Teoria e prassi della nuova politiguerra americana (6)
IV. Le velleità egemoniche degli Stati Uniti
Un imperialismo con grossi problemi
Nella politica degli Stati Uniti balzano all'occhio più i programmi unipolaristi e ultra-patriottici che non la struttura imperialistica dello Stato. Perciò sembrerebbero giustificate nuove teorie dell'imperialismo chiamate "globalizzazione" o "impero". Ma tale giustificazione non c'è affatto. Avendo sconfitto le vecchie potenze coloniali e non essendo un paese colonialista secondo i parametri classici, gli Stati Uniti sono costretti, almeno dai tempi di Wilson e della fase USA-II, a muoversi in nome del Capitale globale. A costo di mettersi contro gli alleati concorrenti. In un certo senso è vero che intervengono per la salvezza capitalistica del mondo, che il capitalismo "deve" loro qualcosa e che i paesi "salvati" sono irriconoscenti: l'irritazione dei neocons per il comportamento delle potenze minori ha un fondamento oggettivo.
Così la politica americana diventa in qualche modo la riprova dell'errore di Kautsky con la sua teoria del superimperialismo (un cartello interimperialistico per la spartizione del mondo in grado di bloccare il processo rivoluzionario). Quando comparve la critica di Lenin a Kautsky, le sue implicazioni non erano evidenti come oggi, dato che vi erano realmente imperialismi di potenza più o meno simile in concorrenza o in guerra; le coalizioni erano quindi in effetti passibili di "cartellizzazione". Con l'imperialismo attuale ognuno può, più facilmente di allora, constatare come l'assunto di Lenin fosse esatto: l'imperialismo è la struttura del capitalismo di transizione e non la particolare politica di qualche Stato. Oggi gli Stati Uniti si dichiarano giustamente difensori di tale struttura e non vogliono affatto coalizioni, che sono troppo vincolanti, le ritengono realizzate in via naturale quando sia verificata l'appartenenza alla struttura stessa. Chi ne è fuori o ne uscirà sarà automaticamente bersaglio della politiguerra.
Questo sottofondo storico fa sì che, in alcuni articoli, la frazione borghese oggi al governo degli Stati Uniti risponda a tono alle teorie sul preteso impero americano, trattandole come amene fesserie. Non potrebbe essere diversamente. L'America maneggia capitale finanziario in giro per il mondo, controlla buona parte della produzione attraverso di esso, ha una forza armata che solo un pazzo potrebbe sottovalutare paragonandola a qualsiasi altra forza armata esistita ed esistente e sa benissimo di somigliare meno all'impero romano, ai vecchi imperialismi o a fantomatici imperi postmoderni che… a sé stessa. Sa di essere il soggetto per eccellenza di un mondo diventato unipolare ma sa anche di dipendere dal mondo, per il bisogno di plusvalore, più degli imperi che rastrellavano oro e grano dalle province. L'America non ha province e non ingloba più territori altrui. Pretende "solo" che la politica estera degli altri paesi sia un suo affare interno, e come tale vada trattata. Il problema è un ordine mondiale che permetta una profittevole circolazione di merci e capitali. L'alternativa non sarebbe soltanto una crisi passeggera, sarebbe la vittoria delle forze in grado di seminare il caos (cfr. The National Security Strategy cit.).
Nei documenti dei suoi portavoce si parla di leadership (egemonia, primato), e viene rifiutato con sdegno il termine rule (governo, dominazione) che altri adottano. Non è semplicemente una precauzione lessicale propagandistica (gli attuali governanti americani se ne fregano delle precauzioni); per l'America la guerra non è che uno strumento e, anche se manca la metà politica, come abbiamo visto, non è più intesa come mezzo di conquista ma di liberazione. Del resto a che servirebbe oggi controllare direttamente il territorio? Il controllo si può attuare con altri strumenti. Mostrando al mondo l'esempio eclatante dell'URSS, l'America rivendica sfacciatamente la sua vittoria ottenuta su un grande paese nel lungo periodo, senza sparare un colpo e senza che le sue truppe abbiano varcato i confini. Con l'esempio dell'Afghanistan, dell'Iraq mostra l'alternativa immediata contro i piccoli paesi che non vogliono rientrare nel sistema imperialistico.
Più difficile riconoscere che ogni vittoria dell'America, storica o immediata, mette in contraddizione l'intero sistema ed è pericolosa anche per il mantenimento della sua stessa leadership. È vero che la Russia è ormai ridotta a sopravvivere rinunciando a parte della propria produzione interna, e quindi vendere a basso prezzo materie prime in cambio di manufatti e alimenti. È vero che gran parte del mondo è ridotta nella stessa situazione. È vero quindi che gran parte del mondo è soggetta a facile controllo. Ma se ciò produce un benefico effetto sull'economia americana, e per riflesso su quelle dei paesi a vecchia industrializzazione, è anche vero che alla lunga il capitalismo non può vivere di solo prelievo. Deve per forza allargare il mercato mondiale, la produzione e la circolazione delle merci, insomma, la sempre rinnovata produzione di valore (cioè plusvalore + salario, non è mai possibile produrre solo plusvalore).
Come dimostrammo nel nostro Quaderno sull'accumulazione, la rendita è un tramite indispensabile per la raccolta di plusvalore nella società, e per la sua re-immissione nel ciclo produttivo sotto forma di capitale da prestito tramite il sistema del credito. Per inciso, questa è la definizione originaria di capitale finanziario (capitale per il finanziamento all'industria) data da Hilferding e utilizzata da Lenin. La crescita enorme della massa di capitale speculativo che oggi viene identificato come capitale finanziario e che qui traducono con finanziarizzazione, è più correttamente chiamata dagli americani securitisation, cioè azionarizzazione, titolarizzazione, ovvero trasformazione delle attività propriamente finanziarie in attività speculative, attraverso titoli di ogni genere non solo sulle attività produttive ma anche e soprattutto su quelle finanziarie (derivati, futures, opzioni, ecc.).
L'enorme contraddizione sta dunque nel fatto che l'attuale controllo sembra funzionale, ma lo è solo nel periodo di transizione fra la grande accumulazione della fase USA-III e quella che si spera di "accendere" nella iniziata fase USA-IV. La transizione dovrà essere breve, portare a risultati apprezzabili nel campo economico e sociale, altrimenti la sua durata provocherebbe una dinamica destinata a produrre catastrofici effetti, come già si può constatare in Afghanistan e in Iraq.
Noi siamo certi che l'effetto deflattivo che deprime attualmente l'accumulazione è dovuto all'ignoranza da parte borghese dei veri meccanismi di produzione del valore. Per cui vi è stata una corsa all'aumento del profitto individuale ottenuto con la restrizione della base produttiva, del numero di salariati e del plusvalore che va alla rendita (solo il petrolio ha mantenuto i prezzi, mentre quelli delle altre materie prime, specie di origine vegetale, sono mediamente crollati). Questa è la dinamica che il capitalismo dovrà bloccare, o meglio, rovesciare, innescando un ciclo di produzione locale di plusvalore, ridisegnando sul serio l'economia mondiale.
Ma il problema politico è più grande di quello economico. La leadership, con buona pace dei neocons, non è accettata così universalmente come vorrebbero costoro. La guerra in corso, visualizzata solo parzialmente dall'attacco a Washington a New York, a Kabul e a Baghdad, dimostra per esempio che l'egemonia "giusta e compassionevole" si può imporre solo con le armi. L'URSS è vinta, non convinta. Gli amici d'Europa e il Giappone sono in realtà nemici latenti (e neppure troppo). Siamo sicuri anche noi che i soldati se ne andranno dai paesi invasi. Ne resteranno quanti bastano (pochi) in basi isolate, discretamente lontane dalla vista e dalle fucilate. Ma un conto è controllare l'Oceano Indiano dall'atollo di Diego Garcia che vi sta in mezzo, un conto è controllare un mondo pieno di campi, fabbriche, città, strade e uomini che – sembra impossibile – non vogliono saperne della via americana alla felicità e al benessere.
I neocons non agiscono di sicuro in base a un modello della produzione del plusvalore. Ma sono certamente l'espressione di una dinamica storica che non può contemplare il persistere di una situazione che porterebbe gli Stati Uniti al collasso e il mondo al caos (o alla rivoluzione). In questo senso hanno ragione: per i nuovi compiti di leadership, che circa cinque miliardi di uomini non accolgono ancora con troppo entusiasmo, le armi attuali non bastano e il budget militare è ridicolo: dopo che Bush l'ha quasi raddoppiato è ancora la metà di quello che aveva firmato Kennedy (in rapporto al PIL). Si capisce bene che le truppe disponibili si sentono sovraccariche di compiti. D'altra parte monitorare il mondo, e intervenire volta per volta invece di occuparlo stabilmente, richiede tecnologie avanzate, e queste costano. Meno di un'occupazione con le legioni, ma costano.
I neocons si limitano a queste poche, semplici considerazioni, e perciò sostengono di essere accusati a torto, di non auspicare nessun impero e di non volere altro che gli Stati Uniti rimangano sé stessi. Alla fine della fase USA-I gli Stati Uniti ritirarono i due milioni di soldati dall'Europa; dopo la fase USA-II ne lasciarono solo un milione – sui 12 che avevano mobilitato – nei paesi vinti; durante la fase USA-III li diminuirono drasticamente; all'inizio della delicata fase USA-IV – proprio quando sono attaccati sul loro territorio – hanno ridotto i loro contingenti all'estero a meno di mezzo milione (a parte le truppe di occupazione in Afghanistan e Iraq). Eppure potrebbero dislocare in modo più produttivo i loro due milioni di soldati.
Nessuno può dubitare, dal punto di vista razionale capitalistico, che i neocons abbiano ragione, non si può conquistare il mondo alla propria leadership con una spesa militare pari al 3,5% del PIL quando si hanno un miliardo di alleati infidi e cinque miliardi di nemici. Il grosso difetto delle loro teorie, anche dal punto di vista borghese, è che attribuiscono, da veri immediatisti e attivisti, l'insuccesso del luminoso esempio di vita americano e l'odio che suscitano alla colpa di qualcuno, agli esponenti del Male, ai capi tiranni, ai terroristi che conducono la guerra esclusivamente a colpi di "danni collaterali" contro la popolazione civile, per cui basterebbe eliminarli come insetti nocivi affinché tutto si aggiusti.
Cinico pragmatismo e mistica della salvezza
Abbiamo detto che la politiguerra americana è stata finora improntata al pragmatismo. L'ideologia tanto sbandierata della libertà, della democrazia e del diritto non ha mai impedito agli Stati Uniti di infrangere sistematicamente, in giro per il mondo, proprio le regole di libertà, democrazia e diritto al fine di promuovere o salvaguardare i propri interessi. Esattamente come hanno sempre fatto tutti gli imperialismi, è naturale, i quali però non hanno mai fatto ricorso così spudoratamente alla favola del lupo e dell'agnello. L'elenco è infinito e non saremo noi a riscriverlo, basta rimandare agli stessi autori americani come i Chomsky, i Vidal, i Johnson, ecc. Quell'ideologia non è mai tramontata, ai vertici come alla base, ma nell'attuale fase USA-IV esplode in tono decisamente crociatista mentre si afferma l'apparentemente nuova politica estera.
Va precisato che noi abbiamo sempre usato il termine "crociatismo" nell'accezione della nostra corrente che, quasi sessant'anni fa, lo coniò per indicare la ricerca di partigianerie da parte degli opposti blocchi, specie da parte russa; qui tuttavia l'utilizzeremo nel senso di reciproca "guerra santa", entro la quale non è possibile distinguere tra la pulsione reale che genera una psicologia di massa e i calcoli sia degli apparati americani addetti alla manipolazione sistematica dei crani, sia allo stravolgimento "fondamentalista" delle antiche e organiche leggi del Profeta.
Nella prefazione del citato National Security Strategy, presentato dalla Casa Bianca ma influenzato dai neocons nel modo più evidente, c'è un programma politico che sembra concepito da un ingegnere genetico impazzito il quale abbia innestato su cellule di un illuminismo manieristico la visione sociale di Popper, la sceneggiatura di un film con Superman e persino alcuni dei punti che Marx inserisce nel Manifesto a sottolineare l'incompletezza della rivoluzione borghese.
Dopo aver affermato che si tratta di un modello già realizzato in alcune felici nazioni, si passa, arditamente, a stabilire senza mezzi termini che il modello è universale, adatto per ognuno, in ogni luogo e in ogni tempo, e che "i popoli vogliono" libertà di parola, di culto, di educazione, di proprietà, di elezioni, di lavoro, di mercato (e parità fra i sessi). Stabilito il principio che l'ideologia trivial-borghese americana ha carattere universale, risulta parimenti stabilito, per sillogismo, che la potenza militare degli Stati Uniti non è al servizio di interessi unilaterali ma di aspirazioni comuni a tutta l'umanità: con essa "noi cercheremo di creare un equilibrio di potere che favorisca la libertà umana: una condizione in cui tutte le nazioni e tutte le società possano scegliere per sé stesse i traguardi e le sfide della libertà economica e politica. In un mondo sicuro, la gente sarà in grado di migliorare la propria vita. Noi difenderemo la pace combattendo terroristi e tiranni. Noi estenderemo la pace incoraggiando società aperte e libere in ogni continente".
La battaglia contro le visioni del mondo legate ai concetti di classe, razza o nazione sarebbe così vinta definitivamente. Esse, che come risultato hanno solo provocato delle utopie militanti, sono già state screditate dalla storia e adesso saranno anche eliminate alle radici. Grandeggia perciò il compito di estendere la libertà, prima di tutto combattendo una guerra sacrosanta per la dignità umana sul fronte universale. Se necessario impedendo a qualunque Stato o forza irregolare di diventare una minaccia.
Stabilito altresì che il terrorismo è un fenomeno radicato, che riguarda però solo il polo malvagio del mondo manicheo appena tratteggiato, ecco che sarebbe sacrosanta anche la guerra sul fronte specifico di tale fenomeno e ovviamente contro gli Stati che ne permettono l'esportazione. Il mezzo non potrà essere altro che simmetrico, cioè un esercito apposito di terroristi (pardon, di uomini dell'intelligence e delle forze speciali). Il futuro giudicherà severamente chi non sarà alleato in questa guerra, perché l'unico modo per salvare il mondo è l'azione. Tanto per essere chiari su chi rientra nell'insieme dei potenziali "stati canaglia", gli Stati Uniti "incoraggeranno" la Russia e la Cina affinché facciano avanzare la democrazia e la libertà politica e "lavoreranno attivamente per portare la speranza di democrazia, sviluppo, libero mercato, libero commercio in ogni angolo del mondo". Questo lavoro è naturalmente un compito "globale" ed è chiamato fin dall'inizio "missione".
Una teoria dell'offensiva come volontà assoluta
L'attuale esecutivo, come sarebbe costretto a fare ogni altro esecutivo, anche generato da un partito diverso, nega – è ovvio – le "utopie militanti" altrui solo per affermarne un'altra, la propria. Ma, mentre noi la chiamiamo utopia, per le ragioni che vedremo, essa è trattata dai suoi sostenitori come fosse una politica, alla stregua di un programma del tutto pratico. Noi diciamo che come tale avrà delle conseguenze tremende, ma non potrà realizzare gli scopi prefissi.
Il ridisegno del mondo che dovrebbe scaturire dall'immane applicazione di volontà espressa verbalmente, per iscritto e nelle azioni, avrebbe necessità di strumenti adeguati. Ma non sono adeguati né l'apparato militare né il modello piramidale e gerarchico di cui l'esecutivo americano vorrebbe rappresentare il vertice. Essendo basato sul presupposto falso e pretenzioso che i valori americani siano universali, questo modello resta una sterile piramide il cui vertice, rispetto al resto, non è che un punto, cioè uno zero. Non serve a nulla mitigare questa realtà con chiacchiere sulle alleanze e sui partner fratelli in Dio e nel Capitale.
Né le società né l'intera natura funzionano secondo schemi piramidali. Tutte le società umane giunte a un livello molto alto di organizzazione sociale, specialmente le più stabili, perciò equilibrate, hanno dato vita a forme di autoregolazione in cui l'autorità centrale si esprimeva non in modo diretto, con flussi di comando lineari dal vertice alla base, ma attraverso reti di "riscontro", i cui elementi, pur rimanendo parte integrante del piano globale, avevano grande capacità di organizzazione locale. Il cervello del sistema non era un ente, un uomo o un dio, insomma una volontà puntiforme, ma un programma, cui si atteneva ogni parte, grande o piccola, in relazione al tutto. Il rovesciamento della prassi era ottenuto dall'insieme e, se andiamo a ben vedere, dal partito storico che ogni società aveva saputo esprimere. Una società è organica e riesce ad essere conseguente con i suoi compiti storici solo quando la piramide è rovesciata. E si rovescia la piramide non come pensano i democratici, facendo cioè "contare la base" contro il vertice, ma facendo in modo che tutto il corpo sociale, dalla base al vertice e viceversa (la nostra "doppia direzione") concorra non alla salvaguardia del passato bensì a quella del proprio futuro. Ogni organismo vivente non si limita alla propria conservazione ma è programmato soprattutto per la riproduzione e per l'evoluzione (che è nello stesso tempo rivoluzione perché è la premessa per la nascita di nuove specie dalle mutazioni genetiche).
Se vogliamo, il giovane impero di Alessandro Magno, non avendo questi caratteri fu effimero, mentre società in grado di esprimere un centralismo autoregolatore furono millenarie. La nostra corrente richiese che l'Internazionale rovesciasse la piramide; non fu possibile essere ascoltati e fu il disastro. Il Capitale, nelle vesti del suo più potente strumento d'oggi, non otterrà nulla adottando uno schema gerarchico unilaterale e un programma derivato da una rifrittura illuministica della bicentenaria rivoluzione borghese: liberté, egalité, fraternité, non sono più da un pezzo carburante per il motore dell'avanzamento sociale.
L'umanità avrebbe già i mezzi per impostare un piano mondiale di centralismo autoregolato, ma non è materia che possa trattare la borghesia al tramonto (nonostante essa stessa ci abbia dato alcune interessanti teorie della complessità in cui il fenomeno è perfettamente descritto e simulato in potenti modelli), che è – e sarà – perciò costretta a seguire un'altra strada, gravida di effetti catastrofici. Infatti, subito dopo l'11 settembre Bush dichiarò, nel corso di una cerimonia alla cattedrale di New York, l'entrata in vigore del piano neoconservatore lungamente accantonato e, come abbiamo visto con von Clausewitz, zoppo della parte politica, quindi senza alcun valore: "A tre giorni dagli eventi, gli americani non li hanno ancora consegnati alla storia. Ma la nostra responsabilità verso la storia è già chiara: rispondere liberando il mondo dal Male. La guerra è stata intrapresa. Questa nazione è pacifica, ma feroce quando viene provocata alla collera. Il conflitto è iniziato con tempi e metodi stabiliti da altri, ma terminerà nel modo e nei tempi che noi stabiliremo". Proposizioni con valore empirico nullo, parole di puro contenuto ornamentale.
Ma seguiamo per un momento quella manifestazione di volontà che noi interpretiamo come velleità. In seguito all'attacco, nei documenti ufficiali, comparirà il concetto di guerra di nuovo tipo, combattuta su tutti i fronti in maniera visibile e invisibile. Che questa sia una guerra di nuovo tipo è falso, mentre è certamente verissimo che oggi è richiesta la sua estensione globale e che si manifesterà agli occhi del mondo meno di quanto sarà operante nel sottosuolo sociale. Una parte della guerra è descritta come intervento sui canali finanziari che alimentano il terrorismo, per l'identificazione dei flussi, il blocco delle fonti, il congelamento dei beni dei terroristi e degli Stati che li sostengono. Il tipo di azione sarà concepita come "difesa avanzata", cioè come una serie di azioni preventive e mirate, atte a impedire che il pericolo da potenziale diventi effettivo, perché "la nostra miglior difesa è un buon attacco".
Fra i punti in primo piano c'è quella che è chiamata in modo esplicito "guerra ideologica", da condurre tramite "il pieno utilizzo dell'influenza degli Stati Uniti" in modo da equiparare la lotta al terrorismo a quella contro la "schiavitù, la pirateria, il genocidio", affinché nessun "governo rispettabile possa esimersi dal condannarla". È ribadito che ciò vale specialmente per quei governi che fanno parte del mondo islamico.
La guerra nel suo complesso, secondo l'esecutivo americano, avrà risvolti positivi che andranno oltre lo scopo contingente, perché le misure di difesa e di attacco, più gli stanziamenti relativi, si trasformeranno in buone opportunità per conseguire effetti permanenti, non solo sul piano militare. Seguirà una duratura idilliaca pax americana fatta di mercato, consumo, proprietà e… Bibbia.
Non dubitiamo della capacità americana di mettere in atto tutto l'armamentario di cui abbiamo fatto solo un pallido riassunto, dubitiamo del risultato, del lieto fine. È velleitario credere che l'attrezzatura interventista, attivista e missionaria possa servire a evitare la crisi della società capitalistica e, più terra-terra, anche a combattere l'insieme un po' evanescente cui viene dato il nome di "terrorismo".
Attivismo, da sempre espressione d'impotenza
È banale: se non ci fossero gravi segni di debolezza nel sistema di cui l'America fa parte e su cui vorrebbe continuare e rafforzare il controllo, non ci sarebbe bisogno di teorie apposite.
Nella teoria nostra, che comprende la spiegazione delle leggi di attrito e scontro fra aree geostoriche a sviluppo differente, non è prevista la lunga convivenza fra capitalismo e società arretrate. Altro che convivenza pacifica. Per sua natura ogni società borghese tende a spazzare via ogni residuo antico, a meno che, specie al suo interno, non le serva utilizzarlo, come ad esempio la religione. All'esterno sopporta i paesi arretrati "clienti" o le forme talmente arcaiche da non intralciare i traffici e gli affari (l'estrazione delle materie prime dal sottosuolo, il ricorso a neo-schiavi, la monocoltura delle piantagioni, ecc.). E in ogni caso nessun contadino arretrato, nessun artigiano può più sfuggire all'inserimento nel complesso capitalistico e comprare un seme o un ago che non sia un suo prodotto. Nessun comunista, d'altra parte, si sognerebbe di negare che è fatto positivo e rivoluzionario l'estendersi ovunque del moderno modo di produzione, il crescere conseguente del proletariato mondiale, anche se questo processo ha consentito al Capitale di affermarsi "trasudando da tutti i pori, da capo a piedi, sangue e sudiciume" (Marx).
Se ci fosse un piano da parte degli Stati Uniti, una consapevolezza di dove va il mondo, non ci sarebbe bisogno di tutto questo rumore guerresco. L'azione consapevole prenderebbe il sopravvento e ci sarebbe un lavoro verso l'obiettivo, compresa una guerra vera per cambiare il mondo. Invece abbiamo un agitarsi dietro a grandi proclami e manifestazioni di spregiudicatezza – in realtà miseramente giustificatorie – accompagnate da saggi di attivismo pseudomilitare. I conflitti che la borghesia americana attribuisce di volta in volta al "Male", al "terrorismo", agli "Stati canaglia" o ad alcuni singoli "diabolici" personaggi, sono per la maggior parte dovuti alle situazioni contraddittorie che si vengono a formare nelle zone d'attrito fra le aree geo-storiche, quali i Balcani, il Medio Oriente, l'Afghanistan. Meno frequentemente – per ora, ma il fenomeno è previsto e contempla "attacchi preventivi" – all'emergere di aree capitalistiche giovani, e quindi concorrenti e aggressive, come la Cina.
La guerra in Afghanistan ha portato alla sua occupazione virtuale, ma una soluzione favorevole agli Stati Uniti, nel senso di un ridisegno globale dei rapporti mondiali e di una sconfitta delle ragioni che hanno provocato il conflitto in atto, così ideologizzato, non può prescindere dal costituirsi di una borghesia locale, che non c'è e non può essere inventata. Un tentativo l'aveva fatto l'URSS, sia con una massiccia presenza di "consiglieri" in tutti i campi, sia, in seguito alle pressioni americane sulle forze reazionarie, con un'invasione che, non avendo obiettivi chiari (di ridisegno sociale, appunto), portò solo al logoramento di truppe del tutto insufficienti. In un lungo periodo, almeno nelle tre o quattro città più importanti si era formata una parvenza di borghesia che, specie a Kabul, aveva persino permesso l'attenuazione delle forme più oscurantiste e, a livello sovrastrutturale, lo sviluppo di scuole, radio, televisione, arte, ecc.
Nella situazione attuale, molto degenerata rispetto a quella di allora, è impossibile apportare qualche cambiamento con una presenza esclusivamente militare, con l'appoggio telecomandato ad un governo fittizio, con l'oggettiva ripartizione del paese fra gruppi tribali, mentre si lavora alla costituzione di basi in lande desertiche nell'ex URSS e si trascura completamente il territorio. Comprensibilmente è vero che un piano, se c'è, è costretto a prevedere la non "territorializzazione" delle truppe, ma mentre gli alieni americani pensano alla geopolitica virtuale, milioni di uomini in carne ed ossa si muovono, lavorano, combattono secondo le determinazioni locali e generali non solo in Afghanistan e Iraq ma in Pakistan, Iran, ex URSS, Cina, ecc. Tutto questo mentre nei due paesi invasi non si riesce a stabilizzare il dopoguerra, con un'altra invasione in programma e pretendendo di trattare a tavolino il conflitto israelo-palestinese, ormai percepito solo come un fastidioso intoppo nei confronti di piani più ambiziosi.
La posta in gioco: Medio Oriente
Piani ce ne sono, dunque. Ce n'erano anche per il Vietnam. Sappiamo come funzionarono. Dal punto di vista militare contingente, però, sono quasi sempre efficienti. Dato che la guerra all'Iraq era già decisa da prima dell'11 settembre 2001 e si attendeva solo che ne maturasse la possibilità, è del tutto logico che sia stata preceduta da quella all'Afghanistan. Non solo perché si presumeva che qui vi fossero gli autori dell'attacco sul suolo americano, ma perché non sarebbe stato saggio procedere all'invasione dell'Iraq lasciando intatto un focolaio di attivismo di segno contrario a quello americano ed essere costretti a condurre due guerre contemporaneamente. Agli americani non importa nulla, per adesso, che il paese sia diviso, impoverito fino allo stremo, sottoposto alle scorribande di predoni affamati.
L'operazione afghana non è affatto fallita, anzi è stata ben pianificata e si è ottenuto ciò che si voleva, per passare ad altro. Si capisce la necessità di sbrigarla in fretta. Il vantato lavoro di re-building poteva aspettare. Un assai relativo controllo del territorio poteva essere lasciato ai nemici dei talibani, per non dislocare truppe che sarebbero servite in Iraq. L'Afghanistan è un punto strategico più per la sua posizione che per la funzione che può svolgere nell'immediato e quindi potrà essere completamente inserito in seguito nella politica globale di controllo dell'Asia.
Dal punto di vista geo-politico l'invasione dell'Iraq è invece importantissima e andava realizzata il più presto possibile, prima che si concretizzassero ulteriori accordi con i paesi vicini e soprattutto con l'Europa e la Russia, cosa che avrebbe aggravato i rapporti di questi ultimi con gli Stati Uniti. L'invasione va quindi valutata secondo parametri completamente diversi da quelli che troviamo utilizzati nella totalità dei documenti non-americani, borghesi o sinistrorsi.
1) La guerra non è "per il petrolio" (agli americani non serve procurarsene più di quanto ne dispongano al momento) ma per ben altro, tanto che le invasioni risultano parte di un'impresa talmente gigantesca da finir per essere del tutto velleitaria come abbiamo cercato di dimostrare.
2) Dal punto di vista americano si tratterebbe di una decisione del tutto razionale, in linea con una politica di grande respiro, se gli Stati Uniti avessero effettivamente la volontà e la possibilità di spingere fino in fondo un grande disegno capitalistico per l'Asia, i Balcani e il Medio Oriente.
3) Per quanto riguarda le condizioni della popolazione irachena, il nuovo assetto comporterà la scomparsa delle vessazioni del regime capitalistico-tribale baasista, ma la comparsa dei caratteri tipici del capitalismo, come lo sfruttamento intensivo, la perdita di alcune garanzie sociali immediate proprie dei regimi para-fascisti, l'espropriazione rapida delle fasce contadine e artigiane, la formazione sulla pelle dei proletari di una classe borghese numerosa e più vampiresca di quella degli sconfitti satrapi (i quali magari annegavano in un lusso triviale esplicito, ma ben lontano dalla bestiale dissipazione implicita del capitalismo maturo).
4) Per le masse islamiche si apre un'occasione favorevole per sbarazzarsi, sia pure nell'ambito di una reazione anti-imperialista che non esce per ora dai limiti borghesi, di quelle frazioni della borghesia che sono al contempo servili nei confronti dell'imperialismo e inadatte a condurre il proprio paese verso uno sviluppo di tipo moderno. L'esempio viene dalla Palestina, dove la lotta contro l'odiato nemico israeliano ha fatto perdere di vista la lotta, altrettanto necessaria, contro l'impotente e ultracorrotta borghesia palestinese foraggiata dai regimi arabi.
5) Dal nostro punto di vista l'invasione dell'Iraq è, al solito, un avvenimento gravido di conseguenze, positive o negative a seconda di come si schierano le varie classi. Manca per ora l'alternativa realistica della sconfitta americana, quindi occorre focalizzare l'attenzione, appunto, sulle conseguenze. In una situazione sclerotizzata e paludosa come quella in cui si trova il mondo unipolare attuale, qualunque cambiamento che rompa lo statu quo è da considerare positivo. Qualunque timore che l'aggressività americana possa fare più danni di quanto non faccia la sua apparente pace, è da considerare pura acquiescenza alle tesi borghesi dei concorrenti degli Stati Uniti. Più osceno ancora dello strapotere americano è stato il coro di consensi, anche da sinistra, all'azione dei patetici sub-imperialismi francese e tedesco, giustamente trattati a pesci in faccia dai veri imperialisti. Non meno patetico è stato l'imperialismo inglese, ridotto a zerbino del suo vincitore storico.
L'Iraq è un paese capitalistico moderno. Le terre arabili sono solo il 12% dell'intera superficie, ma metà di esse sono irrigue e tutte sono sottoposte a coltura intensiva, discretamente meccanizzata. Le industrie estrattiva, di prima trasformazione e leggera sono fiorenti, il proletariato numeroso. Prima del 1991 la crescita era vigorosa (nel 2000 risultò addirittura del 15%, ma per via del confronto con i disastri precedenti). La popolazione è quasi totalmente urbana. La classe contadina è ridotta al livello dei maggiori paesi industriali. La riforma agraria borghese è compiuta. È insomma un paese perfettamente idoneo ad una operazione in grande stile per scombussolare i rapporti esistenti in tutta l'area, specialmente per destabilizzare l'Iran, che ha potenzialità simili ma è caduto in preda ad un governo teocratico.
"Il successo nel disarmo, nella ricostruzione e nella riforma democratica dell'Iraq può contribuire decisamente alla democratizzazione dell'intero Medio Oriente", recita il più volte citato documento della Casa Bianca. Ma gli Stati Uniti hanno davvero l'intenzione di utilizzare l'Iraq come trampolino per cambiare in questo senso tutto il Medio Oriente? E soprattutto possono? È chiaro che si giocano il futuro e non sarà facile per loro padroneggiare il processo che hanno avviato. Secondo noi non ci riusciranno, perché il successo dipende da diversi fattori di portata superiore non tanto alle loro forze ma all'adeguatezza odierna della borghesia mondiale di fronte a grandi compiti. Perché non si tratta certo solo nominare proconsoli, controllare pozzi petroliferi, distribuire appalti, impedire la guerriglia, ristabilire ordine poliziesco e far circolare dollari. Se la posta in gioco è così alta come dicono i propagandisti di Washington, l'immane compito di world-building iniziato in Afghanistan e continuato in Iraq dovrebbe obbligare gli Stati Uniti almeno a un'attività riformista di questo genere:
1) scatenare la loro potenza contro i residui delle vecchie società, dall'Arabia al Pakistan, invece di utilizzarli come hanno fatto finora e stanno ancora facendo (ovviamente varrebbe mille volte di più la trasformazione sociale in senso moderno che non la repressione armata);
2) avviare, invece della solita balcanizzazione, una unificazione in entità statali più grandi di quelle attuali, in cui eventuali nazionalità siano federate sulla base di precedenti geo-storici, come per esempio Siria, Libano e Golan; Israele, Palestina e Transgiordania, Iraq, Kurdistan e Kuwait, Egitto e Sudan (l'Egitto all'inizio dell'800 aveva conquistato anche l'Arabia e i luoghi santi dell'Islam), ecc. Questo perché oggi, per lo sviluppo del capitalismo e dell'accumulazione, è necessario un mercato interno unificato con un numero di consumatori inversamente proporzionale allo sviluppo dell'area in questione; e, come faceva notare uno studio dell'Unione Europea, in un paese già sviluppato la massa critica è rappresentata da almeno 100 milioni di abitanti, indipendentemente dalle politiche più o meno efficaci dei governi. Ecco di che cosa gli stessi Stati Uniti avrebbero bisogno per realizzare un loro spazio vitale effettivo, veramente globale, al posto del mondo soffocato cui ha dato luogo la fase USA-III.
3) utilizzare, in tale contesto e con l'avvio di un gigantesco piano d'investimenti, gran parte delle rendite petrolifere per avviare accumulazione in loco anziché trasferirle alle cricche della borghesia nazionale o alle banche per i traffici di quella anglo-americana.
Tutto ciò è molto meno di quanto fece l'Inghilterra quando ridisegnò arbitrariamente i resti dell'Impero Ottomano e di quanto fecero gli stessi Stati Uniti nel secondo dopoguerra.
Per esempio: Palestina
"L'America è fortemente impegnata per una Palestina indipendente e democratica che viva a fianco d'Israele in pace e sicurezza. Come tutti gli altri popoli, i palestinesi meritano un governo che serva i loro interessi e ascolti la loro voce". Di nuovo, le parole non costano un dollaro. Il conflitto israelo-palestinese rientra nei piani neoconservatori e ha già imboccato la strada della costituzione di un simulacro di Stato assediato da Israele. Questa soluzione, per i palestinesi, è decisamente più terribile di una pura e semplice annessione allo Stato ebraico, come abbiamo sostenuto più volte. In ogni modo è sul terreno di "cambiamenti" come questo che si misurerà in pratica quanto ci sia di realistico nel piano generale americano e quanto invece sia velleitario.
Il vicolo cieco palestinese è il prodotto complesso di molti fattori, di cui il più importante è quello rappresentato non dallo scontro fra popoli ma dallo scontro fra modi di produzione. In altro contesto di sviluppo la borghesia israeliana non avrebbe potuto installarsi nel corso di decenni a spese della piccola proprietà famigliare e tribale per poi dare il tremendo colpo decisivo col terrorismo organizzato contro le popolazioni civili.
L'immigrazione ebraica, trapiantata violentemente in un ambiente assolutamente estraneo, in una delle zone di forte attrito come l'intera area medio-orientale, ha potuto far leva, molto prima di diventare una pedina degli Stati Uniti, sull'impianto di una struttura capitalistica in un contesto di deserto economico e sociale, complicato dai disastri prodotti nel periodo coloniale. Il terrore spietato con cui sono stati espulsi i palestinesi a centinaia di migliaia dalle loro città, villaggi e terre, era condotto da poche centinaia di uomini armati che si sono comportati come i coloni delle Americhe nei confronti dei nativi. Sarebbero stati schiacciati facilmente, se ci fosse stata anche solo una parvenza di organizzazione sociale moderna da parte araba, con relativa forza armata, ma non c'era.
L'impatto fra i due popoli sarebbe stato tuttavia meno virulento se non fosse stato per la guerra spietata che l'imperialismo americano condusse nei confronti dei vecchi imperialismi. Ancora più deleteria fu la formazione dei due blocchi USA-URSS, che coinvolse anche l'intero mondo arabo nella piaga degli schieramenti per ottenere in qualche modo capitali per lo sviluppo. Una storia di decenni ha portato a una situazione irrisolvibile dall'interno del conflitto. Ma non è una soluzione creare dall'esterno un campo di concentramento, chiamarlo Stato e rinchiudervi i palestinesi. La cosiddetta road map, il piano graduale che Washington sta tentando di imporre sull'onda della vittoria in Iraq, non è altro che questo.
C'erano già tutte le premesse per un tale sbocco nel sillogismo ricattatorio più volte ripetuto negli incontri e messo per iscritto nel documento della Casa Bianca: "Se i Palestinesi abbracceranno la democrazia e il ruolo della legge, se si opporranno alla corruzione e rigetteranno fermamente il terrore, potranno contare sul supporto americano per la creazione di uno stato palestinese. La banca mondiale è pronta a lavorare sui temi dello sviluppo economico con un governo palestinese riformato". Ma, semplicemente, uno Stato palestinese non può nascere su un fazzoletto di terra trapuntato di insediamenti di una nazionalità avversaria che ha già portato via il resto del territorio col terrore. D'altra parte può nascere con prestiti internazionali solo se, per "onorarli", i palestinesi si ridurranno a fare gli schiavi-pendolari in territorio nemico, senza avere la possibilità di avviare un'economia interna. Piuttosto di un incubo del genere, meglio sarebbe una soluzione "sudafricana", in un territorio integrato e magari ingrandito. Tra l'altro non vi sono neppure problemi di etnia, dato che i semiti ebrei e arabi sono figli dello stesso padre Abramo e che hanno una tradizione millenaria di convivenza. L'odio a sfondo razzista fra arabi ed ebrei è una novità storica relativamente recente in quelle aree.
Persino una perdita del territorio d'origine e la migrazione in Giordania, dove ci sono già più palestinesi che in Palestina, diventerebbe preferibile al costituendo lager cisgiordano che, ricordiamolo, coprirà solo il 60% del territorio palestinese esistente prima della guerra del 1967. Invece del vigliacco massacro del Settembre Nero sarebbe stato più lungimirante lasciare che i palestinesi conquistassero con le armi Amman, la Transgiordania e magari la Giordania intera, anzi dar loro una mano contro le truppe feudali beduine di re Hussein e poi federare l'intero territorio, Israele compresa, distruggendo per sempre i motivi che rinfocolano il sionismo ultrareazionario. Questa sarebbe, tra l'altro, l'unica maniera per noi di intendere la parola d'ordine "distruggere lo Stato di Israele", oggi diventata fine a sé stessa, quindi reazionaria. In maggio Sharon ha dichiarato, durante gli incontri multilaterali sulla road map, lasciando tutti allibiti, che stava pensando a uno "Stato" palestinese da almeno 15 anni: in realtà lo pensa da molto più tempo. Egli fu uno dei generali che si opposero, nel '70, al piano di Moshe Dayan per l'intervento a fianco della monarchia hashemita al fine di evitare la non impossibile vittoria dei palestinesi, ai quali la Siria, secondo gli israeliani, aveva "prestato" 300 carri armati (60 secondo i palestinesi). I superfalchi di Israele pensavano insomma che sarebbe stato vantaggioso approfittare della presa di Amman per tenersi il Golan, espandersi ulteriormente nella West Bank e spingere i palestinesi verso la Giordania che stavano conquistando.
Fonti francesi rivelarono più tardi che la monarchia hashemita fu così decisa nell'ordinare il massacro non tanto a causa delle pressioni feudali, come dissero i sinistri di allora, bensì perché re Hussein era venuto a conoscenza di una "ipotesi di lavoro", formulata da alcuni esponenti americani e inglesi in contatto con i servizi segreti israeliani, per costituire uno Stato palestinese unificando Cisgiordania e Transgiordania fino ad Amman.
Ma non c'era nel mondo un fermento borghese che potesse permettere soluzioni così semplici e grandi. E non c'è. Con il Settembre Nero fallì il misero "piano Rogers", ed oggi gli Stati Uniti fingono di avere una funzione propulsiva per risolvere grandi problemi. Ma mentono. Non hanno il coraggio storico di imporre soluzioni drastiche, che in fondo non sarebbero che piccoli passi se confrontati con le imprese dell'imperialismo d'un tempo. Marx criticava l'Inghilterra per la sua mollezza nei confronti del grande bastione reazionario russo già ai tempi di Pietro il Grande, ma l'impero britannico riusciva a ridisegnare davvero, ancora due secoli dopo, le aree che controllava. Oggi gli Stati Uniti non riescono neppure a correggere i guai provocati allora. E questa sarebbe l'iniziativa, il rovesciamento della prassi del massimo imperialismo della storia? Ma se è impotente a pilotare le sorti di un'area vasta quanto un ranch texano, figuriamoci che forza può avere per ridisegnare mondo.
Peggio ancora se si trattasse di una sua scelta per continuare a balcanizzare, dividere, far massacrare altri per la propria politica, sfruttare lo sfruttabile, godere di quei miseri margini concessi da un capitalismo asfittico. Peggio per gli israeliani e per i palestinesi, ma soprattutto per gli americani, perché in questo caso, a orizzonte storico, li aspetta una brutta fine.
Il risultato immediato è che israeliani e palestinesi saranno costretti gli uni a rimanere "ebrei" sul proprio pezzetto di terra e a coltivarsi le proprie nostalgie ortodosse, gli altri a rimanere "arabi" nel proprio campo di concentramento, profughi in casa, quando ormai sono proletari internazionalizzati, manodopera ben addestrata, combattenti degni di ben altre cause. Se queste sono le premesse per l'inizio del Grande Giuoco mondiale, non c'è da stare allegri.
La posta in gioco: il mondo
"Domina tuttora il teatro del mondo l'asfissiante problema di chi controllerà le grandi strade commerciali… sono le forze anglo-sassoni che continuano a sbarrare a chiunque il passo e relegano anche gli Stati a grande sviluppo industriale o demografico nel chiuso dei loro mari interni o di salde barriere continentali; contro questa secolare egemonia si urterà a turno il restante mondo non anglo-sassone… Quale la posta? Sconfiggere militarmente l'avversario, scardinarne l'apparato produttivo, fare della sua economia e del suo lavoro una economia sussidiaria, e della sua popolazione una sicura massa di consumo" (Alle radici della guerra, 1946).
Negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, la nostra corrente affrontò in più occasioni il problema dello sviluppo mondiale nelle condizioni imposte dagli Alleati, cioè dagli americani, dato che l'Inghilterra risultò subito sottoposta a una accanita de-imperializzazione da parte degli Stati Uniti. C'era una continuità effettiva tra l'esuberanza di capitali che aveva provocato la grande crisi del '29, lo sbocco nella Seconda Guerra Mondiale e il Piano Marshall, che trovava un'ulteriore collocazione a questi capitali. Perciò, si disse, non era l'America ad aiutare l'Europa ma il contrario, perché il capitali in esubero, prodotti dal lavoro passato ("lavoro morto") del proletariato americano, avrebbero perpetuato la Grande depressione. L'America che trasferiva capitali e l'Europa che li assorbiva, aiutavano il capitalismo a sopravvivere.
Negli anni '60 criticammo le velleità di pianificazione delle borghesie europee, le quali, pragmatiche eredi della centralizzazione fascista, sentivano la necessità di ricorrervi adattandola alla nuova realtà pseudo-liberista. Riconoscemmo come "capitolazione ideologica di fronte al marxismo" il fatto che la borghesia registrasse l'urgenza di un piano centrale, un grande progetto sociale fascio-keynesiano, ma negammo che potesse eliminare l'anarchia della produzione e della circolazione insita nel capitalismo.
Negli anni '70 criticammo i rapporti commissionati dal Club di Roma a vari studiosi (I limiti dello sviluppo, Strategie per sopravvivere e Progetto RIO – Riprogettare l'Ordine Internazionale). La critica si basava sulla dimostrata incapacità della borghesia di progettare il proprio futuro, per cui ogni operazione in tal senso finiva per essere una specie di esorcismo nei confronti della inevitabile catastrofe. Fissammo i seguenti punti:
1) i rapporti erano basati su modelli dinamici consistenti nell'elaborazione di una sequenza storica di dati, ma questa veniva proiettata nel futuro in modo irrealisticamente lineare;
2) anche se nel programma da sottoporre al computer erano previsti scenari variabili, questi, oltre a non tener conto degli importanti effetti auto-referenziali che potevano permettere al sistema sia di precipitare in una spirale catastrofica sia di auto-correggersi, erano strutturati secondo il presupposto assiomatico che la società borghese fosse eterna e andasse solo riformata;
3) simili modelli di previsione mancavano di realismo a causa dell'impossibilità (pratica e ideologica) di introdurre nel computer la dinamica di classe (in fondo la dialettica delle contraddizioni implicite nel sistema).
Gli stessi autori, naturalmente, avevano fatto notare che non erano in grado di "fare previsioni", ma solo di descrivere una tendenza. Gli studi erano cioè solo indicativi anche se i diagrammi ponevano tassativamente al 1975 il punto di non-ritorno entro il quale sarebbe stato necessario intervenire… con la buona volontà dei governi e dell'ONU. Tuttavia, dicevano gli autori, nonostante fosse impossibile stabilire la durata del processo degenerativo del sistema, le conclusioni erano assodate. Su questo, a parte le questioni di classe, eravamo d'accordo e abbiamo più volte ripreso il tema, anche recentemente (Controllo dei consumi, sviluppo dei bisogni umani).
In ogni caso, abbiamo nell'ordine: a) un Piano Marshall; b) una programmazione che i suoi stessi sostenitori intendevano come progetto sociale; c) un'articolata e documentata ri-progettazione dell'ordine mondiale. Il concetto di piano, progetto, programma – nel nostro contesto sono tutti sinonimi – ricorre per cinquant'anni di seguito, segno evidente che questa società ne ha bisogno. A questa sequenza si aggiunge ora un Progetto per il nuovo secolo americano, che l'attuale governo degli Stati Uniti ha fatto proprio e al momento messo in pratica con la blindatura dell'economia interna, un Patriot Act rinforzato con la pratica eliminazione di ogni garanzia legale, il raddoppio delle spese militari, due guerre, innumerevoli nuove basi militari in punti sensibili rispetto alla nuova strategia, e infine alcuni campi di concentramento rigorosamente extraterritoriali dove può succedere di tutto senza che qualcuno possa appellarsi alle varie convenzioni, leggi, consuetudini, ecc.
La guerra è guerra, si dirà. D'accordo, allora vediamo in dettaglio le implicazioni del grandioso "progetto", per renderci conto se le aspirazioni della borghesia americana sono affidate davvero a un progetto fattibile o se si tratta di una fuga in avanti, di una velleità senza speranza.
Troppo di tutto
Abbiamo visto che nei documenti in circolazione sulla ricostruzione del mondo la parte maggiore riguarda la guerra, mentre la clausewitziana parte politica manca, o almeno è fatta di proposizioni senza contenuto empirico. Quando per esempio leggiamo nel National Security Strategy che "il sistema di intelligence dev'essere appropriatamente integrato con il rafforzamento dei sistemi di difesa e legale", possiamo constatare concretamente che ciò corrisponde a un effettivo impegno che contribuisce a modificare la realtà. Ne troviamo i dettagli in documenti più specifici, vediamo proporre leggi, votarle, stanziare i fondi necessari a metterle in pratica. Infine vediamo sorgere velocemente nuove basi militari, campi di concentramento, carceri speciali in cui sono racchiusi i nuovi soggetti ritenuti pericolosi.
Quando invece leggiamo un titolo del tipo: "Accendere una nuova era di crescita globale" e ci accingiamo a scoprire con quali criteri e con quali mezzi un'impresa del genere sarà affrontata, troviamo solo dei buoni propositi. Ovviamente manca del tutto la verifica sul campo. Non dubitiamo affatto che documenti dettagliati e propositivi esistano – ne commenteremo uno fra poco – ma o non fanno parte del piano per il nuovo mondo o non corrispondono alla propaganda, e in questo caso sono logicamente segreti.
Per infiammare l'economia, storicamente, s'è sempre fatto ricorso all'anticipo di capitali, tramite il debito virtuoso, cioè speso in attività in grado di offrire un "ritorno" plausibile. Dalle Repubbliche Marinare a Keynes è andata grosso modo così. Marx cita Mirabeau sui miracoli che può compiere il debito pubblico. In tempi moderni si è aggiunto un controllo sui redditi, vale a dire un'azione statale per una distribuzione sociale del valore in modo da sostenere la produzione e quindi i consumi.
Ma il governo degli Stati Uniti, forse perché è già indebitato fino all'inverosimile, ha già dichiarato ai quattro venti che la sua politi-guerra non sarà centrata su interventi economici che hanno fatto il loro tempo, ma sull'imposizione del libero mercato ai cinque sesti del mondo (ossimoro fantastico e grandiosa capitolazione di fronte al marxismo). Pragmatico, ma ammantato come mai di ideologia, da vent'anni sta prendendo misure contraddittorie, di ultraliberalizzazione e di pianificazione a suon di decreti d'emergenza. L'enorme debito interno ed estero non è affatto virtuoso. Il controllo sui redditi è praticato a rovescio, cioè alleggerendo le imposte alla borghesia e impoverendo il proletariato e gli strati intermedi. Restringendo ai minimi livelli della storia i gruppi sociali possessori di ricchezza si viola un principio ormai considerato un pilastro fra le ricette adatte ad "accendere" l'economia: la propensione marginale al consumo, ovvero il fatto che milioni di piccoli consumatori che spendono tutto quel che guadagnano fanno girare le fabbriche meglio di pochi borghesi con le casseforti piene.
Ci permettiamo un piccolo sillogismo: se le politiche economiche dei governi americani da Reagan in poi sono modellate sulla sete di ultra-profitto della borghesia, anzi, di una parte piccolissima di essa, e se questo fenomeno viene esportato in tutto il mondo, come scritto nero su bianco, allora il mondo salterà. A meno che non si sottoponga il mondo a un piano dettagliato e ferreamente imposto di sfruttamento a favore della borghesia americana. Ma in questo caso bisognerebbe immaginare:
1) quale forza poliziesco-militare occorrerebbe, quanti milioni di uomini, quanti mezzi, quante basi sparse per il pianeta;
2) che razza di governi-fantoccio si riuscirebbe a raccattare in giro per il pianeta schiacciando ogni velleità di indipendenza delle varie borghesie;
3) che tipo di reazione ne potrebbe scaturire, quando già oggi l'America è costretta a varare piani militari globali per contenere una reazione.
Nel National Security Strategy, in barba ad ogni elementare considerazione empirica e teoretica, è affermato che occorre "attivare il Piano d'Azione del G-7 negoziato agli inizi di quest'anno per prevenire crisi finanziarie" (evidentemente non è contemplata la Russia, altrimenti avrebbero scritto G-8). Quindi il Piano è già operativo. Gli organismi della globalizzazione come il FMI, la WTO e la Banca Mondiale sono già allertati per gli interventi nei confronti di chi dimostrerà di essere in regola con il libero mercato. Questa sarà l'arma principale, si dovrebbe dedurre da un testo che invece con tutta evidenza dà importanza ad armi propriamente dette. Comunque l'ideologia è gratis: "Il concetto di libero mercato si è affermato come principio morale prima di diventare un pilastro dell'economia", per cui solo tramite questo mito morale si potrà avere "una forte economia mondiale [per] incrementare la nostra sicurezza nazionale con l'avanzamento della prosperità e della libertà ovunque".
La marcia per la liberalizzazione, che toccherà tutti i paesi del mondo, è già incominciata dall'America Centrale, dal Sudafrica, dal Marocco e dall'Australia, individuati come "punti focali". Peccato non avere spazio per analizzare uno per uno questi punti. Basti tener presente "a che cosa serve" il Messico, ridotto a reparto di manifattura leggera per l'apparato produttivo del Nordamerica e a riserva di schiavi salariati; quale importanza abbiano Sudafrica e Marocco, in quanto teste di ponte per la definitiva presa di possesso dell'Africa dopo aver scalzato le ultime posizioni francesi e inglesi; il ruolo svolto dall'Australia in queste guerre WASP.
Quel piano del G-7, già negoziato, che dovrà essere attivato per prevenire le crisi, è veramente una perla. Mentre il capitalismo non riesce ad uscire dalla crisi nera che da tre anni azzera il saggio di profitto, il G-7 aveva un piano anticrisi nel cassetto e non l'ha tirato fuori prima, quando sarebbe servito appunto a fare in modo che la crisi non si producesse!
Ai piani per la ricostruzione del mondo corrisponde un'azione per "espandere il circolo dello sviluppo aprendo le società e costruendo le infrastrutture della democrazia… miliardi di nuovi dollari andranno a formare il Millennium Challenge Account (Conto per la Sfida del Millennio) per progetti in quei paesi i cui governi dirigeranno con giustizia, investendo nel loro popolo e incoraggiando la libertà economica" (cfr. doc. cit. VII).
Staremo a vedere. In questa prospettiva l'ONU dovrà adeguarsi, la NATO assurgere a nuova importanza, l'Europa dimostrarsi un partner affidabile, il Medio Oriente essere rifondato, l'India e la Cina incamminarsi verso l'Occidente, e così via per Africa, America Latina, istituzioni, partner, nemici. Dettando, dittando e minacciando, in un incredibile catalogo dove c'è troppo di tutto, uno pseudo-programma che neppure il tanto invocato Onnipotente si sentirebbe di sottoscrivere.
Una verifica
Il comunismo è stato critica positiva della società borghese, ha demolito Smith, Ricardo, Keynes in quanto esponenti dell'economia politica e s'è fatto beffe dei capi di governo, loro allievi, che credevano di pilotare il capitalismo a suon di leggi e decreti, spesso a suon di cannone. Noi siamo sempre dell'avviso che sia il Capitale a posare sugli scranni i battilocchi che sono più utili di volta in volta, per poi disfarsene quando non servono più.
Scendere sul terreno di costoro non avrebbe senso se l'operazione non fosse utile per capire di che cosa ha bisogno veramente il Capitale e, siccome il linguaggio della borghesia è obliquo, cioè chiama libertà la schiavitù e giustizia la legge della giungla, ecc. dobbiamo decrittare più fonti per giungere ad un quadro soddisfacente della dinamica capitalistica. A noi non interessano le parole sulla riforma del mondo, a noi interessa che cosa sarà messo in moto dalla forza applicata, dalla deterrenza, dalle decisioni economiche obbligate, dal terrorismo degli Stati e da quello delle società che non vogliono morire.
I fatti dimostrano, contro le idee, che le teorie per l'azione di world building non sono neppure proposte di riforma, bensì semplice terrorismo statale attuato ostentando una forza complessiva che si millanta di avere e che invece non si ha, essendo essa fondata ormai esclusivamente sulla superiorità militare. Se il progetto politico è propaganda, resta la guerra, quella mozza, che secondo von Clausewitz non porta da nessuna parte. Questo è lo scenario in cui si sta svolgendo l'attuale fase USA-IV. Scenario che preoccupa non poco gli analisti seri della borghesia, i quali già dal contrasto fra l'efficienza militare e l'impotenza economico-sociale, evidenziatosi nelle guerre d'Afghanistan e d'Iraq, traggono oscuri presagi.
Ci dice l'Economist, portavoce ufficioso della borghesia mondiale liberista ma un po' perplesso nei confronti dello statal-liberismo attivista americano, che negli Stati Uniti diversi ministeri, dopo aver stilato i piani di invasione dell'Iraq, stanno ora studiando i particolari tecnici, politici e strategici per dare nuove strutture sociali ed economiche al paese. La tendenza sarebbe quella – sbagliata, secondo il periodico – di privatizzare tutto, a cominciare dal petrolio, instaurare un governo "amico", badare ai profitti e passare al prossimo obiettivo. Ma anche lasciare intatta la nazionalizzazione non servirebbe a nulla, se poi non si pianifica l'utilizzo dei petroldollari tenendo conto che il flusso di valore altrui, mediato dalla rendita, potrebbe addirittura provocare un disastro economico.
Il fenomeno è conosciuto come "sindrome olandese" (l'Olanda scoprì importanti giacimenti di gas nel proprio sottosuolo negli anni '60) ed è provocato da due fattori che innescano una miscela esplosiva: in un primo tempo l'abbondanza di denaro esalta le importazioni e provoca un calo delle attività produttive interne; in seguito crescono le attività finanziarie che attirano nuovo denaro dall'estero, sale il prezzo della valuta locale e vengono ulteriormente depresse le esportazioni, per cui si verifica una vera e propria crisi economica. Il Venezuela è un altro esempio: tra il 1973 e il 1985, nel periodo di massimo aumento dei prezzi del petrolio, incassò 600 miliardi di dollari, ma il reddito medio pro capite scese nello steso periodo del 1% (e sta scendendo ancora). Perfino l'Arabia Saudita incomincia ad avere problemi di diminuzione del reddito medio.
Gli economisti del periodico inglese cercano di fornire un minimo di consulenza, utilizzando sia l'esperienza coloniale del loro paese, che inglesizzava le borghesie colonizzate, sia quella economica basata su di un secolo e mezzo di osservazione dell'economia mondiale. Ma è quasi sicuro che non saranno ascoltati dagli americani, esattamente come non sono stati ascoltati né il governo né gli ufficiali britannici prima, durante e dopo la guerra. In un articolo di largo respiro, The hard path to new nationhood (Il duro cammino verso un nuovo modo di essere nazione), la rivista prende in esame alcune opzioni. Nulla di eclatante o particolarmente adatto alla propaganda, solo alcune osservazioni tecniche per reperire capitali e per avviare un vero processo di ricostruzione. Ma molto significative se commentate alla luce della legge del valore.
Leggiamo che la costruzione del nuovo Iraq dovrà procedere contemporaneamente sul piano economico e su quello politico. La priorità assoluta è infatti evitare il vuoto di potere che ogni transizione comporta, stabilire quindi un'autorità sovrana sull'intero territorio, fornita di mezzi sufficienti – prima di tutto capitali – in modo da evitare la spirale del caos. Fin qui tutto normale; notiamo solo, a margine, che da quando l'invasione è compiuta, si è assistito all'incapacità di evitarlo questo caos (peggio ancora se l'effetto era voluto), alla clamorosa dimostrazione di disinteresse per la popolazione, a quella altrettanto clamorosa di interesse per il petrolio, alla suddivisione del paese secondo criteri etno-economici e infine alla sostituzione improvvisa del primo proconsole americano che evidentemente non era riuscito a realizzare i piani affidatigli.
Secondo l'Economist, nelle condizioni dell'Iraq un piano serio dovrebbe prevedere un afflusso di capitali proporzionalmente maggiore di quello realizzato con il Piano Marshall in Europa. Questo perché nel '45 si trattava di ricostruire paesi di lunga industrializzazione e con strutture economiche e politiche moderne, mentre l'Iraq, pur essendo uno dei paesi più moderni dell'area, non ha ancora una struttura adeguata alla funzione pilota che gli si vorrebbe far svolgere. Inoltre, occorre mettere velocemente lo Stato iracheno in grado di produrre, esportare, importare e fornire alla popolazione prodotti di cui disponeva ma che anni di sanzioni hanno fatto mancare.
Anziché far affluire capitali, invece, si sta cercando il modo di ricavarne, cioè di far pagare col petrolio il debito estero, i danni di guerra al Kuwait e addirittura la guerra d'invasione attuale, escludendo dal business della ricostruzione tutti i paesi, compresi quelli che hanno partecipato alla guerra. "È veramente una misera politica quella di far pagare alla popolazione [i danni della precedente amministrazione], come Keynes dimostrò così eloquentemente nel caso della Germania alla fine della Prima Guerra Mondiale". Da notare che il liberoscambista Economist non si può proprio considerare simpatizzante del keynesismo, ma qui siamo in un caso di emergenza. In Le conseguenze della pace Keynes aveva infatti dimostrato come l'instabilità e la guerra dipendessero dalla tendenza naturale del capitalismo a impedire la distribuzione del valore prodotto e come quindi una politica vessatoria nei confronti della Germania, colpendo la popolazione, non avrebbe fatto altro che riprodurre le condizioni per una nuova guerra.
In Iraq, invece di mettere in piedi un programma per l'autosufficienza produttiva, si riproducono condizioni di guerra chiamando a raccolta gli avvoltoi degli appalti e le organizzazioni umanitarie, perpetuando sia il prelievo feroce del passato regime che la piaga dell'assistenza. Da dieci anni, va notato, un terzo della popolazione (60% nella città di Bassora) vive di soli alimenti importati con i fondi del programma ONU Oil-for-food. Intanto incomincia a circolare il Dollaro, il che potrebbe comportare in futuro una situazione "argentina", mentre sarebbe piuttosto necessaria una nuova moneta garantita dalla banca centrale sulla base del petrolio.
E meno male che questo c'è, scrive ancora l'Economist, a differenza che in moltissimi altri paesi oggetto in passato di politiche ricostruttive, come Bosnia, Afghanistan, Ruanda, ecc. Il petrolio potrebbe fornire la base per i capitali necessari, se l'obiettivo americano fosse davvero un piano di nation building, perché estrarlo dal sottosuolo iracheno costa 2,5 dollari al barile e lo si può vendere, per la sua qualità, almeno al prezzo di riferimento mondiale, che attualmente è quasi dieci volte tanto. Mentre gli accademici del diritto internazionale e il semplice buon senso borghese stabiliscono che le riserve petrolifere irachene sono di "irrinunciabile proprietà dello Stato", l'appropriazione a diverso titolo e l'indirizzo preferenziale (è chiuso l'oleodotto verso la Siria) sono già incominciati.
Dato che non è all'ordine del giorno una riforma agraria e nemmeno una ridistribuzione delle proprietà alle famiglie costrette all'emigrazione, i terreni, per lo più desertici, sono importanti non tanto in sé stessi ma per quello che c'è sotto. "La vera sfida ridistributiva è di offrire a tutti una parte uguale della ricchezza petrolifera". Nell'articolo che stiamo commentando si fa dunque un riferimento casuale ma rigorosamente esatto alla teoria marxista della rendita: in pratica solo attraverso quest'ultima, utilizzando il plusvalore prodotto in altri paesi, si potrebbe dare l'avvio al tassello iracheno della gran "costruzione" mondiale. Naturalmente utilizzandola in loco, non certo riportandosela via.
Se il petrolio fosse accaparrato da un qualsiasi gruppo sociale e se ne andasse all'estero, anche sotto forma di rendita, ogni ricostruzione fallirebbe. L'esempio negativo è dato dalla maggior parte dei paesi petroliferi, la cui ricchezza è stata espropriata esattamente in questo modo e le popolazioni non hanno beneficiato che marginalmente dei petroldollari. È ripetuta solo con altre parole la lapidaria proposizione marxista contro la proprietà della terra, anche da parte dei contadini: consegnare la terra [più in genere la rendita] a una qualsiasi classe significa consegnare l'intera società a quella classe. Il concetto è perfettamente trasferibile anche a ciò che sta sotto terra, se è importante come il petrolio, scrive la rivista; e la classe che lo riceve in consegna può essere anche quella di un altro paese. Da ciò deduce conseguenze altrettanto rilevanti.
Non importa che il petrolio sia estratto da più compagnie private (irachene o straniere), piuttosto che da una compagnia statale; l'importante è che il suo controllo non finisca nelle mani di una specifica parte della società, all'interno o all'estero. Anche se lo pompasse lo Stato iracheno e i proventi finissero nelle casse del Tesoro, controllate da una qualsiasi élite locale che li indirizzasse verso le banche anglo-americane, come è successo quasi ovunque per decenni, la popolazione irachena non potrebbe beneficiarne, per cui non si innescherebbe affatto il propagandato ciclo produzione-mercato-accumulazione per fare dell'Iraq un prospero, democratico e libero paese che serva d'esempio ecc. ecc.
La preoccupazione, pur dettata dallo spirito liberista dell'ultracentenario settimanale, riflette una realtà regolata dalla legge marxista del valore: la rendita è plusvalore; chiunque la controlli è padrone dell'intero flusso che va dalla materia prima alla banca. È padrone quindi anche dell'intermediario, tribù, satrapica borghesia locale o Stato democratico che sia.
Perciò i piani americani di sfruttamento privatistico delle risorse petrolifere sarebbero un disastro per i seguenti motivi:
1) porterebbero a gestire direttamente e disinvoltamente il petrolio dall'estero con tanti saluti ai bei progetti globali;
2) oppure consegnerebbero il petrolio ad una società che conosce appena il capitalismo azionario e che è ancora strutturata su forti vincoli tribali, per cui nascerebbero sperequazioni e inceppamenti dell'accumulazione peggio di quelli che c'erano nel regime precedente;
3) oppure, nel migliore dei casi, porterebbero l'industria petrolifera ad una privatizzazione di massa, con la distribuzione delle azioni come s'è fatto in Russia; in questo caso le leggi della distribuzione del reddito le farebbero riconcentrare in breve tempo e si costituirebbe una élite petrolifera.
Immaginando benissimo come finirebbe un piano economico iracheno gestito dagli americani e basato sul petrolio, l'Economist ne tratteggia uno basato sulla formazione di un fondo comune nazionale con la distribuzione di buoni di pagamento annuale, o di un fondo di risparmio sul modello di quello esistente a Singapore. Insomma, una specie di risparmio petrolifero forzoso di massa, supponiamo gestito dallo Stato, che stabilirebbe i tassi di rendimento e i cui titoli non dovrebbero essere negoziabili, dato che in caso di libero mercato si riprodurrebbe la sopra citata situazione della Russia. Il piano dell'organo inglese riprende esperimenti già tentati in Alaska, dove viene distribuito agli abitanti un "dividendo" petrolifero diretto, e in Norvegia, dove invece una quota viene assegnata alla spesa sociale.
Al di là di ogni nostra scontata considerazione sul "capitalismo popolare", il guaio di questo bel progetto di capitalismo liberista per la ricostruzione dell'Iraq è che, siccome la rendita è plusvalore e siccome la fase USA-IV, cioè la guerra americana al mondo, prevede altri Afghanistan e Iraq, verrebbe realizzato ad una scala enorme proprio ciò che gli Stati Uniti vogliono evitare come la peste: l'utilizzo diretto, da parte delle popolazioni delle aree petrolifere, della rendita, cioè del plusvalore proveniente dai maggiori paesi consumatori di petrolio. Un trasferimento così enorme che neppure il più scaltro teorico dell'Islamic banking avrebbe mai osato immaginare.
Questi sono gli scherzi che la legge del valore fa anche agli economisti del vecchio imperialismo "ragionevole" alla Blair, che rischiano, dovessero mai fare questa proposta in ambito di organismi decisionali per la politiguerra americana, di vedersi inserire nella lista degli "Stati canaglia" e bombardare a tappeto la City.