Teoria e prassi della nuova politiguerra americana (2)
"La guerra agisce su di un oggetto che vive e reagisce… Può dunque un conflitto fra forze viventi, come quello che origina e si risolve nella guerra, restare subordinato a leggi generali? È chiaro che questa materia può essere illuminata dalle ricerche e suddivisa nei suoi rapporti interni: ciò è sufficiente per costituire il fondamento di una teoria" (Karl von Clausewitz).
"Colui che eccelle nel vincere i nemici lo fa prima che la situazione sia diventata minacciosa… Ciò che di meglio si deve fare è cercare di spezzare le alleanze del nemico" (Sun Zu).
"Nella geo-economia, come in guerra, dominano le armi offensive" (Edward Luttwak).
I. Basi oggettive della guerra senza limiti
Tramonto dell'Occidente?
Edward Luttwak è un tipo che parla chiaro. Politologo, scrittore, consigliere strategico del governo americano e presidente del Programma di Geo-economia di quest'ultimo, è un tipo da tener d'occhio come uno dei tanti sensori del detector sociale consultabile da chiunque. Dieci anni fa scrisse un libro (C'era una volta il sogno americano, Rizzoli) per dimostrare, cifre alla mano, che gli Stati Uniti erano in declino. La loro società si stava immiserendo al punto da assumere caratteristiche interne analoghe a quelle dei paesi del Terzo Mondo.
Non era l'unico pessimista, e nemmeno il primo. Negli ultimi trent'anni sono comparsi ampi studi sul declino americano, sull'ascesa dell'aristocrazia salariata e sulla sua successiva, feroce espropriazione. Altri studi, più generali, si sono focalizzati sul sistema capitalistico "fuori controllo" (Brzezinsky), sulla sua "incombente anarchia" (Kaplan), sulla "fine della storia" (Fukuyama), sullo "scontro fra civiltà" (Huntington), ecc., diventando più o meno celebri best sellers.
Luttwak però non si occupa di grandi sistemi teorici, i suoi lavori hanno un taglio assai pragmatico. Per questo la sua visione della guerra somiglia alla guerra reale più di quella ideale tirata in ballo dalla propaganda e dai media. In un libro sulla strategia dell'Impero Romano, scritto nel '76 avendo in mente che fosse possibile agli Stati Uniti trarne qualche insegnamento, sostenne che la guerra moderna non ha nulla a che fare con quella di un tempo, quando erano predominanti le concezioni clausewitziane. Esse sarebbero state, in ultima analisi, dei riflessi di una situazione in cui i conflitti avvenivano fra nazioni e implicavano una netta distinzione fra lo stato di pace e quello di guerra, oltre che una propensione a combattere quest'ultima esclusivamente con mezzi militari, senza far ricorso a strategie più sottili, come l'odierna, fruttuosa coercizione economico-politica.
Dopo Hiroshima la possibilità di fabbricare armi di distruzione di massa avrebbe mandato in pensione le basi materiali delle concezioni strategiche clausewitziane perché, scrive Luttwak nel 1976, "ci troviamo oggi di fronte alla prospettiva non di un conflitto decisivo, ma di un permanente stato di guerra… Dobbiamo proteggere una società avanzata contro una varietà di minacce, piuttosto che concentrarci sulla distruzione bellica delle forze nemiche". Concetti ripresi con parole quasi identiche da un documento attuale del Pentagono.
La posizione di Luttwak è – curiosamente, ma non troppo – identica a quella di Stalin che aveva scritto: "Oggi la guerra è entrata nell'età delle macchine ed è evidente che questo nuovo periodo richiede nuovi ideologi militari. Oggi è ridicolo prendere lezioni da Clausewitz". "Nuovi ideologi militari"? Ma se è proprio von Clausewitz che introduce per la prima volta la dialettica nello studio della guerra e ne dà una teoria dinamica, dove regnano le relazioni, i paradossi dovuti all'unione degli opposti e il gioco continuo delle trasformazioni fra quantità e qualità!
Ad ogni modo si capisce perché Luttwak ci tenga a sottolineare il fatto che, senza la geo-economia, cioè l'utilizzo delle politiche economiche per la guerra non guerreggiata, gli Stati Uniti sarebbero nei guai: è il suo lavoro di consulente militare governativo, e immaginiamo che i suoi consigli strategici non siano offerti gratis. Normale. Si capisce meno la sua insistenza allarmistica, quasi ossessiva (non solo nel libro sul "sogno americano") nel descrivere i tremendi pericoli che starebbe correndo l'America, da trent'anni un po' "negligente" per quanto riguarda la consistenza e qualità dei suoi armamenti e la sua capacità di proiezione militare in giro per il pianeta. In che cosa consisterebbe tale pericolo? In fondo gli Stati Uniti sembrano assai sicuri di sé, la loro economia è sempre la più imponente del mondo e nessuno potrebbe pensare di affrontarla sul piano militare senza essere annientato.
In disaccordo con Luttwak su von Clausewitz, siamo invece d'accordo con lui sul declino inesorabile degli Stati Uniti in campo economico e sul fatto che è impensabile un analogo declino della loro potenza complessiva senza che tutto il sistema mondiale esploda con conseguenze catastrofiche. Tuttavia non faremmo ricorso a termini che evocano la caduta dell'Impero Romano, la decadenza della civiltà o lo spengleriano "Tramonto dell'Occidente".
Questo tramonto dura da un po' troppo tempo per essere un buon punto di appoggio ai fini di una teoria dello sviluppo storico. Secondo Spengler, che durante la Prima Guerra Mondiale scrisse un mitologia del declino sociale, preludeva a una caduta della "Civiltà", ormai fossilizzata e quindi incapace di essere una "Cultura" aurorale. Ma non ci sono culture di ricambio. La caduta dell'impero americano, l'unico che ormai impersoni l'Occidente, non sarà seguita dall'avvento di regni barbarici. Per il semplice motivo che non ci sono più barbari che premono sul limes. Sono finite per sempre le riserve di sangue fresco, piene di energie e di potenzialità future per un'altra società di classe. Questa è l'ultima. E alle sue frontiere può premere unicamente una rivoluzione della specie. Ormai le classi contano, dialetticamente, solo come fattori dello scontro decisivo e della propria scomparsa. Esse influenzeranno e indirizzeranno miliardi di uomini, masse sradicate dalla condizione d'origine, in genere contadina, oggi inurbate in immensi agglomerati. Masse che per ora rappresentano solo l'ambiente in cui recluta l'esercito che serve a combattere la guerra in corso, com'è già dimostrato dagli scontri sul campo. Ma che potrebbero un giorno rappresentare una forza complementare a quella della classe rivoluzionaria.
Romanticismo stile impero
La guerra è davvero enduring, duratura, come dice Bush, anzi, permanente, non ci sono dubbi. Al di là di qualche tentativo serio di capire e analizzare, le opinioni che straripano da giornali e televisioni non sono in grado di spiegarci nulla su questo conflitto i cui pretesti (l'11 settembre, le armi di distruzione di massa, l'aggancio Iraq-al-Qaida) sono già stati smentiti dallo stesso governo americano che li aveva addotti. Solo un approfondito studio teorico sulla teoria della guerra imperialistica può spiegarci che cosa stia succedendo. Tra le arti dell'uomo quella della guerra, come si vedrà nelle prossime pagine, è una delle più problematiche: non la si capisce sulla base di qualche battaglia. Per sapere qual è, e soprattutto quale sarà, il suo obiettivo, dobbiamo sapere da dove essa arriva, conoscerne le forme, individuarne – come al solito – la dinamica.
Il lettore troverà più avanti lo sviluppo di un assunto nodale: gli Stati Uniti non sono in grado di padroneggiare un mondo "unipolare"; non sono mai stati un impero e non avrebbero i mezzi per esserlo neanche se volessero. Le attuali teorie dell'impero sono sciocchezze. Almeno Umberto Eco, negli anni '70, tracciava una fenomenologia sociologica e divertente del basso impero, mentre ora si tende a scambiare l'imperialismo con qualcos'altro. Gore Vidal da trent'anni insiste nella critica alla politica degli Stati Uniti, anch'egli chiamandoli "impero", e fu tra i primi a denunciare l'inganno semantico insito nella guerra moderna: "Le parole vengono usate per mascherare l'azione, non per illuminarla; si libera una città distruggendola". In questo senso la "guerra umanitaria" d'oggi è un capolavoro. Persino il superspeculatore George Soros ha dato qualche anno fa una descrizione moderna e quasi marxista dell'impero, chiamando così il Capitale impersonale e non a un territorio nazionale. L'impero di Toni Negri e Michael Hardt è solo un pasticcio.
Rovesciamento di situazione
Una parte significativa della borghesia americana si preoccupa del suo proprio futuro e da trent'anni non sa in qual altro modo chiamare il fenomeno "unipolare". Tra l'altro, definendo "impero" l'America, non è mai stata molto rispettosa della presunta potenza dell'URSS, che solo il governo degli Stati Uniti ha sempre esaltato per legittimare il continuo ingigantirsi della propria. In ogni caso il presente modo di produzione esclude che si possa formare un impero unipolare: il capitalismo si basa sulla differenza tra le industrie e sulla concorrenza che tende ad eliminarla e poi ancora ricostituirla in un rincorrersi infernale per non uscire dal mercato. Tutto ciò si riflette a livello degli Stati. È normale che fra questi ne possa emergere uno particolare, in grado di sovrastare tutti gli altri e farli marciare alla propria musica, ma ciò non può durare in eterno.
Abbiamo detto più volte che nessuna potenza esistente può muovere guerra agli Stati Uniti. Potrebbe farlo una coalizione, ma la storia dimostra che è impossibile formarla – se non sulla carta – rendendola unitaria e potente come il suo avversario. Solo il declino della potenza americana potrebbe permettere l'emergere di un nemico in grado di impensierirla. E siccome questo declino è in corso, ecco che automaticamente nascono speciali dottrine di "guerra preventiva".
Il declino americano è uno degli elementi principali della guerra attuale, quello che appunto sta producendo una specifica letteratura piena di consigli per evitare la catastrofe finale degli Stati Uniti. Ma "declino" è un termine inadeguato, dato che implica una specie di giudizio qualitativo, mentre ci troviamo di fronte ad un fenomeno soprattutto quantitativo e il resto non è che conseguenza.
Nel 1945 la Gran Bretagna era spossata dalla guerra e dai debiti; i paesi vinti erano anch'essi distrutti e senza capitali per la ricostruzione; il sistema coloniale si stava disfacendo e il resto del mondo – a parte alcuni paesi dell'America Latina, il Canada, la Svizzera e la Spagna – era ancora ben lontano dai parametri produttivi del mondo industriale. Gli Stati Uniti avevano un vantaggio enorme sul resto del mondo: producevano più della metà del Prodotto Interno Lordo, rappresentavano la metà dell'export e detenevano i due terzi delle riserve auree del pianeta. Tutti i paesi importanti erano indebitati con loro. Il famoso Piano Marshall per la ricostruzione dei vinti assommava a uno scarso 1% del prodotto annuale.
Oggi la situazione non è solo cambiata, è rovesciata: gli Stati Uniti non offrono capitali ma li ricevono; la bilancia commerciale è in passivo per 480 miliardi di dollari all'anno; il Dollaro subisce pressioni e rischia di diventare una moneta come le altre; il debito estero è a 6.433 miliardi di dollari (dic. 2002); il fabbisogno interno di capitali dall'estero assorbe 500 degli 800 miliardi di dollari del risparmio mondiale; il capitalismo interno è al massimo della corruzione e dell'arraffamento selvaggio di profitti; il sistema è drogato da una crescita fasulla e da profitti virtuali (coperti per anni da falsi in bilancio); l'amara realtà mostra un saggio di profitto che cala storicamente. I grandi gruppi industriali hanno dilapidato nella bolla speculativa persino i fondi pensione operai, che ora non sanno come rifinanziare. Non ci sarebbero margini per varare un New Deal aggiornato nemmeno se il governo lo volesse. Insomma, una vera politica imperialistica c'è stata fino a vent'anni fa: oggi rimane una politica estera velleitaria che non ha alle radici un sistema economico di adeguata potenza. Gli Stati Uniti, a rigor di bilancio, non riuscirebbero nemmeno a pagarsi la guerra permanente che hanno intrapreso.
L'Europa a 25, se esistesse una entità effettivamente unitaria da poter chiamare così, ha quasi il doppio degli abitanti rispetto agli Stati Uniti, il 30% in più sulla produzione interna di valore, una quota superiore dell'interscambio mondiale e una capitalizzazione di borsa quasi uguale (in euro; in linea teorica il prezzo a cui si potrebbero acquistare tutte le aziende quotate). L'agglomerato capitalistico europeo è una minaccia di per sé, senza bisogno di aspettare una impossibile "unificazione". Basta che si verifichi una naturale sincronia di atteggiamenti dovuta al mercato per mettere gli Stati Uniti in enormi difficoltà. Senza unione geopolitica la nuova moneta europea è solo un travestimento per le vecchie monete nazionali, ma verso l'estero si comporta effettivamente come valuta unica, emessa da una banca sovranazionale invece che nazionale.
Le maggiori transazioni in dollari sono quelle che hanno come oggetto il petrolio, ma tutti i mercati delle materie prime sono basati sul Dollaro e gran parte di quelli dei manufatti e dei servizi. Se nel commercio internazionale e nello scambio valutario l'Euro dovesse mai riscuotere la stessa tradizionale fiducia che riscuote la moneta statunitense esso le si potrebbe benissimo affiancare sia nelle transazioni commerciali che come moneta di riserva, arrivando in molti casi a sostituirla.
Nel novembre del 2000 l'Iraq aveva chiesto all'ONU, che detiene 10 miliardi di dollari iracheni per il programma Oil for food, di poter conteggiare la propria rendita petrolifera in euro. L'Iran, il Venezuela e la Corea del Nord hanno incominciato a diversificare la moneta di riferimento, mentre la Cina ha annunciato che ricostituirà in euro parte delle sue enormi riserve. Sarà un caso, ma l'Euro, che comprava 0,9 dollari alla sua nascita (gennaio 2002) dopo alcuni mesi ne comprava 0,85, mentre oggi (giugno 2003) è arrivato a quasi 1,2, cioè un'escursione massima pari al 40%, che è un'enormità, se si pensa agli effetti che si possono riversare sull'interscambio nelle due valute, per di più in un contesto economico mondiale in cui la crescita effettiva è quasi nulla. Con un apprezzamento del genere la stessa Russia sarà prima o poi tentata di fatturare petrolio in euro, dato che il 60% dell'interscambio russo è con paesi dell'Europa. Se l'anno prossimo, come previsto, entreranno nell'unione monetaria la Gran Bretagna e la Norvegia, anche il petrolio del Mare del Nord (Brent), il cui prezzo fa da riferimento mondiale, sarà trattato in euro.
Petroldollari e petroleuro
Si tratta di un processo in grado di sconvolgere il mondo capitalistico e minare dalle fondamenta la potenza americana, la quale non si basa più, è bene ribadire, sulla supremazia quantitativa ormai tramontata, ma sugli effetti che essa ha prodotto quando c'era, cioè sul predominio economico-militare e l'egemonia del Dollaro ereditati dal passato. L'egemonia valutaria, già in pericolo alla fine degli anni '60, fu rinforzata drasticamente ritirando il Dollaro dal sistema di riferimento aureo e rendendolo inconvertibile (con Nixon, 1971). Il Dollaro divenne l'unica moneta che si potesse emettere per decreto in base alla produzione altrui, dato che veniva utilizzato fuori dagli Stati Uniti e lì si moltiplicava, tramite i meccanismi di produzione e scambio attraverso le frontiere, rimanendovi. In più le riserve venivano investite in titoli, spesso denominati in dollari: e ogni titolo denominato in una certa moneta, indipendentemente da chi lo emette e dove, cade sotto il diritto del paese cui quella specifica moneta si riferisce. Perciò oggi il mercato internazionale è in un bel paradosso: il mondo non americano produce merci e gli Stati Uniti producono i dollari virtuali con cui comprarle senza che vi sia inflazione, dato che la crisi ha ridotto investimenti, consumi e utilizzo di materie prime e quindi ha impedito la crescita dei prezzi.
Essendo il Dollaro diventato praticamente l'unica moneta per le riserve valutarie di ogni paese, ecco che esso è commerciato da chi ne ha bisogno per accedere sul mercato, dove, in aggiunta, le merci sono prezzate in dollari. Questa situazione, diventata sistema, è difesa sia da chi possiede dollari che da chi ne ha bisogno, perciò si rafforza la dipendenza di ogni paese dalla moneta statunitense, e il sistema finisce per possedere una forte autoreferenzialità che contribuisce a rinvigorire il sistema del Dollaro.
Ne nasce un perverso equilibrio, ben accetto sia agli Stati Uniti che a chi commercia con loro: gli americani comprano più di quanto vendano e sono perennemente in debito commerciale, quindi hanno tutto l'interesse ad avere una moneta forte; gli europei, i giapponesi e in genere gli asiatici vendono più di quanto comprino, quindi hanno tutto l'interesse a dare merci in cambio di denaro forte.
Tutto ciò ha funzionato fino a che ha resistito la fiducia nel Dollaro e nel sistema che rappresenta. Ma tale fiducia è basata sulla presunzione irrazionale che la potenza qualitativa residua americana equivalga alla passata potenza quantitativa. A minare questa potenza sempre più virtuale è intervenuta la lunga crisi di produzione del plusvalore, e il Dollaro, che rimane però sempre la valuta di gran lunga più utilizzata ed è creata in continuazione, diventa un mezzo per il trasferimento di valore dal resto del mondo verso gli Stati Uniti.
Siccome il petrolio è la materia prima principale, il controllo dei flussi petroliferi è automaticamente controllo dei flussi di valore, monetizzati in dollari, che da esso derivano. Un complesso come l'Europa esporta già più merci di quante ne importino gli Stati Uniti e importa più petrolio. Se aggiungiamo il peso della Russia e della Cina, le cui riserve valutarie stanno già convertendosi in euro, è facile capire che, se l'Europa diventasse una realtà unitaria, fra alcuni anni potrebbe diffondere nel mondo la sua moneta egemone. A questa prospettiva si aggiunge quella della formazione di un complesso come quello della "finanza islamica", la quale tende a controllare i flussi di petrolio e l'enorme quota di valore che in esso si cristallizza. Per quanto siano praticamente impossibili sia gli Stati Uniti d'Europa che un blocco unitario dei paesi islamici, di fronte a questo pericolo gli Stati Uniti d'America non possono neppure pensare di perdere la loro funzione predominante.
Di petrolio ce n'è tanto, e se ne scoprirà ancora. Gli Stati Uniti sono il primo consumatore mondiale, ma anche il terzo produttore. Ne acquistano la maggior parte fuori dal Medio Oriente. È sbagliato pensare che il petrolio sia lo scopo della guerra americana: esso è piuttosto una delle armi con cui è combattuta.
Scrive Luttwak nel libro citato all'inizio: "Il declino economico dell'America, anche se è solo relativo, non potrà rimanere puramente economico". A meno che, aggiunge, non vi sia un mega-piano macroeconomico globale, pilotato da Washington, dove l'indirizzo dei capitali sia "l'equivalente della potenza di fuoco dell'esercito". L'applicazione del mega-piano si è rivelata impossibile per una banale ragione di denaro: non c'è più l'esuberanza di merci e capitali che c'era al tempo del Piano Marshall. Non rimane che contare sul valore che circola con il petrolio, supportato dalla potenza di fuoco dell'esercito, quello vero, fatto di macchine e uomini. Ma, come cercheremo di dimostrare, non basterà ancora.