tempo la produzione di alcuni tra questi semilavorati veniva portata all'interno: si risparmiava sul profitto da trasferire agli altri capitalisti. Nel terzo tempo del nostro esempio, gli stessi semilavorati vengono prodotti di nuovo all'esterno e diventano di nuovo merci. Essi però non vengono più semplicemente acquistati all'esterno, non vengono più semplicemente prodotti all'interno, ma vengono prodotti in grande scala in un'azienda che è nello stesso tempo all'esterno dell'industria leader e all'interno della holding da questa controllata. I semilavorati in questione vengono ora utilizzati nello stesso tempo in quanto merci a basso costo per una produzione interna e in quanto merci vendute all'esterno con ricavo di normale profitto.

In ogni caso invece di un'uscita di profitto a favore di un altro capitalista o di un costo interno di produzione, si ha un trasferimento contabile interno al gruppo, più un'entrata di profitto. E non ci interessa qui indagare sui giochi di bilancio che si possono fare con questo sistema, specie se il gruppo è internazionale e può contare su legislazioni nazionali diverse.

In un processo misto fra scorporamento di attività, acquisizione di partecipazioni nel proprio indotto e chiusura drastica di reparti e fabbriche, la grande industria è passata così da un'organizzazione verticale della produzione ad una organizzazione orizzontale con forniture e partecipazioni a rete. In questo modo ha aggirato il problema della crescita esponenziale (che non ha soluzione) legato alla concentrazione. Ma il processo non è esente da problemi. Mentre potevano esservi più concentrazioni finché la crescita lo permetteva, ora la centralizzazione dei capitali, se non nega in assoluto l'accumulazione progressiva, tende però a realizzarsi a favore di pochi capitali e a scapito di altri. Questo fenomeno è stato ben analizzato da Marx e, nello stesso periodo, anche dagli enti statali americani che per primi dovettero constatare la tendenza del libero mercato al monopolio proprio tramite la libera concorrenza, che elimina i più deboli. Marx dà a questo fenomeno quasi un valore di legge ed Engels lo tratta come capitalismo di transizione. Anche Lenin nell'Imperialismo chiama il capitalismo finanziario e dei trust "capitalismo di transizione" e Bucharin scrive un libro sul tema specifico analizzando il fenomeno nei particolari (27).

Morte del capitalista libero e autonomo

Lo Stato governa il credito privilegiando le industrie e i settori trainanti dello sviluppo capitalistico. Siccome non vi è mai creazione di plusvalore al di fuori della produzione-circolazione integrate, ecco che il governo del credito, ottenuto con manovre sui tassi, con facilitazioni fiscali o finanziamenti a tassi agevolati, si può mettere in atto soltanto prendendo plusvalore da una parte e fissarlo dall'altra. Ora, le attività produttive fondamentali sono sostenute principalmente attingendo alle tasche di Pantalone, ma anche da quelle dei capitalisti che non partecipano al traino dell'economia. E' ovvio che nessun capitalista intraprende un'attività chiedendosi in anticipo se questa sarà o meno trainante e altrettanto ovviamente si sentirà "rapinato" quando si vedrà decurtare una parte del profitto a vantaggio dell'insieme. Ecco un esempio che dimostra come il debito pubblico sia sempre una cuccagna privata per quei capitalisti che riescono a rientrare nel gioco dei finanziamenti:

"In Giappone, paese particolarmente bisognoso di capitali per la ricostruzione postbellica, si finanziò l'ascesa capitalistica che tutti conoscono con enormi prestiti presso le banche estere. Gli investimenti per attrezzature passarono dal 7,9% del Prodotto Nazionale nel 1946 al 18,8% nel 1964, ma ogni impresa giapponese si trovò in media con un capitale composto per il 19% di capitale sociale e per l'81% di debito verso l'esterno. Come è stato possibile sopportare un onere del genere? La risposta va ricercata nell'intervento statale che, per mezzo del sistema tributario, rende la gestione del debito aziendale meno costosa della distribuzione dei dividendi agli azionisti. Questo significa che potenzialmente l'industria privata in Giappone è scomparsa" (28).

Qualche volta la Banca (o il sistema delle banche) ha sostituito lo Stato, ma sempre l'effetto "giapponese" è stato riprodotto in ogni luogo dove il capitalismo fosse di impianto recente: in Asia (Tigri) come nei poli locali di nuovo sviluppo (esempio del Friuli dopo-terremoto e vicina Slovenia pre-secessione; ma anche negli Stati Uniti, dove la politica reaganiana fece piovere 30 miliardi di dollari-1980 all'anno sui settori tecnologicamente avanzati tramite manovre di sgravio fiscale). La Fiat troverà sempre la sua rottamazione di soccorso, mentre la Olivetti potrà contare su reiterate conversioni tecnologiche permesse da ordini statali, o concessioni del tipo di quella per la telefonia mobile e fissa. I medi e piccoli industriali, per quanto "performanti", non avranno queste opportunità. Si verifica quindi, sul territorio dei paesi a sviluppo consolidato, uno scontro fra vecchi poli di concentrazione-centralizzazione del capitale e nuovi poli di sviluppo. I primi hanno bisogno della ripartizione del plusvalore per compensare il loro ormai basso saggio di profitto; i secondi non hanno nessuna intenzione di lasciare che il loro alto saggio di profitto sia oggetto della ripartizione. Ne consegue che gli attori dei nuovi poli vorrebbero essere omologati come trattamento alla Fiat o alla Olivetti, avere accesso agevolato al credito ed essere liberati dai vincoli (tributari e altro) che servono alla ripartizione del plusvalore nella società.

In ultima analisi è attraverso lo Stato che il Capitale decide dove smistare i quattrini. I vecchi poli di concentrazione-centralizzazione sono più idonei a sostenere con certezza lo sviluppo generale, e i fenomeni alla Bill Gates sono eccezioni che confermano la regola (a parte il fatto che la Microsoft, con il monopolio mondiale del software di base, è ormai sotto la tutela strategica del governo degli USA e resiste ad ogni attacco dei liberisti). Dove gli Stati nazionali non possono mettere il becco, come nello scenario internazionale, il Capitale finanziario anonimo si incarica di ottenere gli stessi risultati: a scala planetaria gli avvenimenti asiatici riproducono gli stessi meccanismi locali, e il FMI deve gestire uno smistamento mondiale di plusvalore a favore non tanto dei paesi che hanno alti tassi di sviluppo quanto delle banche e dei cittadini di altri paesi che hanno prestato i soldi per tale sviluppo. Le Tigri asiatiche, con i più alti tassi di sviluppo del mondo, dovranno pagare un conto salato e fin da adesso vedono impegnato il loro profitto differenziale futuro. Solo che né le Tigri asiatiche né il Giappone (pluritartassato dalla finanza mondiale con una buona mano degli Stati Uniti) possono ragionare in termini soggettivi; quindi la loro politica non sarà certo quella di reclamare la "secessione" dal capitale mondiale ma una più forte integrazione.

Tra l'altro il modello asiatico delle Tigri distruggerà il modello giapponese e coreano (che gli somiglia). La rigidità di tali modelli è anacronistica rispetto alla flessibilità presente nei distretti a produzione diffusa e i fatti recenti di Corea dimostrano che, se da una parte è inevitabile adeguarsi, dall'altra questo adeguamento peserà sul proletariato sollevando rivolte come quella che abbiamo visto.

Territori da investimento

Si è fatto un gran parlare di "modello Toyota" e della sua gran capacità produttiva. Quest'ultima è effettiva, ma si tratta di roba vecchia se analizzata con gli occhi europei nella sua struttura profonda: non è quello il vero vantaggio del sistema produttivo giapponese. Il cosiddetto modello Toyota è il modello dell'industria inglese dell'inizio '800, con i lavoratori sistemati nei cottage appena fuori dalla fabbrica, i loro bambini negli asili aziendali e magari una famiglia intera che lavora presso la stessa azienda in modo da lasciare qualche salario nella banca aziendale (e dunque: non solo costo del denaro = zero, ma deposito attivo di salario non percepito che diventa immediatamente capitale). Questo modello si trasferì al resto d'Europa alla fine del secolo, e in America, nei primi del '900, con le varianti fordiste. In Giappone sopravvive anche se in crisi, perché gli si sovrappone una serie di altri elementi vitali come la produzione just in time e le metodologie della qualità totale, che peraltro furono mutuate dall'esercito d'occupazione americano. Quando in Corea il governo tentò il suo abbattimento provocò una rivolta sociale. In Italia è stato applicato a cavallo del secolo specialmente nel settore tessile. In un solo caso fu adottato con grande successo in tempi relativamente recenti da parte delle industrie Olivetti, che ne fecero il nucleo per una propaganda "sociale" dall'immediato dopoguerra fino alla fine degli anni '60 (29).

Ma nei distretti produttivi odierni (che in Italia non sono solo nel Nordest) il tessuto industriale si struttura in forme che sono agli antipodi del citato modello Toyota. In essi piuttosto si applica integralmente l'assunto di Marx a proposito del macchinismo e dell'automazione: l'uomo sia schiavo della macchina e l'orario di lavoro aumenti anziché diminuire, mentre tutta la società si sottopone al dominio del Capitale e la produzione viene socializzata al massimo grado.

Succede sul microterritorio quel che succede su aree più vaste o in interi paesi: dato che non si può inchiodare al territorio il Capitale, ormai slegato dalla volontà degli uomini, si fa in modo che il territorio sia idoneo all'attrazione dei capitali (che altrimenti se ne vanno da altre parti). Nella scala vi è al primo gradino in basso la classica piccola "zona industriale", che ormai ogni paesetto prevede nel piano regolatore per cercare di attirare attività entro i suoi confini con infrastrutture, agevolazioni edilizie, fiscali ecc.; viene poi un territorio più vasto che possiamo grosso modo identificare con quello descritto da Miglio (macroregione); poi un intero paese come l'Irlanda o l'Olanda, che per vie diverse hanno messo a disposizione del mercato mondiale tutta la loro superficie con i relativi abitanti. Anche l'Italia di Prodi, utilizzando la spinta di Maastricht e con l'intensificarsi della concorrenza internazionale si propone come regione del mondo appetibile per i capitali (30). Al di sopra dei singoli paesi, interi continenti si fanno concorrenza su questo piano, come dimostra il conflitto sempre latente fra Europa, Asia e America, ognuno dei quali cerca di adescare i capitali mondiali peggio di una meretrice. Tutti si adeguano nel rendere idoneo e accogliente il proprio giaciglio, che deve diventare attrattore di clienti. Ecco per esempio com'è posta la questione dalla Fondazione Agnelli riguardo al livello intermedio:

"Per affrontare con successo la riorganizzazione mondiale dell'economia, le imprese non possono né agire da sole, né contare sulla tradizionale alleanza con uno Stato capace di gestire mercati in buona misura confinati da barriere nazionali. E' sempre più frequente che le imprese facciano invece affidamento sulle capacità del sistema territoriale di insediamento di creare e attrarre risorse economiche, finanziarie e umane, attraverso la predisposizione di positivi fattori di sviluppo. La competizione associa fortemente il livello dell'impresa a quello dei sistemi territoriali, con i loro molteplici e frammentati governi. Al tempo stesso, questi governi devono poter contare su di un ventaglio di risorse adeguate che eviti di dar vita a programmi di piccolo respiro, o a petulanti poteri campanilistici" (31).

Le questioni poste dal capitale in cerca di valorizzazione non sono sempre affrontate in modo chiarissimo da chi ne studia i fenomeni derivati. Occorre forse qualche precisazione sulla nascita e sviluppo di specifici distretti produttivi e sull’impresa "reticolare". La tendenza appena descritta fa parte della storia del Capitale, ma nello stesso tempo assume caratteristiche via via aderenti alle esigenze del capitalismo ultramaturo. Certi aspetti si adeguano quindi in funzione dell'evoluzione storica dell'economia, e infatti gli stessi borghesi avvertono il disagio di fronte alla dittatura "esterna" del Capitale.

Sviluppo del lavoro sociale generico medio

Nelle trattazioni correnti si fa un po’ di confusione tra ciò che viene comunemente chiamato "indotto", cioè la rete di aziende collegate sul territorio al fine di una produzione unitaria, e la "fabbrica diffusa" o specifiche realtà cui vengono date altre denominazioni. E’ certamente vero che in molti casi permane la produzione finalizzata "come se" ogni azienda fosse un reparto di un’unica grande fabbrica controllata, attraverso i capicommessa, dal leader della produzione (quello che immette sul mercato il prodotto finito). Questo è il caso per esempio della Benetton, che è un’impresa-guida cui fanno capo decine di attività collegate, compreso l'allevamento di pecore merinos in Patagonia (250.000 capi su 2.000 kilometri quadrati di proprietà), per cui l'azienda è diventata il primo produttore mondiale di lana grezza. Oppure la Fiat, che non fa solo automobili ma centralizza attività diversificate sparse per il mondo. Agnelli e Benetton su territori specifici sono leader in una particolare sfera della produzione e, in quanto tali, sono anche a capo di un flusso gerarchico di tipo piramidale. Il cosiddetto indotto visto con i loro occhi non si discosta molto dal vecchio modello, dato che ci si trova sempre e comunque di fronte a prodotti finiti che derivano dall’integrazione delle produzioni a monte. Se ci mettiamo nei panni della Fiat vediamo che ogni nucleo produttivo autonomo rompe la verticalità del sistema tradizionale, ma non lo supera del tutto, anche se produce per Ford, Volkswagen o Renault. Il fenomeno dev'essere invece osservato da un punto di vista diverso da quello abituale, troppo influenzato dalla funzione essenziale che nel vecchio sistema rivestiva il soggetto principale, cioè il leader del prodotto finito.

E’ vero che storicamente è stato proprio il leader a far nascere il sistema, ma ora le cose sono cambiate, com’è cambiato il rapporto fra il capitale individuale e il capitale finanziario, sociale. Queste realtà produttive, più diffuse di quanto non si creda, spesso non hanno come fine uno specifico prodotto, ma sono organizzate per raggiungere il massimo rendimento indipendentemente dall’utilizzo che verrà fatto del loro semilavorato o prodotto finito o anche servizio vendibile. Esse sono finalizzate a un risultato proveniente dal sistema a rete in quanto tale, cioè una integrazione fra produzioni industriali, servizi, traffici finanziari e utilizzo massiccio di ogni incentivazione nazionale o estera (32). La specializzazione non risiede più nella produzione di un particolare dell’automobile (poniamo), ma di qualsiasi cosa possa essere costruita con le stesse tecnologie, con gli stessi materiali o con le stesse "maestranze". Così avremo in certi casi una rete di aziende in relazione tra loro, con una stessa rete logistica, marketing, amministrazione, approvvigionamento, vendita e ufficio legale comuni, collegate tra loro da partecipazioni incrociate, guidate da funzionari incentivati con partecipazioni agli utili, i quali dispongono di capitali completamente spersonalizzati. Potranno essere consorzi, holding o altro, ma saranno sempre caratterizzate da una adattabilità estrema ai movimenti del Capitale. Questa è una fregatura massima per i proletari in genere e per i comunisti in particolare, dato che per il capitalismo comatoso meccanismi del genere costituiscono fleboclisi rivitalizzanti. Ma tutto ciò non ha solo aspetti negativi: rappresenta anche una spinta ad una socializzazione del lavoro come non si è mai vista, contrariamente a quanto potrebbe far sospettare il rigurgito di individualismo che ne è la manifestazione immediata.

La visuale del capitalista un tempo attorniato dal suo fedele "indotto" è dunque piuttosto cambiata; vediamo che oggi egli, anche se ultrapotente come Agnelli, deve affrontare con cautela e cognizione di causa un sistema di fornitura diventato notevolmente autonomo, dove a dettar legge non sono più le persone ma il mercato e il capitale finanziario. Il gruppo Fiat-Iveco (che in Italia ha il monopolio della produzione di autoveicoli) assorbiva dieci anni fa quasi tutto il prodotto della componentistica; esso proveniva da 1.200 fornitori che fatturavano quasi esclusivamente per l'unico cliente esistente in Italia. Oggi il gruppo Fiat-Iveco ricorre alla fornitura esterna molto di più di quanto vi ricorresse dieci anni fa (outsourcing), ma assorbe questa maggior quantità di componentistica da soli 120 fornitori (un numero dieci volte inferiore a quello di allora) i quali, a loro volta, trasmettono alla Fiat non più tutto ciò che producono oggi, ma meno della metà, ovvero 16.370 miliardi su una produzione totale di 34.020, essendo nel frattempo la loro produzione più che raddoppiata. L'eccedenza va in esportazioni.

Produzione razionale ma società dissipativa

Il sistema ha perso gran parte della sua anarchia e quindi il suo potenziale dissipativo di energie; è diventato più integrato e nello stesso tempo più flessibile; sa rispondere meglio alle variazioni di mercato; sfrutta in modo ottimizzato la forza-lavoro. Qualcuno ha incominciato a chiamarlo "sistema olonico", dalla parola greca che sta per "tutto", o "dell’azienda virtuale" per via del fatto che in questo modo può esistere un ambiente in cui una nuova azienda, completamente priva di storia e di strutture fisiche potrebbe rivolgersi ai fornitori del distretto per qualsiasi esigenza; potrebbe cioè produrre qualsiasi cosa o fornire qualsiasi servizio a partire dalla semplice possibilità (posto che una ricerca di mercato abbia definito l'obiettivo) e volontà di farlo (posto che abbia grande disponibilità di capitali) (33). Tale sistema è nato con fatica negli Stati Uniti dalla crisi dell'industria tradizionale ma, una volta avviato, ha spazzato via in poco tempo le rovine della vecchia industria (la rust belt, cintura della ruggine). I modernissimi distretti americani (chi non ha sentito parlare della Silicon Valley?) hanno permesso di superare la produttività giapponese. Essi si sono riprodotti a Taiwan e a Singapore, dove l’industria è nata e vive esclusivamente su quella base. Da una decina d’anni hanno soppiantato vecchie realtà anche in Europa, come è successo in Italia nel classico triangolo industriale. Ora si sono sviluppati velocemente nel miracolato Nordest italico, come in una Taiwan in ritardo. Per loro natura si prestano alla produzione personalizzata e just in time, elementi fondamentali di equilibrio rispetto alle contraddizioni tra produzione e mercato, tra valore di scambio e valore d’uso. Ma quel che più importa è che permettono una produttività enorme e soprattutto una grande flessibilità di fronte alle nuove produzioni o alle emergenze (come crisi dei settori a valle ecc.). Produttività e flessibilità: è da questo binomio che scaturisce un saggio di sfruttamento straordinario, che impregna di sé il territorio, la politica, i rapporti fra le classi, coinvolgendo i proletari in un ambiente dove l'orario di lavoro è a livelli ottocenteschi e i salari sono più bassi che altrove, dove l'operaio si sente partecipe della conduzione della fabbrichetta quasi allo stesso titolo del padrone, raggiungendo il livello più basso di abominio.

Quando si sente parlare di piccola e media industria come spina dorsale dell’economia italiana bisogna tener presente questa realtà: sono sì piccole e medie industrie, ma integrate in un sistema ad altissimo rendimento, talmente alto che esse diventano aziende esportatrici assolute, e soprattutto diventano insofferenti quando si misurano con il bassissimo rendimento sociale italiano. Questo è uno dei pilastri materiali di supporto alle ideologie autonomistiche, qualunque forma esse prendano, dal folklore, alla filosofia, ai tanketi (piccoli tank, carri armati) trovati nei cascinali veneti (34).

Note

(21) K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XIII, ed. Utet pag. 619.

(22) Ibid. pag. 635.

(23) Anzi, secondo un fisico, premio Nobel, cui è capitato di essere membro di una commissione per la scelta di libri di testo scientifici delle scuole pubbliche, quelli americani sono tra i più penosi (cfr. Giudicare i libri dalla copertina, di R. Feynman, in: Sta scherzando Mr. Feynman!, ed. Zanichelli).

(24)F. Engels, Antidühring, Terza sezione, cap II.

(25) Capitolo III pag. 414-15 dell'edizione Einaudi.

(26) Sanjaya Lall e Georg Kell, nello studio per l'UNCTAD "Industrial Development in Developing Countries and the Role of Government Interventions", BNL Quarterly Review n. 178.

(27) N. Bucharin, Economia del periodo di trasformazione, Jaka Book.

(28) Dal nostro Quaderno n. 1, " La crisi storica del capitalismo senile", ora in ristampa.

(29)Adriano Olivetti, fondando il movimento politico "Comunità" (1948), aveva in mente la realizzazione di strutture integrate diffuse sul territorio e non solo legate alla fabbrica. Le attività industriali e agricole (I-RUR) sarebbero state il fondamento sul quale organi di autogoverno locale avrebbero realizzato una democrazia diretta. Il movimento politico di "Comunità" nasceva in aperta polemica con gli apparati burocratici e in particolar modo con lo stalinismo. Vagamente ispirate a Owen e Proudhon, tali strutture di autogoverno locale avrebbero dovuto far parte di una più vasta organizzazione statale federata e sovranazionale. E' curioso che neppure una delle varie correnti federaliste attuali abbia riscoperto un movimento che le ha anticipate di mezzo secolo.

(30) Questo, tra l'altro, era anche un importante obiettivo del Protocollo firmato fra Governo, Industria e Sindacati il 23 luglio 1993, che recitava: "Va rilanciata l'azione di programmazione degli investimenti infrastrutturali, riqualificando la domanda pubblica come strumento di sostegno alle attività produttive [Saranno varate] authority locali [col compito di stabilire] accordi di programma tra Governo centrale e amministrazioni regionali al fine di concertare le scelte prioritarie per l'infrastrutturazione del territorio [...] occorre definire strumenti più efficaci e moderni, rendere più produttivo l'uso delle risorse pubbliche e orientare queste su obiettivi economici strategici e di politica estera definiti a livello di governo" (cfr. nostra Lettera n. 29).

(31) Limes n. 4 del 1994, pag. 150.

(32) In Italia queste imprese hanno attinto grandi risorse dalle facilitazioni fiscali per investimenti fissi, dalle leggi europee per la formazione professionale e dagli incentivi per la ricerca e applicazione delle tecnologie avanzate. Il livello di truffa in questi campi è ovviamente altissimo.

(33) "La divisione fa la forza - Il successo delle imprese olonico-virtuali", La Repubblica Affari e Finanza del 12 gennaio 1998.

(34) Una ricostruzione della rete di rapporti fra elementi del nazionalismo veneto è in "La Serenissima sfida Roma", Limes n. 2 del 1997.

Lettere ai compagni