Teoria e prassi della nuova politiguerra americana (3)
II. Il secolo delle guerre mondiali
Alle radici: che cos'è la guerra?
Domanda non banale, se teniamo presente che, per esempio, gli americani considerano "guerra" l'attacco dell'11 settembre 2001, mentre per altri è solo un "atto terroristico". Conseguentemente, gli americani considerano guerra anche il rapporto tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, e a ragione, secondo noi, perché l'attacco specifico si inserisce in uno stato di guerra generalizzata. Altri ancora adottano criteri differenti, come il grado d'intensità della guerra, per cui quella "vera", la guerra per eccellenza, quella interimperialistica come le due guerre mondiali passate, dovrebbe venire in seguito, al termine di questi decenni di "pace", ovvero di "interguerra" fra la Seconda e la Terza Guerra Mondiale. Noi, in linea con la corrente storica cui facciamo riferimento, riteniamo che tale criterio, pur non essendo incoerente dal punto di vista logico, sia fuorviante per la comprensione del periodo in cui stiamo vivendo e soprattutto degli sviluppi futuri. Non è solo la logica che ci deve guidare.
La definizione che tutti comunque accettano è quella che von Clausewitz dà all'inizio dell'800 nel suo celebre trattato: "La guerra è un atto di forza per costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà". Non viene precisato come si debba concretizzare l'atto di forza, è detto soltanto che la forza è il mezzo e la sottomissione dell'avversario è lo scopo. Nel testo della nostra corrente Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe si afferma più o meno lo stesso concetto: non c'è bisogno di veder scorrere il sangue per individuare la violenza, essa nella maggior parte dei casi raggiunge il suo scopo rimanendo allo stato potenziale. Il dominio democratico della borghesia negli Stati Uniti, per esempio, passa per essere meno violento di altre forme sociali che la storia ha conosciuto, ma è frutto del più potente apparato di costrizione mai esistito, la cui violenza potenziale sulla propria popolazione è infinitamente superiore a quella in atto, cioè esercitata con le armi in giro per il mondo.
Partiamo dunque dal presupposto reale che il mondo capitalistico è di per sé impregnato di guerra: fra le classi e all'interno di esse (concorrenza), fra etnie e fra Stati, ecc. Marx considerava la lotta economica immediata come un embrione di guerra civile. Anche a circoscrivere il concetto di guerra al solo ambito del combattimento, siamo costretti a richiamare un gran numero di fenomeni e non solamente lo scontro fisico con eserciti, cannoni, navi e aeroplani. In Palestina c'è una guerra definita "atipica" ma che decenni di combattimenti hanno fatto diventare "tipica".
I lettori ricorderanno che il 12 settembre 2001, il giorno successivo all'attacco a New York e Washington, scrivemmo nel nostro bollettino via Internet: "Essendo impossibile da parte di chiunque una guerra aperta contro gli Stati Uniti, questa che vediamo oggi in forma così eclatante è la forma sostitutiva che prenderà piede ". E continuavamo: "Dopo questo atto di guerra che, date le premesse, non possiamo neppure chiamare impropria, gli Stati Uniti si sentiranno liberi di agire fino in fondo, allargando le aree 'sensibili', come si dice in gergo militare, ed estenderanno il loro intervento ovunque vi sarà un focolaio di 'disordine' in grado di mettere in discussione l'ormai improcrastinabile nuovo ordine mondiale".
Dunque avevamo subito definito ciò che era accaduto come un episodio della guerra generale che da più di sessant'anni insanguina il pianeta con centinaia di milioni di morti. Non si trattava di una definizione inventata sui due piedi ma, com'era documentato nel bollettino, di una descrizione di fatti che non erano altro che la continuazione di altri fatti simili analizzati dalla nostra corrente già alla fine degli anni '40. La tesi era molto semplice: la Terza Guerra Mondiale avrebbe potuto non seguire lo schema delle prime due e prendere "una forma cronica di conflitto" in cui gli schieramenti avrebbero stabilito le proprie partigianerie. Il tradimento politico da parte degli pseudocomunisti russi, togliattiani, ecc., tipico dei comportamenti oscillanti dei ceti medi, sarebbe consistito, più che nel vendersi a una parte, soprattutto nel fatto di "rinunziare in partenza a decifrare il grande problema teorico e storico delle ragioni e dei fini dei contendenti". Inoltre, se gli Stati Uniti avessero consolidato la loro potenza in modo tale da non avere più avversari in campo militare, per la prima volta nella storia avrebbe avuto completa verifica sperimentale il celebre principio di deterrenza: si vis pacem para bellum del romano Vegezio Flavio (IV secolo d.C., principio peraltro già enunciato dal cinese Sun Zu (IV secolo a.C.). La guerra non sarebbe stata eliminata, ovviamente, ma avrebbe assunto altri caratteri.
Negli anni '50 il concetto fu precisato con alcune considerazioni sulle possibilità della rivoluzione in un'epoca in cui gli Stati Uniti erano un imperialismo ormai consolidato a livello mondiale e in grado di intervenire ovunque con i loro eserciti macchinizzati, e fu ricordato che guerra e rivoluzione non vanno tanto messe in sequenza quanto in antitesi. In breve: era sempre valida la parola d'ordine di Lenin "trasformare la guerra imperialistica in guerra di classe", ma, nell'epoca del massimo imperialismo di segno americano, la guerra andava "bloccata al suo scatto", perché il suo sviluppo avrebbe schiacciato il proletariato mondiale, ben peggio di quanto l'avesse fatto nel 1919 in Occidente e nel 1939 ovunque. Del resto Lenin e Trotsky, già nell'ambito della Rivoluzione d'Ottobre, contro un potere ridicolo in confronto a quello americano, sostenevano che la rivoluzione, per essere vittoriosa, doveva intaccare anche dall'interno le strutture di conservazione dell'avversario. Per converso, il proletariato non deve farsi intimidire dallo scintillìo delle armi, che persiste persino quando, pur impugnandole ancora, la classe dominante è già storicamente disfatta e non è più in grado di usarle come in precedenza. La previsione scientifica sulle modalità della rottura rivoluzionaria deve basarsi su di un'analisi che riesca a penetrare in profondità, scorgere i reali rapporti fra le classi, capire le potenzialità della situazione. In Russia, alla vigilia dell'Ottobre, la maggioranza dei capi bolscevichi non avvertì la svolta nei rapporti di forza, sopravvalutò il nemico e sottovalutò la marea montante proletaria, rischiando di far fallire l'insurrezione fortemente voluta da Lenin e dalla minoranza bolscevica; in Germania, al contrario, le disomogenee forze della rivoluzione sopravvalutarono sé stesse e sottovalutarono l'avversario, precipitando da una sconfitta all'altra.
La guerra globale iniziò ben prima dell'11 settembre
La periodizzazione delle guerre è agevole quando esse sono limitate nel tempo, ma percorrendo la storia troviamo lunghi periodi in cui pace e guerra non si distinguono: nella Grecia antica, la Guerra del Peloponneso durò 28 anni; nel medioevo ci fu la Guerra dei Cent'anni; nel '600 quella, terribile, dei Trent'anni. La Prima e la Seconda Guerra Mondiale si possono datare con precisione, ma la Guerra Fredda, per esempio, copre un lungo arco di tempo e presenta degli episodi più sfumati anche se non meno feroci e sterminatori di quelli delle grandi guerre. La guerra civile in Cina, in cui gli Stati Uniti appoggiarono massicciamente Chiang Khai Shek, costò, dal 1927 al 1949, 50 milioni di morti; alla caduta di Sukarno, nel 1965 in Indonesia, furono massacrati cinquecentomila "comunisti" in una notte; lo stillicidio di guerre tribali in Africa, fomentate dagli ex colonialisti e dagli Stati Uniti hanno provocato finora decine di milioni di morti ( in Congo, per esempio, 2 milioni dal 1998 ad oggi). Negli ultimi cinquant'anni i soli Stati Uniti hanno organizzato 300 distinte missioni di guerra. Difficile giungere al totale di tutte, e a maggior ragione è impossibile il calcolo delle vittime: c'è chi parla di 200 milioni di morti, ma quelli provocati da fame, malattie, ecc. che le guerre lasciano dietro di sé non li conterà mai nessuno.
Gli attributi che definiscono una guerra vengono aggiunti in un momento successivo, in genere dai militari o dagli storici. La Guerra cosiddetta Fredda, che fu invece caldissima e coinvolse il pianeta più di tutte quelle che la precedettero, fu chiamata così alla fine degli anni '40, quando ormai era evidente che il conflitto appena concluso era sfociato in un altro. Il quale, dato che l'aggettivo passato alla storia si è poi rivelato un puro eufemismo, avrebbe potuto essere chiamato a ragion veduta Terza Guerra Mondiale. È un'ipotesi che fece la nostra corrente nel 1949 e ci va bene.
Con il collasso dell'URSS non è finita la guerra nel mondo, ma è senz'altro cambiato l'assetto imperialistico. Oggi ne vediamo le conseguenze e anche le prospettive non sono troppo oscure: l'unipolarismo sarà trattato come fenomeno planetario irreversibile; gli Stati Uniti l'hanno dichiarato più volte e hanno iniziato a muovere gli eserciti in tal senso. Perciò, continuando con la periodizzazione operata dalla nostra corrente, potremmo affermare che siamo all'inizio della Quarta Guerra Mondiale. Se adesso lo dicono anche il filosofo Baudrillard e l'ex capo della CIA Woolsey… beh, constatiamo semplicemente che sono arrivati in ritardo di cinquant'anni.
Naturalmente quel che ci interessa non è tanto il nome che si dà ai vari periodi in cui si suole suddividere la storia, quanto la sostanza degli svolti storici che li delimitano: abbiamo avuto due guerre mondiali, ed è chiaro; una guerra denominata "fredda", ed è abbastanza chiaro. Non è forse chiaro adesso, ma sarà chiarissimo nei prossimi anni, che abbiamo anche una guerra planetaria per la sopravvivenza non solo degli Stati Uniti ma del sistema capitalistico in quanto tale. Ricordiamo, a proposito della visibilità della guerra e della possibilità di riconoscerla da parte degli uomini coinvolti, che i sei mesi trascorsi fra l'invasione della Polonia (settembre '39) e l'inizio dell'offensiva tedesca sul fronte occidentale (aprile '40) sono passati alla storia col nome di "guerra fasulla", coniato dalla stampa americana quando nessuno pensava si fosse già in quella che fu poi chiamata giustamente "II Guerra Mondiale".
Stabilita questa periodizzazione, per ogni fase andrà bene qualunque nome o numero si voglia adottare, basta che ci si capisca sul suo significato. Abbiamo dunque le guerre I, II, III e IV, all'interno delle quali vengono combattute delle battaglie. Sulla base delle stesse determinazioni storiche possiamo anche stabilire una periodizzazione identica a partire dall'ascesa degli Stati Uniti verso il loro incontrastabile (attualmente) dominio mondiale (tab. 1). Tolta una fase zero, di rivoluzione nazionale e di stabilizzazione, abbiamo le fasi: USA-I, pluri-imperialistica, dal 1898 al 1918, guerra contro la Spagna, proiezione sul Pacifico e poi verso l'Europa; fase USA-II, multipolare, dal 1919 al 1945, demolizione dell'apparato imperialistico della vecchia Europa, occupazione militare dei vinti; fase USA-III, bipolare, dal 1946 al 1990, imposizione della complementarietà del mercato di merci e capitali europeo e giapponese con quello americano, contenimento dell'URSS; fase USA-IV, unipolare, dalla Prima Guerra del Golfo del 1991 in poi, tentativo di pax americana sull'intero pianeta.
Per il tema che qui c'interessa l'ultima battaglia della fase USA-IV è quella dell'Iraq, la penultima è quella dell'Afghanistan, la terzultima è quella di New York e Washington. Una battaglia ancora in corso e ben lontana dalla soluzione fu accesa dagli Stati Uniti sessant'anni fa, quella in terra di Palestina.
Si prospettano quelle di Siria, d'Iran, d'Arabia Saudita o di Corea, sulla strada che porta necessariamente all'Asia centrale, poi alla Cina. Quale potrà essere di volta in volta l'obiettivo dipende da molti fattori, ma è certo che la battaglia ci sarà. Per la semplice ragione che, in un mondo globalizzato, non esistono più guerre locali, solo battaglie di una guerra generale, come fu scritto nel '50 in occasione della guerra di Corea: "Su un piccolo spazio si condensava, stringendo i tempi, tutto l'arroventato potenziale esplosivo di un contrasto mondiale, e più che in qualsiasi precedente episodio di guerre localizzate si proiettavano come su uno schermo tragico le forme che questo contrasto è destinato necessariamente ad assumere in tutto il mondo" (Corea è il mondo). E non è vero che la fase USA-IV non sia un guerra "dichiarata", lo è, eccome, con tanto di documenti ufficiali.
Periodizzazione | Fatti caratteristici |
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Fase USA-Zero (1776 - 1897) Formazione e stabilizzazione |
Francia e Spagna aiutano i coloni contro l'Inghilterra; Indipendenza; denuncia delle "alleanze durevoli" con l'Europa (Farewell Address, 1796); espansione all'Ovest e massacro sistematico dei nativi; tentativo di conquista del Canada e contrattacco degli inglesi che distruggono Washington; acquisto della Luisiana dalla Francia, della Florida dalla Spagna e dell'Alaska dalla Russia; "Conquista del West"; "Dottrina Monroe", l'Europa stia fuori dalle Americhe; guerra contro il Messico e annessione di Texas, New Mexico, California, Colorado, Nevada e Arizona; Guerra di Secessione; vittoria della borghesia industriale contro quella agraria. |
Fase USA-I (1898 - 1916) Espansione imperialistica |
La marina americana diventa la prima del mondo; crollo dell'impero britannico sull'Atlantico; Guerra contro la Spagna; conquista dei Caraibi e delle Filippine (i guerriglieri filippini saranno i primi partigiani usa-e-getta); annessione delle Hawaii ed espansione sul Pacifico; T. Roosevelt inaugura la politica imperialistica del "grosso bastone" (protettorati finanziari sugli Stati dell'America centro-meridionale, diritti su Panama e prelazione sulla costruzione del Canale). |
Fase USA-II (1917 - 1940) Imperialismo del Dollaro |
Guerra alla Germania e all'Austria-Ungheria; enunciazione delle condizioni di pace ("14 Punti di Wilson"); molteplici trattati e piani portano gli Stati Uniti alla posizione di arbitro internazionale fra i vecchi imperialismi; crollo di borsa dall'indice 425 (1929) a 58 (1932); alla Conferenza di Losanna (1932), arbitri gli USA, risulterà che la Germania ha incassato più prestiti dagli americani di quante riparazioni abbia dovuto pagare a Francia e Inghilterra; New Deal rooseveltiano (riforme agraria, industriale e del lavoro, piano per lavori pubblici, ecc.); abolizione delle leggi sulla neutralità; riarmo accelerato; legge sui "prestiti senza rimborso in denaro" per il riarmo dell'Inghilterra (1938-39); finto isolazionismo. |
Fase USA-III (1941 - 1990) La rete di controllo mondiale |
Guerra contro l'Asse; nascita a Yalta del mondo "bipolare"; occupazione militare e piani di nation building per Germania, Italia e Giappone; nascita degli organismi di controllo internazionale, ONU, NATO, SEATO, ANZUS, GATT, FMI, BRI (e "sociali" FAO, UNESCO, UNICEF, ILO; patti bilaterli USA con singoli paesi; lotta contro i colonialismi inglese e francese; "Dottrina Truman", cioè appoggio a qualsiasi regime possa risultare utile alla politica americana contro il "comunismo"; maccartismo interno; guerre di Corea e del Vietnam; 300 proxi wars, guerre per procura, finanziate e condotte da "consiglieri militari" americani; "Dottrina Eisenhower" per l'intervento militare in Medio oriente. |
Fase USA-IV (1991 - ?) World building? |
Scomparsa del mondo bipolare; declino della potenza economica americana e crisi sistemica mondiale; sviluppo di teorie militari di ridisegno del mondo; fine delle proxi wars e intervento diretto. Epoca della compellence (coercizione a fare ciò che ci è utile anche se il nostro avversario non vuole). |
Tabella n. 1.
Un prussiano sagace e la "politiguerra"
La materia è complessa e va trattata con cautela. Ma possiamo procedere con sicurezza perché, come abbiamo detto nel documento del 12 settembre citato, abbiamo alle spalle un patrimonio storico che ha tracciato la strada, noi la stiamo solo percorrendo. La concatenazione dei fatti e degli argomenti, messi in relazione, è il nostro metodo. La condivisione dei dati sulla base di un programma storico è la nostra verifica.
Impostare le citate riunioni sui 28 punti che von Clausewitz pone all'inizio della sua opera come piano generale, poteva sembrare quasi una provocazione: che cosa c'entrava infatti il saggio di un generale prussiano nato nel '700, studioso dell'epoca napoleonica, con la superguerra americana? C'entrava, e avevamo fatto ricorso alla sua traccia per almeno tre motivi:
1) perché in tal modo – e contro i ripetitori di banalità giornalistiche – volevamo rendere evidente la potenza del metodo dell'astrazione (di cui l'autore era ben consapevole, basta leggere la citazione in apertura), che permette di trovare leggi generali invarianti in grado di spiegare fenomeni diversissimi e lontani fra loro nel tempo e nello spazio;
2) perché volevamo spiegare le guerre attuali con il legame dialettico fra guerra e politica, che giunge addirittura a cancellare il confine fra l'una e l'altra, come abbiamo visto e come dimostra la documentazione di fonte americana sulle dottrine di dominio globale;
3) perché volevamo sfruttare volutamente il "vecchio" von Clausewitz per smascherare alcune credenze, durissime a morire, sulla guerra moderna: essa non è generata dall'attitudine politica di certi Stati e di certi uomini, come credeva Kausky, ma è determinata dalla natura stessa del capitalismo giunto alla sua “fase suprema”, gli uomini e gli Stati vi si adeguano, ne sono gli strumenti (a rigor di logica l'imperialismo è un sistema entro il quale si muovono Stati imperialisti, ma non è "americano", "inglese" o "francese").
Non c'è comprensione di fatti complessi senza il ricorso a modelli di astrazione e senza la loro continua verifica con la dinamica reale. In un appunto trovato dopo la sua morte, von Clausewitz ammetteva che si era proposto di trattare gli aspetti della guerra come "grani" la cui concatenazione sarebbe stata lasciata allo specialista militare che avrebbe letto; ma la materia aveva preso il sopravvento su di lui, l'aveva sopraffatto, obbligandolo a scrivere un "sistema" organico che anche i profani potessero comprendere: "Volevo assolutamente evitare tutti i luoghi comuni… mi animava la determinazione di scrivere un libro che non potesse essere dimenticato dopo due o tre anni". Marx, Engels e Lenin ammisero che c'era riuscito: Vom Kriege non è un libro sulla guerra ma un prodotto della guerra, perché, come è ben detto verso la fine dell'opera, "l'arte della guerra, considerata dal suo punto di vista più elevato, si cambia in politica". Dalla guerra come saltuario strumento della politica, dunque, nel corso del lavoro era pervenuto alla guerra come forma della politica. La strada per giungere alla politica-guerra permanente era già quindi segnata. Edward Luttwak – il consigliere militare superfalco dei governi americani – registra il dato di fatto ed escogita due neologismi per spiegarci la natura prettamente offensiva dell'imperialismo sul mercato mondiale e l'identità odierna fra guerra e politica: turbo-capitalismo e geo-economia. Traduciamo: il capitalismo, mandato su di giri da droghe statali, ha bisogno di trovare nuovo spazio vitale per merci e capitali perciò deve avere una strategia economico-militare e armi specifiche (in pratica ricerca & sviluppo, investimenti e supporto statale) da affiancare all'armamentario tradizionale (eserciti, navi, aerei, ecc.); a questa realtà non ci si può sottrarre. Chiamiamo allora questa realtà del XXI secolo, con un altro neologismo, politiguerra.
All'epoca del "Grande Giuoco", evocato dallo scrittore inglese Kipling in Kim, sull'onda dell'espansione coloniale era nata la geo-politica; la Rivoluzione d'Ottobre produsse le tesi sulla questione nazionale in rapporto alle aree geo-storiche; con la guerra fredda nacque la geo-economia: è ovvio che non poteva non esserci l'attuale geo-guerra (geo-, che si riferisce alla Terra). L'opera di von Clausewitz è duratura nel tempo perché anticipa il fatto, diventato eclatante con l'imperialismo, che la vera politica di quest'epoca non è distinguibile dalla guerra. E infatti solo un tartufesco pacifista può immaginare questi ultimi sessant'anni come un'alternanza fra guerra e pace. Il capitalismo, ormai sfiatato, ha bisogno di un turbo-compressore, che cosa c'è di meglio delle armi americane?
Un'ombra cinese
Sono 28 anche i punti nel primo capitolo di L'Arte della guerra, opera di un altro generale, Sun Zu, che visse in Cina 2.500 anni fa. Considerando la guerra come parte integrante di ogni società, governo e nazione, egli non scrisse un manuale per l'attualità, e rimase quindi nella storia per sempre. Il suo trattato superò indenne i roghi di libri ordinati dall'imperatore Shih Huang-ti, fu mandato a memoria e sopravvisse alle altre 790 opere di arte militare riscritte due secoli dopo e andate perse. Il lettore troverà argomenti sparsi ricavati anche dai suoi scritti. Noi abbiamo scelto Sun Zu e von Clausewitz perché i due autori sono effettivamente il punto di partenza e quello d'arrivo per chiunque si accinga a studiare il tema della guerra. Si suole metterli in contrapposizione perché il primo agisce e scrive in un'epoca di passaggio, quando la guerra, pur mettendo già in campo grandi masse di soldati e utilizzando metodi invarianti nelle varie epoche, era ancora caratterizzata da una "moderazione" sociale, ricordo della antichissima guerra rituale, mentre il secondo descrive la guerra come "tendenza all'assoluto". Ciò non è storicamente sbagliato, ma se ci si concentra sul nocciolo assiomatico della guerra, come ben espresso nei punti clausewitziani ai quali ci riferiremo, entrambi trattano della guerra allo stesso modo.
Si tratta di autori a tutt'oggi insuperati, dato che ogni opera prodotta dalla borghesia non ha fatto altro che aggiungere glosse o modificare elementi tecnici non essenziali. Può sembrare strano che il capitalismo, con la sua marcia demolitrice delle società precedenti, non abbia saputo rendere obsoleti questi due pilastri della dottrina militare d'ogni epoca, non sia stato in grado di produrre nulla per andare oltre. Ma le opere di scienza, come le opere d'arte, non sono mai "obsolete", esse vengono semplicemente inglobate nei sistemi di conoscenza successivi.
A dire il vero la borghesia, forse influenzata dal fatto che la sua società è in guerra permanente, anche quando agisce la semplice concorrenza industriale e commerciale, ha partorito una specifica variante di dottrina militare, la "Teoria dei giochi", un tentativo per formalizzare, quindi rendere universale, qualunque scenario in cui sia prevista lotta fra avversari, da un gioco di carte alla guerra atomica (ne parleremo in dettaglio più avanti). Anche Sun Zu, scrivendo un trattato senza tempo, si avvicina alla Teoria dei giochi: "Gli elementi dell'arte della guerra sono la misurazione dello spazio, le valutazioni quantitative, il calcolo, la valutazione delle relazioni e quella delle probabilità". Oppure: "Normalmente il controllo dei molti è uguale alla gestione dei pochi. È solo un problema di suddivisione e numerazione", cioè di organizzazione dei dati disponibili. "Controllare molti è come controllare pochi, è solo un problema di disposizione e di segnali", cioè di flusso d'informazione. Le note musicali sono poche ma danno luogo a infinite composizioni, dice Sun Zu, così gli ideogrammi e i colori. Come dire: ogni sistema complesso funziona quando è in grado di avere delle parti in grado di seguire un programma unico, insomma, di essere organico.
Le attuali concezioni militari, pur facendo uso di mezzi tecnici potenti, come le simulazioni al computer, non hanno superato né Sun Zu né von Clausewitz. Entrambi anticipano le teorie della complessità, dei sistemi e dei giochi. Specie il generale prussiano, in quanto prodotto della vittoriosa rivoluzione borghese, anticipa con precisione le dinamiche non lineari insite nelle teorie ricordate. D'altro canto il modo di fare la guerra è legato all'esistenza o meno delle classi, e una profonda differenza si può individuare solo fra le epoche classiste e quelle precedenti. Nella Cina fino al VI secolo a.C., prima di Sun Zu, per esempio, i conflitti armati avevano caratteri rituali, al punto di non permetterci neppure di chiamarli "guerre".
È importantissimo sottolineare questo fenomeno, dato che serve a capire che la guerra, come la produzione, è soggetta al divenire sociale, e le sue caratteristiche non sono attribuibili a una classe o all'altra. Semmai le rivoluzioni introducono nuovi metodi che poi ogni classe adotta se si dimostrano efficaci. L'esercito di Spartaco, formato di schiavi, combatté contro le legioni di Crasso con le stesse tecniche dell'avversario, mentre l'esercito indipendentista americano combatté contro gli inglesi adottando in certi casi tecniche simili a quelle della controrivoluzione vandeana. L'Internazionale Comunista, a causa della sconfitta negli anni '20, non riuscì a perfezionare la nuova tecnica militare scaturita dalla Rivoluzione d'Ottobre e dall'estrema mobilità cui furono costretti i rivoluzionari nella guerra contro i Bianchi all'attacco su cinque fronti. Introdotta da Trotsky e Tuchacevski, fu impiegata con effetti travolgenti durante il contrattacco su Varsavia nel 1920 (l'insuccesso fu dovuto soprattutto al fatto che i militari ex zaristi passati alla rivoluzione e Stalin non avevano capito l'importanza della guerra di movimento). Fu poi ripresa dalla borghesia fra le due guerre, in particolare da Guderian, Fuller e Liddell Hart (quest'ultimo ricevette da Radek la proposta di andarla ad insegnare nelle scuole di guerra staliniste!). Fu poi detta guerra-lampo, e utilizzata anche nella recente invasione dell'Iraq.
Proprio durante la rivoluzione russa vi furono spinte idealistiche a favore di una specifica "dottrina militare proletaria". Ovviamente, a parte le considerazioni tecniche, una classe che si ripropone di eliminare la guerra dalla società non può avere una "sua" dottrina militare; può utilizzare al massimo le caratteristiche della propria rivoluzione, come fecero i borghesi a Valmy o gli indipendentisti americani con un misto di guerriglia e di tradizione. Come fece notare Trotsky nel corso della rivoluzione, non bisogna confondere la tattica rivoluzionaria, che è data dal grado di maturità del rapporto storico fra le classi, con le modalità della guerra, che comportano la capacità di manovra, la mobilità, le tecniche dell'offensiva, ecc.
Non esiste dunque una specifica "dottrina militare proletaria", ma solo un modo di fare la guerra determinato dalle epoche storiche e dallo stato della scienza e della tecnica applicate alla produzione sociale.
Oleografie da realismo socialista
Quanto sopra nega qualsiasi validità a discorsi pseudorivoluzionari che fanno discendere da particolari tecniche di guerra (guerriglia, "resistenza" partigianesca, forme urbane di lotta armata, ecc.) l'idoneità rivoluzionaria delle forze che le adottano. Purtroppo manca ancora oggi una coerente ed organica "teoria comunista della guerra imperialistica", come si osservava già all'inizio degli anni '60. Ma per sistemare la materia non è certo sufficiente la buona volontà di qualche individuo che sieda al tavolo con una penna in mano. Ci vuole un cervello collettivo. E in ogni modo si deve per forza partire da ciò che di più completo abbiamo finora a disposizione. Per questo riprendere i 28 punti di von Clausewitz, che sono prodotti del pensiero idealista col quale non abbiamo nulla a che fare, non è una provocazione ma una necessità. Naturalmente li analizzeremo in stretto riferimento al patrimonio marxista.
Altrove abbiamo utilizzato un riferimento diretto ai soli testi della nostra corrente (cfr. i nn. 6 e 10 della rivista), ma per confutare la percezione soggettiva di quanti pensino di essere ancora in un limbo fra due guerre mondiali classiche, è necessario mostrare una continuità nel tempo più vasta. Soprattutto è necessario basare ogni argomentazione sul grande disegno astratto della guerra, prima di mettersi a discutere su tecniche, dottrine, tattiche (politiche) e parole d'ordine.
I punti prussiani, intercalati con qualche tocco di saggezza cinese, bastano e avanzano per affrontare la guerra infinita dell'America odierna e demolire certe oniriche visioni della guerra futura, indotte più dai quadri del realismo socialista che dalla semplice osservazione della realtà effettiva. Nel corso dell'invasione anglo-americana dell'Iraq alcuni raggruppamenti di "sinistri autentici" arrivarono ad auspicare una Stalingrado mesopotamica in cui i soldati e la popolazione si sarebbero dovuti impegnare in una sorta di "resistenza" anti-imperialista allo scopo di infliggere forti perdite agli invasori. Mancava solo che esaltassero di nuovo le barricate come nel '68.
Ora, per quanto la tracotanza imperialistica e la propensione al massacro dei sedicenti liberatori siano difficili da digerire, dal punto di vista militare simili visioni resistenziali sono solo fesserie. Nessuna guerra ha come obiettivo quello di infliggere qualche perdita al nemico, e soprattutto solo dei fuori di testa possono auspicare uno scenario di "resistenza" fra iracheni e americani, tenendo conto dell'immensa differenza di armamento, nel contesto di una città "orizzontale" come Baghdad, con i suoi sei milioni di abitanti, senza una retrovia da cui fare affluire armi e rifornimenti. I soldati iracheni hanno contrastato bene la micidiale macchina da guerra scatenata contro di loro, meritandosi l'elogio degli esperti militari; hanno coinvolto il meno possibile le città, limitandosi a rallentare l'avanzata del nemico nelle periferie e nei nodi stradali; si sono ritirati in buon ordine attraverso le vie di fuga lasciate appositamente dagli anglo-americani; si sono infine confusi nella popolazione evitando non solo di farsi ammazzare inutilmente, ma anche di andare a riempire i grandi campi di concentramento che nel frattempo il nemico stava costruendo. È verosimile che ci fossero ordini precisi in questo senso da parte dello Stato Maggiore, mentre è meno credibile la storia degli improvvisati "tradimenti", almeno nelle versioni che i media hanno fatto circolare. È evidentemente servita l'esperienza della guerra precedente, con lo spaventoso e inutile massacro delle truppe, esposte senza difesa ad un macabro tirassegno nel piatto deserto d'Iraq.
Affermiamo di sfuggita che, dal punto di vista militare, anche la reciproca carneficina della Stalingrado originaria, secondo l'azzeccata espressione di Talleyrand, "fu più di un crimine, fu un errore". Mentre però l'errore tedesco è stato analizzato nei dettagli, tattici e strategici, quello russo è stato minimizzato e anzi, coperto da un'aura di leggenda eroica. Quasi tutta la conduzione della guerra da parte russa, soffrì dell'ottusità dei generali stalinisti che avevano rinnegato la guerra meccanizzata di movimento inventata dalla rivoluzione. La sconfitta epocale della Russia era già scritta nella sua politica di basso profilo storico, di fronti unici (catastrofe cinese), di alleanze (patto del '39 con la Germania), di strategia (la stessa di Kutuzov contro Napoleone, ma nell'epoca delle divisioni corazzate con copertura aerea!), di tattica sul campo (resistenza trincerata).
I 28 punti che vedremo uno per uno in questo nostro testo bastano e avanzano anche per demolire alcune sub-teorie fantapolitiche basate sull'individuazione più o meno fantastica, negli USA, di schegge impazzite della borghesia, di complotti plutocratico-sionisti, di gangsterismo lobbistico dell'apparato politico-militare. Non è difficile dimostrare che la gang bushita, il sionismo, l'affarismo, il militarismo, ecc. non fanno che razzolare nell'esistente, anche se alla fine sono tutti elementi che contribuiscono ad innalzare all'onor delle cronache un gruppo di pressione (si tratta dei neocons, come li chiamano negli Stati Uniti) che vaneggia addirittura attorno a un progetto per il nuovo secolo americano (Project for a New American Century), una rivoluzione guidata dall'alto, nemmeno se fosse rinato un Bismarck globalizzatore. Ma Bismark non aveva solo le truppe, aveva anche un programma politico, economico e sociale, che lo portò a trafficare persino con il movimento operaio lassalliano. Non fu lui a "fare" la rivoluzione tedesca dall'alto: fu la rivoluzione borghese europea, venuta meno sul campo, che lo adoperò, con tanti altri, per giungere a compimento. Non appena costoro non furono più in grado di capire, e quindi di eseguire, la politica borghese, furono spietatamente messi da parte. Mostrare la piccolezza dei "grandi" è sempre stato un lavoro che Marx affrontava con feroce ironia, solo che in questa nostra epoca decadente dove sono i "grandi"? Ce la prenderemo con il materiale disponibile, ma è come sparare sulla Croce Rossa.
"Gli Stati Uniti sono la potenza prevalente nel mondo", scrivono i neocons; "avendo guidato l'Occidente alla vittoria nella Guerra Fredda, sono di fronte a un'opportunità e a una sfida: hanno ora una visione abbastanza ampia per costruire su ciò che le decadi passate hanno conseguito? Hanno la determinazione sufficiente per plasmare un nuovo secolo per favorire i principi e gli interessi americani? Respingendo la sfida, corriamo il pericolo di dissipare ogni opportunità. Noi stiamo vivendo del capitale accumulato nelle precedenti amministrazioni, sia in investimenti militari che in risultati nella politica estera. Rinunce nel campo degli affari esteri, tagli nella spesa militare, disattenzione verso gli strumenti dell'arte di governo, incostanza nella leadership rendono sempre più difficile mantenere l'influenza americana sul mondo. E l'illusione di ottenere benefici economici a breve termine minaccia di avere la priorità sulle considerazioni strategiche. Di conseguenza stiamo mettendo in pericolo la capacità della nazione di affrontare le attuali minacce e le potenziali sfide sempre più grandi che si presenteranno" (Statement of Principles).
Come si vede, in queste sub-teorie fantapolitiche non c'è nessun progetto razionale per nuovi assetti del mondo, semmai ci sono delle banali constatazioni su come le cose si stiano mettendo male per la borghesia americana, e dei suggerimenti sulla disperata conservazione dello stato di cose esistente contro il cambiamento. Da questo punto di vista non è neppure corretto parlare di neo-conservatori, il prefisso risulta del tutto inutile. Il cambiamento, il nuovo, è rappresentato da un mondo capitalistico che si integra nonostante l'effetto reazionario dell'imperialismo (senza aggettivi nazionali), da un mondo che spinge per una nuova divisione sociale del lavoro e che in ultima analisi estende le condizioni per il suo stesso superamento. E non c'è programma borghese che possa resistere all'assalto della società nuova, c'è solo il tentativo follemente disperato, da parte della borghesia americana, di fermare il mondo nella sua corsa irreversibile verso di essa.
Riteniamo che, di fronte ai degeneri nipotini americani di Bismark, sia semplicemente sciocco, da parte dei degeneri nipotini europei di Marx, immaginare una "resistenza partigiana e anti-imperialista" contro la guerra americana al mondo. Partigiana per chi? I paroloni sono gratis sul mercato del luogo comune, ma non può esistere un anti-imperialismo che non sia nello stesso tempo anti-capitalismo, e ciò ha delle conseguenze pratiche sulla concezione del cambiamento, sulla tattica, sull'azione.
La guerra non è un fenomeno che si lasci adoperare.