La dimora dell'uomo (2)
Stabilità sociale e mutazione
Siamo partiti da una critica ai fondamenti dell'architettura moderna e abbiamo finito per trovare in essa delle espressioni che vanno al di là della società presente. Più dove il progettista pensava assolutamente ad altro che non dove ha cercato di raggiungere coscientemente un risultato. Alla borghesia non disturba affatto che ogni tanto scaturiscano alcune utopie, ma il loro uso capitalistico rimane agli antipodi rispetto a ciò che un comunista vi può a volte vedere. Anche nei casi estremi, quando qualche architetto un po' fuori di testa disegna ambienti "collettivistici" abbandonandosi alla libertà offerta dai materiali moderni, il business non è disturbato. Anzi, la stabilità del sistema è aumentata da una moderata capacità di innovazione, come notava il gattopardesco principe Salina. Purché vi sia un ritorno all'investimento. Purché la "spesa pubblica" garantisca la solita "cuccagna privata".
Prima verrà la catastrofe politica – e verrà – poi la trasformazione e la nascita di effettive forme nuove. In molti immaginano, con deleteria pigrizia mentale, una rivoluzione che, dopo aver portato il proletariato al potere (e non ci dicono con quali strategie, tattiche e strumenti ciò avverrà), avanzerà a suon di decreti. Ma, se la realtà sociale smentirà duramente chi crede di poter procedere a quel modo, la realtà specificamente urbanistica sarà ancor più spietata. È difficile parlare di "programma immediato" quando la materia di cui si deve trattare è fatta di pietra, mattoni, cemento armato, acciaio, vetro; quando ha volumi immensi, è sparsa su tutto il pianeta e durerà per decenni. È oltremodo difficile parlarne quando, per converso, miliardi di persone hanno il problema di abitare in qualsiasi modo decente. Ed è addirittura impossibile trattare in modo "immediato" di architettura e urbanistica, "prendere provvedimenti", quando l'umanità non ha ancora superato lo stadio della famiglia monogamica patriarcale, oltretutto nello stadio della sua decadenza e della sua inutilità totale per la specie. La Russia insegna: il prevalere del passato portò alla santificazione della famiglia, della patria e del lavoro; milioni di abitazioni furono costruite, a parte le tecniche, con criteri identici a quelli di prima. Perciò l'indagine sulla casa futura, il vestire i panni di materialistici "esploratori nel domani" deve partire da solide basi materiali che ci diano una dimostrazione pratica di come una parte dell'umanità incomincerà ad abitare da subito, mentre sarà in corso la trasformazione del mondo intero. Quale parte? Si incaricherà la rivoluzione stessa di evidenziarla: nella marcia verso una società senza classi, senza Stato e senza Partito, quest'ultimo si andrà trasformando in "un organo che non lotta contro altri partiti ma che svolge la difesa della specie umana" (cfr. Tesi di Napoli), e mentre prima coinvolgeva necessariamente solo la parte avanzata dell'umanità, al di là delle classi, ora coinvolgerà milioni di uomini nell'anticipazione di forme future.
Può sembrare paradossale, ma, come stiamo constatando nel sistematico lavoro quotidiano di ricerca, ci aiuta più il passato comunistico dell'umanità unito a qualche anticipazione attuale che non uno sforzo di immaginazione per cercare di sapere "come sarà" la casa di domani.
Rimandiamo a prossimi articoli uno studio dettagliato sulla transizione dal comunismo primitivo alle società classiste, ma già abbiamo una mole notevole di materiale sull'archeologia delle prime forme urbane. L'articolo su Caral, pubblicato in questo stesso numero, ci descrive una comunità protostorica peruviana organizzata ancora sulla base dei legami di sangue, i cui i nuclei fondanti si raggruppano in una unità più vasta e costruiscono l'ambiente dove vivere secondo un progetto unitario, fornendosi di strutture comuni e dando vita ad una "economia" basata sull'utilizzo comune dell'energia sociale. Altre aree del mondo hanno rivelato strutture di transizione molto più antiche: in Anatolia, in Mesopotamia, in Egitto, in Palestina, nella Valle dell'Indo, gli archeologi hanno portato alla luce luoghi abitati che si collocano in una fase di passaggio fra il villaggio preistorico e la città.
L'analisi di queste strutture di transizione è importantissima per facilitare l'abbandono di troppi luoghi comuni che infestano il cervello dei "civilizzati", come diceva con disprezzo Fourier. Luoghi comuni che paradossalmente troviamo soprattutto in coloro che scavano rivelando le antiche forme, studiano i reperti con mezzi sofisticatissimi e avrebbero il privilegio di scrivere la storia non su ciò che quelle popolazioni dicevano di sé stesse, dato che erano senza scrittura, ma sulla base di fatti, oggetti, planimetrie, stratigrafie, ecc. Il loro pregiudizio sull'immutabilità della presente forma sociale fa sì che non sappiano dirci praticamente nulla sul significato della disposizione dei locali, se non che un ambiente dove c'è traccia di fuoco e di avanzi di cibo era una cucina, che una grande costruzione complessa era il "palazzo" di un "re" e che un'altra parimenti grande ma non abitativa doveva essere il "tempio" per una qualche "religione".
Ora noi faremo un esperimento: descriveremo alcune caratteristiche strutture abitative proto-urbane chiaramente in fase di transizione dal comunismo primitivo alle prime società di classe. Sovrapporremo poi ad esse alcune delle realizzazioni dell'architettura moderna tenendo presente il deterministico principio di funzionalità di cui abbiamo parlato. In ultimo cercheremo di ricavare dal tutto un "progetto" di massima, che in questo modo si allontanerà il più possibile dall'utopia avvicinandosi il più possibile all'anticipazione.
La dimora prima delle classi
Per acquisire slancio verso il domani, ricolleghiamoci dunque all'epoca pre-classista. Nel passaggio dal nomadismo alla vita stanziale, dalla caccia all'agricoltura, l'uomo cambia ovviamente anche il modo di abitare. Recenti scoperte in India portano all'VIII millennio a.C., forse ancor più indietro, la fondazione delle prime strutture che anticipano la città propriamente detta. Di queste organizzazioni sociali non si sa nulla, ma esse compaiono indipendentemente anche in Cina, nelle Americhe, in Medio Oriente, con caratteristiche analoghe, segno che le determinazioni materiali, cioè, come abbiamo detto, "funzionali", sono fortissime. Tra le analogie c'è la presenza ovunque di una spiccata vita comunitaria. Recentemente ad Arslantepe, in Turchia, è stato scavato, tra gli altri, un edificio più vecchio di parecchi secoli rispetto a quella che si credeva la più antica città, Uruk. Un salone di questo edificio, affrescato e quindi ritenuto importante, aveva il pavimento disseminato da centinaia di ciotole in ogni posizione, mentre in stanze attigue altre centinaia erano ordinatamente impilate capovolte, come se si fosse trattato di una mensa comune. L'obbrobriosa mensa. Quante cucine da famigliola molecolare risparmiavano gli "utenti" del salone di Arslantepe? Centinaia, sembra. E conseguenti carrettate di legname da ardere, lavoro di donne, abbrutimento domestico. Erano incivili? Comunque non erano gli unici: non vi sono dubbi sul fatto che anche nelle civiltà vallinda, cretese, egizia, mesopotamica, vi fossero granai, magazzini, canali di scolo, piscine, servizi collettivi e forme di registrazione dei movimenti di persone e materiali all'interno della comunità. Più difficile rilevare dai resti delle case d'abitazione il tipo di società che le ha costruite. Ma è ovunque evidente che anche la casa più individualista era più comunitaria dei mostri pensati dall'architetto moderno e prima descritti.
Nell'urbanistica proto-storica c'è spesso commistione fra casa d'abitazione ed edificio cerimoniale o sociale. A Catal Huyuk, una proto-città anatolica del tardo neolitico, abitazione, tempio e necropoli erano la stessa cosa (fig. 14). Quando in altri siti la distinzione compare, risalta la sproporzione enorme fra le dimensioni e le tecniche di costruzione degli spazi comuni e di quelli privati. La casa, al contrario di quanto succederà nelle civiltà classiche, era certamente un luogo di rifugio, ma secondario rispetto al resto dei luoghi in cui si manifestava il vivere quotidiano in rapporto con la comunità. Anche dove si sviluppavano imponenti distese di quartieri, come nelle città della Valle dell'Indo, è ancora leggibile la loro dipendenza da un centro redistributivo, non classista, in grado non solo di progettare le case su una griglia fornita di canalizzazioni per l'acqua potabile e di scolo, ma di inserirle in un sistema di produzione, rifornimento e godimento dei beni (fig. 15). Nelle orizzontali città vallinde si stima vi fosse una densità di 400 abitanti per ettaro, 40.000 per chilometro quadro. A Uruk vi erano 200 abitanti per ettaro (cfr. Modelsky). Sono le densità di Londra e Parigi: Corbu avrebbe avuto qualche problema nel progettar loro una casa-involucro dove trovare "totale silenzio e isolamento". Il fatto è che non teorizzavano una casa, se la costruivano, l'abitavano e la vivevano come parte di quel tutto comune che non era un aggregato di scatole separate ma un vero e proprio sovra-organismo.
Ciò si osserva agevolmente a Creta dove, nel periodo minoico, prima che i Micenei portassero costumi greci, l'abitazione faceva parte di un tutto organico col tempio. Produzione e distribuzione non vi erano separate, come dimostrano le tavolette e i sigilli di provenienza unica trovati in luoghi differenti. E anche la necropoli era costituita da una grande sepoltura comune. La comunità minoica ruotava intorno ai cosiddetti palazzi, creduti per molto tempo abitazioni dei re, affini a quelli del mito greco. Con molta probabilità erano invece complessi cerimoniali e abitativi dove il sacro, l'autorità centrale e la produzione-distribuzione si fondevano con le esigenze della comunità. Tant'è vero che tale compito è "funzionalmente" riprodotto anche nella planimetria, che ci mostra vasti edifici dai volumi assai movimentati, con saloni, corridoi, magazzini, scale, laboratori, terrazze, portici, che sono compenetrati da aree pubbliche come vasti spazi lastricati, teatri (o luoghi per assemblee), giardini pensili. E dal tutto si snodano scenografici camminamenti cerimoniali e strade verso costruzioni che riprendono gli stessi moduli in scala ridotta e coinvolgono la campagna. Qui non resterà che copiare, tanto i volumi giocano con la luce e l'aria, protendendosi armonicamente verso gli spazi coltivati e i boschi, lasciando che la natura trovi continuità fra il costruito e viceversa (fig. 16-17).
Le caratteristiche di alcune comunità sudamericane come quella di Chan Chan, in Perù, scomparse prima dell'arrivo dei conquistadores e quindi completamente sconosciute, sono un vero rompicapo per gli archeologi. La funzione dei grandi blocchi-quartiere e dei vari edifici al loro interno è del tutto indecifrabile, a parte i ben riconoscibili magazzini comuni, le cisterne e i laboratori artigiani. La loro planimetria non dice nulla alla nostra mentalità, non si capisce quali siano le case d'abitazione, quali gli edifici "amministrativi" e quali quelli religiosi. Non si capisce neppure il disegno dell'intera città. Il cosiddetto "quartiere delle attività domestiche" nel blocco più vasto (444 metri per 303) è un complesso dove sono state trovate stoviglie e resti di cibo e cucina, ma non certo per uso privato, dato che è lungo 60 metri! C'è un quartiere "popolare" chiamato così dagli archeologi perché fatto di piccole case, ma non è possibile individuarne un altro che mostri caratteristiche abitative. La totalità delle costruzioni e degli spazi sembra progettata per far da scenografia a una qualche attività delle persone che vi si muovevano, ma non si sa quale (fig. 18). Tutto è gigantesco, ma vi sono centinaia di piccole stanze, tutte uguali, con una sola porta e disposte in file regolari. Le ricche decorazioni sembrano non avere "funzionalità" se non rispetto ad avvenimenti e comportamenti piuttosto che rispetto a "cose". Gropius e Mies van der Rohe sarebbero inorriditi: decorazioni! E per di più non razionali! Uno schiaffo alla purezza delle loro pareti lisce e vuote, dov'è ammesso solo il bianco, il nero e il grigio.
Comprendiamo molto meglio le abitazioni delle comunità che, formatesi in periodi in cui esiste il pieno dominio di classe, si sono ritirate dalla società e hanno intrapreso un percorso all'indietro, ricercando i tratti comunistici perduti. È il caso delle prime comunità buddiste, dei primi cristiani, degli eretici medioevali o delle comunità ebraiche come gli Esseni o la loro ramificazione chiamata "Yahad" che significa "in comune". Soffermiamoci su quest'ultimo gruppo. Sorto in seguito al "Patto di Qumran" (180 a.C.) e insediatasi nella località dallo stesso nome vicino al Mar Morto, ci ha lasciato, oltre ai noti manoscritti, gli interessantissimi resti del suo accampamento, poi diventato un grande ed esteso complesso in pietra che dichiara in pieno, "funzionalmente", la sua caratteristica di sede per una società comunistica, benché ristretta a poche centinaia di persone. Per quanto rigidamente organizzata rispetto all'ideologia e alla disciplina, la comunità di Qumran viveva nell'assoluta uguaglianza e si era costruita un'abitazione comune che la rifletteva. Il complesso gravitava intorno all'acqua, preziosa nel deserto, raccolta in cisterne e condotta tramite canalizzazioni attraverso gli ambienti comuni. Tali erano, ai piani terreni, la cucina, la dispensa, il salone per le assemblee e i banchetti, la sala di lettura e scrittura, la zona dei laboratori, gli orti. Era prevista una netta separazione fra le attività comuni e quelle della famiglia. Uomini e donne vivevano in comune, ma non potevano fondare una famiglia prima di aver compiuto vent'anni e dovevano scioglierla dopo i trenta. I figli erano allevati dalla comunità. Degli alloggiamenti, probabilmente al piano superiore, non è rimasto nulla, ma dalla tipologia generale si evince che non esistevano ambienti individuali o "famigliari". Qui la casa comprende dunque la vita stessa, la produzione, la conoscenza e la sua trasmissione sia nel senso della memoria scritta che nel senso della continuità biologica, dato che non si trattava di una comunità monastica sterile (fig. 19).
In tutti i casi elencati è persino difficile parlare di "casa". Quando l'abitazione individuale si fonde con le altre e con ciò che la circonda, l'abitare e il lavorare diventano la stessa cosa del vivere, e meglio sarebbe parlare di habitat. Specie nel complesso di Qumran, da noi scelto perché emblematico ma riferibile anche ad altre realtà, si verifica in pieno ciò che molti popoli legati al ciclo naturale sanno benissimo e che nel Rinascimento Leon Battista Alberti riassume efficacemente: "Se è vero il detto dei filosofi, che la città è come una grande casa... la casa a sua volta è una piccola città… E come nell’organismo animale... ogni membro si accorda con gli altri, così nell’edificio ogni parte deve accordare con le altre".
In pieno rispetto della tradizione ebraica, la comunità di Qumran aveva tratto una cosmologia specifica dai testi antichi e si era data un calendario solare, molto più preciso di quello lunare in uso a Gerusalemme. A Qumran la "casa" è una piccola città, oppure la città è una grande casa. La sua planimetria è viva, come la radiografia di un organismo vivente, come il "palazzo" minoico o il reticolo vallindo, come tutti gli altri esempi di casa-città o città-casa che abbiamo provato a descrivere. Di nuovo: come nessuna "città radiosa" capitalistica potrebbe mai e poi mai essere.
Siccome le ideologie del ritorno al passato sono sempre di matrice reazionaria, ricorrere all'apologia del comunismo primitivo e delle sue espressioni ci serve solo per compiere un balzo al comunismo sviluppato attraverso le fasi intermedie, come abbiamo anticipato. Il comunismo sviluppato è il prodotto specifico della civiltà urbana capitalistica e si esprime al massimo quando essa è ultramatura. L'architetto del futuro non disegnerà "case" copiando da società scomparse, ma organismi-città modernissimi. Come nella transizione dal comunismo primitivo, come nella concezione cosmica dei Dogon e come ricorda Leon Battista Alberti, ci sarà un contatto fra l'organismo biologico dell'uomo e il suo ambiente, ma con la tecnica, i materiali e la socialità di domani.
Abbiamo visto che la densità abitativa degli antichissimi centri era spesso molto alta, anche se si sviluppavano in orizzontale e in essi c'era spazio per tutti. Non è una contraddizione: il segreto di un'alta densità accompagnata a vasti spazi fruibili stava nella minimizzazione dello spazio individuale e nell'ampliamento di quello collettivo. Solo in tal modo era possibile proiettare la vita quotidiana sullo spazio esterno alla "casa". L'intera città era la vera casa dei suoi abitanti o, se vogliamo, la casa era la città: Omero riporta che vi erano 50 "fratelli", 12 "sorelle", rispettivi genitori e figli, più molte altre persone, sotto il tetto della "casa di Priamo", cioè centinaia di persone, ma sappiamo che le città pre-classiche erano raggruppamenti di tribù e che "casa" significava stirpe, ghenos, tribù appunto, in cui tutti erano "fratelli" perché respiravano il fumo dello stesso focolare, bevevano lo stesso latte e mangiavano lo stesso pane. Ecco perché i greci antichi chiamavano indifferentemente "città" Troia cinta di mura, Itaca che è un'isola, Pilo che è un "palazzo" e le innumerevoli "case" sparse.
Se noi dovessimo riportare queste caratteristiche nella società giunta ad un alto grado di socializzazione del lavoro tramite la scienza e la tecnologia, dovremmo sostituire non solo i materiali, le tecniche e il modo di convivere tra i sessi, ma anche il modo in cui la popolazione nel suo insieme si proietta verso lo spazio "esterno". Perciò vedremmo trasformarsi ogni categoria negata di questa società (no famiglia, no isolamento, no consumismo, no dissipazione) in affermazione di categorie inerenti alla società nuova: nuovo rapporto uomo-donna, vita sociale armonica, soddisfazione di bisogni umani, alto rendimento del metabolismo sociale.