Teoria e prassi della nuova politiguerra americana (5)

18. Anche il disequilibrio nell'informazione è una delle cause che distruggono gli effetti della polarità.

Se pensiamo che la guerra moderna è ormai combattuta in buona parte con i mezzi di informazione-disinformazione di massa e con la ricerca sistematica di informazioni dettagliate sul nemico e sul terreno, ci rendiamo conto di come anche in questo campo esista un'asimmetria apparentemente incolmabile. Chi può infatti competere con la rete di spionaggio, con le tecniche, con i mezzi di cui dispongono gli Stati Uniti? Chi può permettersi 22 dipartimenti dedicati alla "sicurezza", con un esercito di centinaia di migliaia di impiegati e di agenti ufficiali e occulti che assorbono l'enorme fetta di un bilancio statale già di per sé enorme?

Prima dell'11 settembre e della guerra in Afghanistan l'intelligence e l'apparato di forze speciali erano tenuti in gran considerazione, ma, pur non essendo più quella rozza macchina da guerra utilizzata in Vietnam, non sono oggi così efficienti come si vorrebbe far credere e come le prestazioni sul campo hanno dimostrato. In effetti per ridisegnare il mondo intelligence, forze speciali e reparti militari dovrebbero essere altro che integrati e potenziati, come suggerito dai vari documenti che via via citiamo. Leggiamo che tutto l'apparato militare dovrebbe muoversi come un insieme unico perfettamente sinergico, in modo da paralizzare qualsiasi iniziativa del nemico, semplicemente prevenendolo e distruggendolo. Sulla carta sembra funzionare. E, se funzionasse, sarebbe morta sul nascere qualsiasi velleità di combattimento il nemico avesse, perché la polarità clausewitziana sarebbe distrutta e con essa la possibilità stessa dello scontro. Sarebbe operativo in assoluto il detto "se vuoi la pace prepara la guerra" e realizzato lo scopo dei superfalchi di Washington.

Le dettagliate descrizioni della ri-formazione dell'apparato militare, con l'enorme attenzione alle questioni di intelligence, ci dimostrano come l'approccio soffra di un difetto – diciamo – di principio: la massima centralizzazione, cui la tecnologia e la gerarchia militare obbligano, è incompatibile con la flessibilità di forze che dovrebbero agire in autonomia, prendendo decisioni al momento, senza far parte di una pianificazione che faccia dipendere da grandi apparati tecnologici. Di questo difetto si sono naturalmente accorti anche gli esperti militari, i quali tendono a sottolineare l'importanza di quel che chiamano humint, contrazione di human intelligence, cioè il dispiegamento degli uomini sul campo, con tutti gli accessori fantascientifici, ma soprattutto con la capacità di superare o almeno eguagliare l'ingegnosità forzatamente acuita dell'avversario "terrorista". Insomma, si tratta di scalzare gli impiegati dalle scrivanie e dai computer per mandarli a combattere o almeno a preparare di persona la "sensorizzazione remota avanzata" degli obiettivi. Cosa che di per sé ha qualche intrinseco inconveniente per i ben pasciuti americani.

Ma soprattutto: come si fa a controllare il mondo? Il terrore di Stato è in genere un efficace deterrente, ma non sempre deterrenti del genere funzionano. Per esempio non funzionano mai contro chi pratica altre forme di terrore, specie in partenza da altri Stati. È ovvio che in queste condizioni l'intelligence, intesa sia come fonte di informazioni sul nemico che come strumento per colpirlo direttamente, è l'unica via per condurre la vera guerra del futuro. Ma non serve più l'enorme quantità di informazione accumulata nella fase USA-III su di un nemico oggi oggettivamente diverso. Nemmeno serve più l'informazione accumulata sulle forze partigiane (bin Laden compreso) arruolate per combattere l'URSS. Il nemico potrebbe essere chiunque e dovunque, perché la spirale azione-reazione non si conclude mai. Già all'interno degli Stati Uniti, oltre alla repressione normale dei fenomeni dovuti alla semplice esistenza del capitalismo, viene messa in atto quella verso uno strato della popolazione che si è già dimostrato politicamente urtato dalle misure repressive varate contro il terrorismo interno ed esterno. Le garanzie costituzionali sono state via via cancellate ancor prima dell'11 settembre, per esempio con il Patriot Act, firmato da Clinton. Una società composita come quella americana è del tutto permeabile, ed ecco perché possiamo leggere, sempre sul documento della "guerra preventiva": "Dal momento che le minacce provenienti da governi e gruppi stranieri possono essere portate all'interno degli Stati Uniti, dobbiamo anche assicurarci la giusta fusione di informazione tra l'intelligence e il sistema legislativo". Perciò dovrà essere controllato non solo il mondo, ma anche, e soprattutto, la popolazione americana, l'unica in grado davvero di far saltare i piani per l'assurdo universo americanizzato.

19. L'incertezza è mancanza di polarità e allontana la guerra dall'assoluto, avvicinandola al calcolo delle probabilità.

Non c'è nulla e nessuno che sembri avere più certezze del gruppo guerrafondaio neocons che governa gli Stati Uniti. Questa vera e propria corrente ideologica è in perfetta continuità con la vecchia "dottrina del destino manifesto", scaturita al tempo dell'espansione sul territorio del Nord America, dello sterminio dei nativi e del dichiarato diritto di prelazione sull'intero continente (del resto messo subito in pratica a spese del Messico, della Francia, della Russia e della Spagna, comprando o semplicemente rubando territori ). Ricordiamo che il termine pre-emptive, utilizzato nei documenti che stanno alla base della "guerra infinita", significa sia "preventivo" che "prelazione", e che quindi per pre-emptive war potremmo anche intendere "guerra per il diritto di prelazione sul mondo". Perciò i roboanti sermoni bushiti sono spazzatura propagandistica solo fino a un certo punto, hanno un loro retroterra storico. È un peccato qui non poterci occupare della semantica neocons, basti citare di sfuggita il nome della "campagna" d'Iraq, shock and awe, "colpisci e incuti timore", dove si usa awe, termine biblico che illustra la potenza del Dio degli Eserciti. Non è solo una questione di sondaggi dal valore equivoco, l'azione del governo si appoggia davvero su uno zoccolo "popolare" duro, dalle certezze granitiche, derivate da una reale fede nella missione universale dell'America.

Negli schieramenti di guerra la forte motivazione – e questo miscuglio di patriottismo, missionarismo e religione lo sarebbe al massimo grado – è sempre stata un coefficiente utile ad accrescere la capacità combattiva del singolo, dei reparti e della stessa popolazione da cui gli eserciti rampollano. Invece nella realtà che stiamo analizzando c'è una frattura che rende il fenomeno meno scontato di quanto appaia a prima vista: gli americani, dal singolo cittadino al governo, sono ultra-motivati per quanto riguarda i propri interessi ma se ne fregano del resto del mondo. Se potessero, lo tratterebbero volentieri come hanno fatto con i nativi a casa loro. Questa è una contraddizione, un vero inghippo logico per i nuovi depositari di un così "pesante fardello dell'uomo bianco", che adesso dovrebbero americanizzare il mondo e non ne hanno nessuna voglia, a parte l'esistenza o meno di una possibilità concreta.

Ma dovranno per forza affrontare questo problema, perché nemmeno le orde dei Mongoli, come è ormai accertato al di là delle leggende, erano semplicemente una forza distruttrice, anzi, seppero centralizzare il comando e amministrare con saggezza i territori vinti e conquistati. Il supponente disprezzo dei neocons verso critici e avversari non è certo paragonabile al rituale dileggio del nemico sugli antichi campi di battaglia: persino giornali filo-governativi come il New York Times si son chiesti se dietro tanta tracotanza vi fosse almeno un piano e non solo parole. Se risultasse dimostrato che vi sono più parole che piani, allora grande sarebbe l'incertezza sulle conseguenze dell'azione e la polarità sarebbe spezzata a favore degli odiati amici-nemici.

Nel '91 la prima invasione dell'Iraq, dell'Arabia Saudita e del Kuwait non provocò la sollevazione popolare irachena, come sperava lo Stato Maggiore americano, ma non destò neppure particolare entusiasmo da parte delle popolazioni dei paesi "salvati". Esse anzi mostrarono subito una acuta insofferenza per lo stazionamento dei marines, tanto che proprio quest'insofferenza spuntò fra i motivi principali accampati per l'attacco dell'11 settembre. L'invasione dell'Afghanistan si è risolta in una suddivisione del paese in quattro aree in mano ai signori della guerra locali oltre alla municipalità di Kabul, che le truppe locali coadiuvate da quelle americane, inglesi ecc. non riescono a mettere sotto controllo, tanto che i combattimenti continuano. In Iraq, nonostante le assicurazioni, la situazione interna non è per nulla normalizzata, si combatte ancora e l'incertezza regna più che mai, aggravata dal fatto che vi è contraddizione fra il progetto di rebuilding, di ricostruzione liberista, e l'accondiscendenza con cui gli invasori-padroni lasciano andare alla deriva sociale l'intero paese, abbandonato (ad esclusione degli impianti petroliferi) in mano alle componenti etnico-religiose.

Ora, quando si verifica una situazione di incertezza, ci dice von Clausewitz, la guerra si allontana dall’assoluto e diventa un qualcosa che non è più compatibile coi suoi fini. I quali, nel nostro caso specifico, ricordiamolo, dovrebbero essere quelli di portare civiltà, libertà, democrazia, benessere, libero mercato e felicità per tutti. Di più: dal punto di vista dei conflitti come sono comunemente intesi, che razza di guerra sarebbe questa, che prende slancio in azioni militari limitate e più o meno combinate col nemico e poi stagna per lunghi periodi in cui sembra non succedere nulla o, anzi, in cui il nemico "terrorista" si riorganizza e colpisce duramente, mostrando di non aver paura di morire, come invece succede, eccome, al suo antagonista?

Sembra dunque di assistere a un fenomeno ben diverso da quello della Seconda Guerra Mondiale e dell'occupazione militare di Europa e Giappone, che portarono alle estreme conseguenze l'atto bellico, con sicurezza, schiacciando come un rullo compressore ogni nemico, procedendo infine con un piano di ricostruzione meticolosamente studiato e applicato, compresa la realizzazione di nuove economie, costituzioni, partiti, sindacati. A che cosa è dovuta l'indecisione di oggi, questa palpabile mancanza di strategia di fronte ad almeno tre cambiamenti di rotta nel corso della battaglia d'Iraq? Piani alternativi (la exit strategy invocata dalla borghesia americana più consapevole dei pericoli) non ne esistono e i cambiamenti suddetti hanno piuttosto indicato che si naviga a vista.

Non è che gli Stati Uniti abbiano perso, come sarebbe naturale per via delle caratteristiche irreversibili dei corsi storici, la loro forza propulsiva e stiano miseramente bluffando, con progetti immani di ridisegno dell'Universo, mentre in realtà annaspano senza sapere bene che fare?

A questo punto la guerra avrebbe davvero perso molte caratteristiche dell'assoluto cui tende in condizioni di polarità perfetta. E il gioco delle probabilità sarebbe a tutto sfavore degli Stati Uniti, dato che il mondo, per essere ridisegnato a loro immagine e somiglianza e fatto diventare "virtuoso", richiederebbe ben altro che l'incertezza del presente e dell'avvenire, le preoccupazioni per l'andamento di borsa, l'affanno per le prossime elezioni, l'angoscia per un'economia in recessione e insensibile ad ogni medicina, il sabotaggio interno di un sistema economico arraffa-arraffa, che non ha certo prodotto una sola Enron, e la paranoia dell'eventuale nemico che potrebbe diventare un giorno potente.

20. Il caso – di cui la guerra non è davvero scevra – la rende assai simile al gioco.

Questo punto è sbrigato da von Clausewitz in poche righe, ma merita di essere sviluppato alla luce delle ricerche successive in linea con l'esigenza di avere un modello teorico prima di passare alla descrizione della guerra in tutte le sue caratteristiche attuali, concrete.

Il gioco viene definito come un misto di abilità dei giocatori e d'imprevisto dovuto al caso, di fronte al quale l'abilità tecnica non risolve nulla, e la vera arte della strategia consiste nel tener sotto controllo parametri sfuggenti e complessi. Infatti l'autore considera "puerile" ricercare l'eccellenza della strategia in un qualche "principio geometrico" nel tentativo di dare dignità scientifica alla materia. Al contrario, la vera arte della guerra consiste nel saper valutare la grande quantità di elementi che sono nello stesso tempo prodotti e fattori della dinamica generale, e sono soggetti all'effetto di retroazione, perché sul campo si scontrano forze vive e intelligenti, non oggetti inanimati. È la combinazione di complessità, caso e scontro di volontà opposte che rende la guerra simile al gioco.

A questo punto ci conviene entrare un po' in dettaglio nella "teoria dei giochi" citata nelle pagine precedenti. Già Leibniz, all'inizio del '700, aveva tentato di individuare una legge alla base dei comportamenti umani quando gli interessi di due o più persone sono in conflitto. Verso la metà del '900 il tentativo fu ripreso e alcuni logici matematici cercarono di dare una base rigorosamente assiomatica al problema, traendone una vera e propria teoria. Oggi la formalizzazione "algoritmica" è sostituita da simulazioni al computer con le quali si riesce a riprodurre meglio uno scenario reale e a farlo evolvere nel tempo a seconda delle variabili immesse.

La moderna teoria dei giochi si fonda sullo stesso principio di polarità evocato da von Clausewitz: nel caso più semplice abbiamo un gioco a somma zero con due avversari di pari "potenza", ovvero: ciò che l'uno vince, l'altro lo perde. In partenza la specularità (una delle forme della simmetria) fra i contendenti è dunque rispettata. Durante lo svolgersi del "gioco" intervengono le stesse complicazioni che troviamo in qualsiasi guerra intesa in senso stretto: cioè incominciano ad agire e ad avere effetto abilità che si dimostrano diverse, imprevisti, retroazioni.

Il gioco a somma zero con avversari equivalenti serve più che altro a dimostrare la fondatezza della teoria: è infatti comprovato che, se i giocatori scelgono a caso fra un gruppo di diverse strategie disponibili, le quali a loro volta assegnano delle probabilità alle varie azioni possibili, il risultato è di perfetto equilibrio. Un po' come succedeva in un vecchio racconto di fantascienza, dove le armate di due diverse galassie nemiche erano in guerra da secoli perché i computer che sostituivano gli Stati Maggiori erano così perfetti da produrre uno stallo totale (la guerra era infine vinta da un ufficiale ubriaco che sballava tutto immettendo dati a caso).

Dunque, perché la guerra-gioco sia possibile, occorre introdurre un non-equilibrio, o dev'esserci in ogni modo una percezione soggettiva che questo sbilanciamento delle forze esista, anche se non è reale; oppure ancora i combattenti devono avere abilità o caratteristiche particolari che li rendono oggettivamente o soggettivamente differenti. Von Clausewitz, da acuto osservatore della realtà guerresca, insiste più sul lato soggettivo che su quello oggettivo, in quanto esso è l'elemento più importante per introdurre uno squilibrio tra forze bilanciate dal punto di vista del numero dei mezzi ecc.; va da sé che per noi anche la disposizione soggettiva del singolo o dell'insieme ha origine non meno materiale di tutto l'armamento.

Il conflitto si complica quando, invece di due avversari, ce ne sono molti e quando, invece di un gioco a somma zero, ne abbiamo uno a somma stabilita sia dalle aspettative che dai risultati. Per esempio, nel takeover, l'acquisizione non amichevole di un'azienda sul mercato, i vincitori si aggiudicano il controllo della posta in gioco, ma i perdenti mantengono comunque una quota di minoranza. In casi come questo, che sono i più frequenti nella vita reale ma anche i più difficili da simulare, diventa evidente l'utilità delle coalizioni per piegare caso e abilità verso un risultato favorevole.

Tutta la teoria dei giochi sembrerebbe una faccenda abbastanza ordinaria, sennonché nella realtà, così come nel gioco, sono conosciute le regole che stanno alla base delle decisioni, mentre non sono affatto conosciuti i parametri che entrano… in gioco, per esempio l'influenza dell'abilità, del caso, dell'ambiente o di tutto insieme. Si può puntare al massimo risultato solo conoscendo – e comprendendo – le strategie scelte dagli altri, magari influenzando la scelta stessa. Per esempio, durante la guerra fredda, Thomas Schelling, uno studioso di cose militari propose per la strategia americana proprio l'azione volta a far fare all'avversario scelte che lo portano alla rovina (compellence). Nei giochi della dama e degli scacchi è normale sacrificare un pezzo per indurre l'avversario a fare mosse disastrose. Ben più di una volta ciò è successo nella realtà delle guerre. Tutti ricordano che, prima dell'invasione del Kuwait, Saddam Hussein convocò l'ambasciatrice americana dichiarando che l'Iraq ne aveva abbastanza del pompaggio "obliquo" illegale del petrolio dai pozzi iracheni di confine da parte dei kuwaitiani, e che avrebbe preso provvedimenti, minacciando un'invasione. La risposta ufficiale fu che gli Stati Uniti non avevano interessi particolari nella questione, e l'Iraq ne derivò, sbagliando tragicamente, che gli Stati Uniti avrebbero potuto saldare un debito di riconoscenza per la sanguinosissima guerra condotta dall'Iraq contro il comune arcinemico, il regime iraniano degli ayatollah. Sappiamo come andò a finire.

In "ambiente" di alleanze infide, di compellence, di incertezza sulle reali condizioni delle forze in campo, diventa fondamentale saper prendere decisioni in grado di influenzare quelle dell'avversario, quindi di fargli cambiare quelle al momento conosciute. Nella realtà vi sono sempre dei vuoti d'informazione che possono essere riempiti soltanto da congetture o dal calcolo delle probabilità. In ogni caso le situazioni aleatorie richiedono di essere risolte supplendo alla mancanza di informazione con la forza, i mezzi, l'organizzazione, la tecnologia, oppure con lo slancio ben motivato, cioè di nuovo evitando l'equilibrio o, come s'è detto a proposito della guerra in corso, la simmetria (Sun Zu: "In combattimento ci sono solo forze normali e forze straordinarie, ma le loro combinazioni sono senza limiti e nessuno può dire di capirle tutte. Perché queste due forze si riproducono mutualmente, la loro interazione è senza fine, come degli anelli concatenati. Chi può stabilire dove uno comincia e l'altro finisce?").

È ovvio che slancio, motivazione, abnegazione, sacrificio, possono supplire solo relativamente a un enorme dispiegamento di mezzi, perché provocano a loro volta un ricorso sempre più massiccio all'intelligence, allo spionaggio senza limiti, alla deportazione, alla tortura, come rimedi per fronteggiare situazioni non conosciute. Perciò la strategia americana è, e diverrà sempre più, dipendente dalle informazioni che rendono possibili decisioni mirate. Nel Quadrennial Defense Review Report è espressa chiaramente la preoccupazione che anche in campo spionistico-informativo, pur in presenza di vistose asimmetrie, alla fine possa valere il principio della rincorsa corazza-proiettile, verso nuove forme di simmetria; e quindi, per evitare il sopravvento del caso, si lancia l'allarme per spingere il governo a puntare sui vantaggi incolmabili, in pratica quasi unicamente sulle nuove tecnologie.

Ciò, contrariamente a quanto ci si aspetta, avrà qualche magro effetto sul business in crisi, ma nel lungo periodo avrà soprattutto effetti sociali, per esempio nella trasformazione del mondo in un grande carcere. Quest'ultimo è di per sé un'istituzione che con barriere, inferriate, secondini, disciplina, ecc. rappresenta bene un sistema chiuso, quindi, in teoria, esente da contaminazioni esterne; tuttavia nessuno è mai riuscito ad evitare che riproducesse e moltiplicasse tutti i delitti della società dalla quale lo si vorrebbe isolare. Figuriamoci cosa non succederebbe in un pianeta-carcere, fatto di metropoli fino a una trentina di milioni di abitanti, comunicanti con una rete incontrollabile di trasporti, comunicazioni, traffici di ogni genere.

Compellenza

In italiano la parola compellenza non esiste, ma si suole tradurre così il termine compellence, da to compel, che in inglese significa "costringere". Compellence viene spesso utilizzato come sinonimo di coercizione (coercion), tuttavia la politica che esso sottintende non è un semplice costringere qualcuno ad agire secondo la volontà di qualcun altro ma ha significati più sottili.

Compellenza è quindi una politica di coercizione particolare che ha lo scopo di modificare la volontà del nemico piuttosto che ridurre le sue capacità militari. Sembrerebbe una pratica non strettamente bellica, ma piuttosto diplomatica, mentre nella realtà è utilizzata proprio a scopi bellici nel senso della politiguerra clausewitziana.

Esperti odierni di cose militari sostengono che nel periodo della Guerra Fredda la forza armata fu utilizzata più del necessario, proprio perché non si era capita l'importanza delle politiche di compellenza. Per esempio, la coercizione ottenuta con la minaccia di intervento armato, e via via con la graduazione dell'intervento stesso a seconda della risposta del nemico, non ha dato buoni frutti nei conflitti dal '45 in poi, portando semplicemente ad escalation senza che il nemico fosse piegato, come in Corea e Vietnam, oppure a risultati insoddisfacenti di compromesso, come in Laos e a Cuba.

Compellenza non è neppure prevenzione, nel significato di deterrenza, dato che non avrebbe senso aggiungere al vocabolario militare un termine nuovo per esprimere concetti già contenuti in termini consolidati. Non si tratta soltanto di influenzare il nemico facendogli capire che non deve agire in un certo modo altrimenti il costo sarà salato; o di farlo desistere da una certa azione in corso; o di costringerlo ad agire contro la sua volontà.

Il termine incominciò a circolare negli anni '60, quando si notò che un conto era avvalersi di un deterrente contro, ad esempio, l'invasione di un territorio da parte del nemico, un altro era costringerlo ad abbandonare un territorio già occupato. Nel primo caso vi è una promessa di reazione difensiva, implicita nello stato di cose e quindi automatica; nel secondo vi è una prepa-

razione attiva degli eventi, quindi con caratteristiche militari del tutto offensive, studiate sulle condizioni specifiche del nemico. In generale, la compellenza consiste:

1) nel prendere un impegno pubblico per obbligare il nemico a cedere su un qualche argomento reputato di vitale importanza;

2) nel costringere il nemico a fare un passo falso che possa servire come pretesto per l'attacco militare;

3) nel razionalizzare, alla luce della nuova situazione, l'impegno originario, per esempio aggiungendo nuove opzioni;

4) sconvolgere lo statu quo a proprio favore facendo credere che sia stato il nemico a destabilizzare la situazione.

Modelli formali di compellenza sono preparati e immessi nei computer facendo variare i parametri in modo da avere diversi scenari e perciò diverse opzioni di intervento. Questi modelli sono chiamati anche "del bastone e della carota", benché in ultima analisi la carota sia contemplata solo da un punto di vista del tutto formale, come parte dei criteri generali di compellenza.

Un esempio storico di compellenza fu il blocco del petrolio e del ferro nei confronti del Giappone. Si trattava ufficialmente di una ritorsione contro lo sbarco sul continente, ma in realtà gli Stati Uniti avevano bisogno di una forte motivazione interna per entrare in guerra. Nel 1941, il Giappone fu praticamente indotto ad attaccare la flotta ormeggiata a Pearl Harbor ben sapendo che era necessario distruggerla preventivamente; l'attacco, previsto, fu lasciato compiere, con l'accorgimento di allontanare le navi moderne, specie le portaerei.

Vi sono esempi di compellenza "leggera", quasi una persuasione, come quando gli Stati Uniti ottennero dall'Ucraina lo smantellamento degli armamenti nucleari ereditati dall'URSS, con la minaccia di ridurre gli aiuti economici; oppure di compellenza "dura" come in occasione di Desert Storm, la prima Guerra del Golfo, quando l'Iraq fu indotto dagli Stati Uniti a credere di poter invadere il Kuwait, lo invase e vi fu la contro-invasione di Iraq, Kuwait e Arabia Saudita da parte americana, con una coalizione di quasi tutti i paesi del mondo.

21. La guerra è assimilata al gioco non solo per la sua natura oggettiva, ma anche per cause soggettive.

Cause soggettive che contribuiscono alla ricostituzione delle simmetrie. Tecnologie o no, l'elemento soggettivo, umano, in una battaglia può decidere la partita; parlando di guerre, storicamente, l'elemento umano decide sempre. Questo principio non è mai stato smentito. Nei giochi di simulazione l'elemento umano è così difficile da inserire che sballa tutti i pronostici. Quando non esistono problemi nei confronti delle schiere avversarie possono sorgere nei ranghi amici, addirittura in casa. La guerra in senso lato fa parte della natura, quella in senso stretto è peculiarità dell'uomo, e quella combattuta con eserciti contrapposti è tipica delle società divise in classi. Tuttavia tecnica e metodi non permettono più, e non lo permetteranno in avvenire, la classica guerra fra eserciti. Questi serviranno solo a controllare il territorio dei vinti, e anche in questo caso saranno eserciti molto particolari. Ne abbiamo avuto un assaggio con le recenti "guerre umanitarie". È un processo irreversibile, com'è irreversibile la tecnica produttiva raggiunta dal capitalismo. Anzi, gli apparati militari corrispondono perfettamente agli elementi portanti del modo di produzione, alla flessibilità dei reparti, alla retificazione del processo produttivo e dell'informazione, alla centralizzazione del piano e alla decentralizzazione delle decisioni rispetto ad esso.

Se von Clausewitz sottolineava giustamente la natura altamente soggettiva della guerra, dove la decisione e la volontà applicata sono sintomi di rovesciamento locale della prassi, oggi questo aspetto soggettivo è molto più accentuato, così com'è accentuata la capacità di controllo su tutti i parametri del processo produttivo, sia per quanto riguarda la fedeltà al progetto che per quanto riguarda la qualità del prodotto voluto. Da tutto ciò nasce un paradosso, una contraddizione insopprimibile: mentre la macchina militare, compresi gli uomini che la dirigono, rappresenta la volontà, quindi il contrario dell'aleatorietà, un insieme di uomini preso a sé, in rapporto a un altro insieme di uomini che lo fronteggia, è in grado di introdurre elementi "caotici", parametri non lineari che sfuggono al controllo.

Von Clausewitz afferma che, essendo la guerra il dominio del pericolo all'ennesima potenza, il coraggio rappresenta una forza non indifferente, così come la propensione al rischio, la fiducia nel comando, la convinzione per lo scopo, la fortuna. Come si vede dalle parole sottolineate, non si tratta di entità quantificabili. La macchina della guerra, che sembra così perfetta, è in tal modo sottratta all' "assoluto, al cosiddetto elemento matematico, che non trova alcun saldo punto d'appoggio nei calcoli di quest'arte" a causa delle determinazioni soggettive.

Oggi, sul campo reale abbiamo avversari che esprimono una soggettività completamente diversa l'uno dall'altro: da una parte gli Stati Uniti e in parte anche pochi vassalli industrializzati, i cui apparati militari sono profondamente integrati dal punto di vista macchina-uomo e quindi rappresentano una capacità di guerra possente, guidata da un "piano di produzione" centrale, in grado di autoregolarsi in corso d'opera; dall'altra una pallida riproduzione di tutto ciò, Stati sedicenti sovrani che dipendono dalle tecnologie altrui e non sono assolutamente in grado di far funzionare le loro macchine militari se non per le parate. Ma da questa parte ci sono anche miliardi di uomini che hanno ben poco da perdere, che posseggono quasi esclusivamente le qualità soggettive ricordate. Che non conducono la guerra sganciando bombe da settemila metri d'altezza o inviando missili dalle consolle di centri asettici, come se manovrassero una playstation. Che guardano la morte in faccia tutti i giorni e che, se vanno in guerra, non fanno altro che guardarla una volta di più.

E ci sono anche i transfughi del capitalismo consumistico, uomini che hanno avuto il coraggio di rifiutare la servitù connaturata all'ideologia della legge del valore di scambio, privilegiando valori non traducibili in unità di conto. Non ha importanza se questi valori non corrispondono per niente ai nostri, qui stiamo solo cercando di indagare sulle caratteristiche della guerra in corso e sui parametri che ne determinano la natura.

22. Nell'arte della guerra, fra teoria e prassi, non è la logica a dominare, ma si scatenano l'istinto e l'intuizione.

Von Clausewitz era uno scienziato intuizionista. In una nota lasciata in punto di morte, consapevole di avere appena abbozzato un'opera imponente da lasciare ai posteri, scrisse che la grandezza dei condottieri non consiste tanto nel raziocinio quanto nell'intuito, nella saggezza e nell'esperienza. Queste tre qualità sono pienamente sufficienti allo scopo di condurre una guerra. Ma la guerra è politica, e viceversa; perciò l'intero svolgersi storico che conduce alla guerra, e poi alla realizzazione dei suoi scopi, non può accontentarsi di esprimere solo dei condottieri, per quanto competenti, abili, saggi e coraggiosi. La politiguerra ha bisogno anche di scienza, che ci obblighi "a dimostrare l'intima concatenazione delle cose" e non solo a sistemare parole una dietro l'altra. Perciò la scienza della guerra non va intesa come pura matematica e logica, sarebbe limitativo.

La guerra è un susseguirsi di eventi in cui l'intelligenza, la chiarezza e la certezza sono sopraffatte spesso dall'istinto, dall'immaginazione e dalla ricerca della fortuna, dato che "lo spirito si diletta in mezzo agli illimitati tesori del possibile". L'aleatorio disturba le certezze e a questo punto soccorre l'istinto: "Deve la teoria abbandonarlo e rinchiudersi, compiacendosi di sé stessa, in un cerchio di massime assolute? No, perché essa diverrebbe priva di ogni utilità pratica; la teoria non può fare astrazione dalla natura umana. L'arte della guerra si muove nel campo delle forze viventi e delle forze morali". Al di là del linguaggio così lontano dal nostro, è vero che la guerra, anche per noi, è sempre un tentativo di rovesciare la prassi; è quindi vero che una teoria della questione militare deve inglobare tutti gli elementi: la scienza, l'aleatorio, il probabile, il soggettivo, la volontà. Chi sarà il depositario di tutto ciò, poiché non lo può essere il condottiero? Lo Stato? Sicuro, perché l'esercito è un suo strumento e il condottiero ne fa parte. Ma von Clausewitz parla raramente dello Stato in quanto tale e utilizza quasi sempre il termine "governo" (mentre utilizza "Stato" come sinonimo di "Nazione"). È dunque il governo depositario dell'istinto e dell'intuizione oltre che della scienza?

Sul campo di battaglia non vi sono dubbi che tutti questi elementi concorrono alla vittoria, ma come far coincidere le forze della scienza, quelle viventi e quelle morali agenti sul campo con quelle che rappresentano lo Stato, anzi la Nazione? Nei momenti in cui la storia lo richiese, come con la Rivoluzione Francese e poi con Napoleone, queste forze si concentrarono in un'unica volontà totalizzante, ma non sempre fu così. La storia solo raramente aveva visto in campo una simile unità. Gli eserciti, quando possedevano una forza superiore a qualsiasi altra nella società, una disciplina particolare, loro gerarchie interne, ecc. tendevano a diventare per tutto ciò uno "Stato nello Stato". La politica si separava dalla guerra e l'Europa si rallegrava di questa separazione, credendo che fosse il segno del progresso. Ma la guerra non può essere separata dalla politica e quindi dallo Stato, che per noi è l'espressione del partito storico borghese sovrastante i partiti elettorali, sue semplici frazioni, intercambiabili l'una con l'altra, dalle quali pesca di tanto in tanto un governo.

Se Marx si faceva beffe dell'inconseguenza e dell'incapacità del partito storico inglese d'allora, cosa mai dovremmo dire noi di fronte all'odierno partito storico della borghesia mondiale con i portavoce che si ritrova? Sarà vero che è in grado di far vedere i sorci verdi a tutti i suoi nemici, ma di qui a plasmare il futuro, in quest'epoca, ne corre. Un partito storico, con una "missione" autentica di espansione e di salvaguardia del futuro capitalistico, gli Stati Uniti l'hanno avuto, dal primo al secondo Roosevelt (da Theodore, 1901, a Franklin Delano, 1945). Ma dopo aver ridisegnato Germania, Italia e Giappone, il cosiddetto impero non ha fatto che difendere le posizioni raggiunte. E l'ha anche fatto male, perché non aveva più un forza "morale" che lo spingesse o, detto con parole nostre, una forza propulsiva sufficiente a produrre e ad investire per americanizzare il resto del mondo. La logica non è stata la caratteristica dominante, mentre l'istinto non è stato altro che quello di conservazione. Facciamo parlare un po' i fatti recenti. La guerra in Afghanistan aveva come scopo dichiarato quello di "liberare" il paese dall'oscurantismo talibano – che era già un regalo dell'America in sostituzione a quello di Massud – ma l'ha consegnato all'oscurantismo dei signori della guerra e agli eredi dello stesso Massud. L'informazione è guerra, e alla rivoluzione delle barbe tagliate e dei burka buttati via ha creduto solo il popolo dei tele-rincoglioniti. In Iraq era stata promessa l'insurrezione sciita, c'è stata qualche manifestazione, ma antiamericana. Un esercito di 350.000 uomini ha occupato Qatar, Kuwait e Iraq per una guerra fasulla, in cui hanno combattuto al massimo due o trecento soldati. I pozzi sono in salde mani americane, i contratti d'appalto per la "ricostruzione" anche. L'ONU è tagliata fuori, l'Europa pure, al massimo andranno a ricucire le vittime dei danni collaterali e a spazzare l'immondizia; la grande crociata punta già verso altri più nobili obiettivi. Nel frattempo almeno 110 milioni di persone si sono mobilitate contro la guerra. Non siamo pacifisti, ma la scienza c'impone di inglobare i fatti e dar loro l'importanza che hanno.

Negli Stati Uniti, ci dicono i sondaggi, i bombardamenti mediatici hanno fatto il 70% di vittime. Ma il 30% è miracolosamente sopravvissuto, ha manifestato, ha mangiato rabbia. Dalle corrispondenze che ci arrivano si capisce che, col clima che c'è, i bombardati non accalappiati sono dei veri combattenti. E lotteranno ancora, perché la guerra è entrata più negli USA che in Afghanistan e in Iraq. L'aleatorio diventa imponente e il gioco si fa duro: a San Francisco un gruppo di manifestanti innalzava un grande striscione: "Anche noi sosteniamo le nostre truppe. Quando sparano ai propri ufficiali". Quattro gatti fuori di testa, si potrebbe dire, ma… C'è una sola potenza più potente degli Stati Uniti: il fronte interno americano.

La scienza della guerra ha questo di bello, che ci mostra come gli scenari del futuro non si possano tracciare neanche col mega-computer se il programma non è adeguato; ci mostra come non serva a niente sguinzagliare migliaia di spioni e killer in giro per il mondo, armare satelliti che ti leggono la targa, registrare 13 miliardi di e-mail al giorno. La sua logica non è quella dei puerili sillogismi e degli elenchi di "cose da fare" che leggiamo sui manifesti neocons, è fuzzy, sfumata, piena di insidie e di feedback, retroazioni, come hanno scoperto i matematici e come già sapeva il nostro prussiano, chiamatelo idealista!

23. La guerra si manifesta per la soluzione di problemi vitali ed è radicalmente falsa l'idea che essa non abbia una sua propria intelligenza mentre procede verso lo scopo.

La complessità del modo di produzione capitalistico giunto a questo stadio, l'abbiamo visto, produce guerra in modo quasi automatico, come produce strumenti, metodi e aggiustamenti utili alla sua propria conservazione. Dato che vale sempre meno la distinzione fra pace, guerra, politica, combattimento, scompare l'anteguerra, la fase preparatoria degli armamenti (o tutto è anteguerra). Perciò è necessario scoprire la dinamica della guerra aperta non nelle parole di chi la propugna ma nelle determinazioni concatenate che la rendono necessaria. Le stesse che è poi agevole proiettare nel futuro per indagare sulle conseguenze.

Tuttavia, benché la guerra sia definibile come un automatismo sociale, non lo è altrettanto la sua condotta, poiché sul campo, come si è detto, è influenzata da mille determinazioni, oggettive e soggettive. In ogni caso essa procede verso uno scopo, e nel suo procedere non solo auto-apprende, correggendo la rotta a dispetto dei timonieri, ma si sceglie gli stessi timonieri. Occorre dunque cercare il motivo profondo che ha portato una banda di affaristi, teorizzatori della superiorità americana, al controllo rigido e incondizionato dell'esecutivo di un paese come gli Stati Uniti. Occorre soprattutto tener d'occhio ciò che questo gruppo sarà costretto a fare, che sarà probabilmente molto diverso da ciò che dice di voler fare. Già la tendenza generale aveva portato alla precisazione di programmi, anche meno beceri di quelli neocons, ma mancava un esecutivo libero da inibizioni diplomatiche e morali (o meglio, che si basasse su una morale che gli permettesse di fare quel che voleva), in grado di affrontare i problemi dal punto di vista operativo in piena coerenza con la tanto idealizzata situazione unipolare.

Se la guerra fosse un fenomeno del tutto indipendente dalla politica, non il suo naturale mezzo d'espressione, come dice von Clausewitz, ma un mero strumento materiale da tirar fuori dal cassetto di tanto in tanto, in un alternarsi di pace e di guerra in quanto fenomeni separati, una volta scoppiata manifesterebbe la propria indipendenza con il sostituirsi completamente alla politica. Ciò nella storia è avvenuto solo sporadicamente e mai nei tempi moderni. La stessa borghesia ha avuto sentore che il nuovo militarismo fosse la vera politica d'oggi.

Le Waffen SS, per esempio, avevano il compito di importare il "militarismo politico" all'interno delle forze armate tedesche. I loro capi teorizzavano di essere in continuità con la Rivoluzione Francese, dato che da quell'epoca in poi, nelle guerre d'Europa, era sceso in campo solo il "soldato politico". I militanti armati del partito borghese tedesco di allora pensavano di essere i nuovi giacobini, i soldati di un'epoca nuova, e consideravano "terroristi" gli Alleati, accusandoli di condurre una guerra "militare" e non "militante", di praticare la distruzione per la distruzione coinvolgendo la popolazione civile come nei massacri barbarici: "I nostri avversari portano i loro eserciti meccanizzati privi di anima contro il continente europeo. Ogni atto di distruzione aumenta l'essenza politica europea e porta a termine il suo armamento morale. Gli atti di terrorismo destinati ad annientare la vita storica dell'Europa affermano l'odio degli esseri senza storia contro una forma elevata di vita umana. Il combattente politico europeo, posto su di un nuovo gradino di consapevolezza e volontà, supererà il caos" (Signal). Dalla parte opposta, naturalmente, si riteneva che la barbarie fosse quella dei tedeschi e che la forma più elevata della vita umana fosse l'imperialismo anglosassone o lo stakanovismo patriottico russo. Tutti ebbero bisogno di creare il soldato politico tramite opposte crociate.

Oggi non è cambiato molto, la politiguerra ha, come al solito, i suoi sconfinati programmi per l'umanità e il suo terrorismo, la sua intelligenza e il suo scopo. Sia la guerra all'Afghanistan che quella all'Iraq hanno dimostrato che non solo la politica prevale sulle operazioni belliche, ma che essa ha coinvolto il mondo ben oltre l'effetto voluto. L'illusione dell'esecutivo americano attuale di pilotare gli avvenimenti a proprio piacimento non è stata che un momento di ubriachezza, ma la sobrietà ritrovata dovrà tener conto che nemmeno gli Stati Uniti possono fare quello che vogliono, anzi, lo possono fare meno degli altri, perché più degli altri dal mondo dipendono.

Nell'invasione dell'Iraq, la guerra già si era corretta alle prime mosse. Il wargame del modello non corrispondeva alla marcia sul terreno, come del resto avevano previsto i militari di professione. Alle carenze dei politici, cioè al micidiale piano originario di Rumsfeld che preludeva a una macelleria tecnologica e "chirurgica" demandata all'aviazione, i militari avevano sostituito, appunto, l'intelligenza della guerra compatibile con gli scopi, applicando gli insegnamenti di Sun Zu: "Non attaccare mai le truppe scelte del nemico… Ad un nemico accerchiato devi lasciare una via d'uscita… Non spingere il nemico agli estremi". Gli scopi, almeno quelli immediati, furono quindi raggiunti in modo più che soddisfacente dal punto di vista della cinica contabilità militare, dato che vi furono circa 150 morti della coalizione contro 2.200 vittime irachene, la maggior parte civili. A chi sarebbe servito un Iraq distrutto con decine, se non centinaia, di migliaia di morti?

"La politica, scrive von Clausewitz, si estrinseca attraverso tutto l'atto della guerra, esercitando su questa un influsso continuo". Questo vale per l'America. Questo vale per un miliardo e trecento milioni di musulmani che, volenti o nolenti sono stati trascinati nella corrente, anche se Bush nega che vi sia una guerra nel senso dello "scontro fra civiltà". Questo vale soprattutto per le prossime mosse di entrambi i campi e di altri soggetti che entreranno in battaglia.

Napoleone condusse campagne grandiose in lungo e in largo per l'Europa. Le forze che rappresentava esprimevano una politica di altissimo profilo storico ed essa era conseguente rispetto alla rivoluzione borghese (a parte l'impero, cioè l'aspetto formale dello Stato). Le vittorie si susseguivano incastrando i tasselli del risultato definitivo uno nell'altro. Per completare il disegno mancava la sconfitta della Russia. Mentre la guerra generale procedeva verso il suo scopo, essa stessa si dava l'intelligenza per raggiungerlo attraverso la battaglia decisiva. I piani furono compilati ed eseguiti alla perfezione. L'Europa intera fornì, reclutando fra 12 nazionalità, l'immensa armata di 700.000 uomini, almeno quattro volte più imponente di qualsiasi esercito l'umanità avesse mai messo in campo. Ma solo i francesi e i polacchi combattevano per uno scopo, il quale, tra l'altro, per i polacchi era ben diverso da quello dei francesi. La grande battaglia di Russia, disgraziatamente per l'accelerazione storica, non poté realizzare la chiusura del piano generale, ed esso fallì nel suo complesso. Solo il sistema civile napoleonico sopravvisse allo sfacelo delle armate francesi, ma si impose a tutta Europa e, tramite l'Egitto, per un soffio non s'impose anche nel Nordafrica e nel Medio Oriente. Questa è la dimostrazione che nell'intero ciclo di guerra concluso a Waterloo gli scopi particolari furono ininfluenti sulla storia, mentre la guerra non aveva perso la sua intelligenza politica marciando verso lo scopo per cui era scoppiata. La rivoluzione borghese, il capitalismo, ne aveva assoluto bisogno.

Questo riferimento "napoleonico" serve ad illustrare un altro aforisma clausewitziano: la guerra si suddivide in parti ed ogni parte è connessa al tutto, compresa la dinamica verso lo scopo. Perciò "Il risultato finale non è altro che la sommatoria dei risultati parziali" perché la grande visione generale da sola non rende raggiungibile lo scopo, le sole vittorie parziali non bastano per realizzarlo: solo l'integrazione dinamica delle parti porta ad un tutto che sia più potente della loro somma aritmetica.

Gli Stati Uniti hanno certamente, a modo loro, una visione generale e hanno ancor di più mezzi e metodi per sbaragliare chiunque negli scontri parziali. Ma non riusciranno a raggiungere il loro scopo, perciò perderanno la guerra. Per la semplice ragione che il loro scopo specifico è "vecchio", nazionale, borghese, addirittura para-coloniale, e non è assolutamente in linea con lo sviluppo dell'attuale forma economico-sociale, che già Lenin definiva "capitalismo di transizione", globale, internazionalista, in cerca di un piano organizzativo centralizzato, basato sull'interesse del Capitale e non di una nazione particolare che, schiacciando le altre, ne frena la misera capacità residua di sviluppo.

24. La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi, essa non può andare oltre allo scopo della politica.

Siamo al punto famoso, quello che tutti citano. Nell'edizione che abbiamo sott'occhio occupa 13 righe, ma la sua importanza è sottolineata dall'autore negli appunti scritti poco prima di morire, nei quali rimanda al libro finale, dove l'argomento viene sviluppato. In questo libro – che purtroppo è rimasto allo stadio di semilavorato più di tutti gli altri – nei capitoli dedicati alla politiguerra (III e VI), von Clausewitz osserva molto acutamente che i risultati della Rivoluzione Francese in campo militare ("gli effetti immensi che essa produsse") non furono dovuti tanto ai nuovi mezzi e alla nuova condotta di guerra quanto "al mutamento completo avvenuto nell'arte della politica ed amministrativa statale, al carattere del governo, alle condizioni della nazione. Gli altri governi non seppero valutare tutto ciò e vollero con mezzi ordinari tener testa a forze nuove e travolgenti, cioè commisero errori politici". L'errore principale consistette nell'insistere con le tradizionali alleanze di guerra – in cui le nazioni mettono in comune uomini e mezzi necessari per una campagna – mentre l'avversario gettava sul campo un "potere illimitato" che coinvolgeva intere popolazioni con tutta la loro produzione. I nemici di Napoleone, insomma, ragionavano sulla base di una "scissione fra l'essenza della guerra e gli altri interessi individuali e sociali", mentre contro di loro si scagliava una potenza unitaria. "Questa unità si riassume nel concetto che la guerra non è che una parte del lavoro politico e non è affatto una cosa a sé stante".

La situazione odierna ricorda molto quella di allora. Lo scontro è fra una forza unitaria, gli Stati Uniti, e paesi che non hanno ancora saputo opporre un'unità di segno contrario anziché una scissione fra guerra e interessi nazionali. Si giungerà, se non altro per contraccolpo, a tentativi di unità meno patetici di quelli attuali, come furono costrette a fare le morenti dinastie d'Europa contro Napoleone, ma ormai il processo disgregativo è praticamente irreversibile e la guerra preventiva americana avrà effetti sempre maggiori. Naturalmente non ci sono in vista forze borghesi nuove e travolgenti": l'odierna guerra generale è caratterizzata non solo dalla loro assenza ma dall'impossibilità del loro formarsi, visto che la rivoluzione marcia comunque e non prevede la stabilizzazione del Capitale ma la sua soppressione. Per questo la "politica" di tutte le parti interessate non riesce a risolvere il doppio problema di sapere che cosa sia effettivamente la "guerra infinita di Bush" e a quale politica risponda. La domanda allora è: Di quale politica la guerra attuale (fase USA-IV) è strumento? E questa guerra, intesa "nella sua accezione più alta", in quale politica si tradurrà in futuro?

Dietro le dichiarazioni crociatiste di Bush e dell'intellighentia neocons non c'è un vero programma politico, un piano di azione. Una serie di dichiarazioni di intenti e di richieste di soldi per armamenti non basta per consolidare la potenza americana "per il prossimo secolo". Metodologie e strumenti atti a rafforzare l'apparato militare e ad attaccare preventivamente chiunque cerchi di eguagliare la potenza americana rimangono enormità verbali, se non sono frutto di una politica alla von Clausewitz e se quindi non rispondono alla domanda fondamentale: più denaro, più armi, guerra preventiva, per che cosa? Certo, in parte il programma è anche messo in pratica, come possono testimoniare le popolazioni d'Afghanistan e d'Iraq, ma sono piccole cose. "Per la leadership mondiale degli Stati Uniti" non è una risposta. Per la libertà, la democrazia, il mercato, certo! Ma tutto dovrebbe essere collegato in un programma politico. Libertà, democrazia e mercato per cinque miliardi di uomini per mezzo di missili e bombardieri? Non è da escludere, ma c'è un piano Marshall o un suo equivalente per dopo? Si vorrà occupare il Medio Oriente, l'Asia, magari l'Africa con alcuni milioni di soldati? La povertà dell'impianto teorico è madornale, ogni frase è una sentenza chiusa in sé stessa.

Ciò non significa che, nell'ambito della produzione ideologica e programmatica, la borghesia americana non abbia potuto esprimere una "vera" politiguerra, una vera teoria per l'azione adatta ai prossimi decenni: da qualche parte ci saranno di sicuro libri, lezioni universitarie, modelli e scenari mirabili. Ma l'epoca non le valorizza, non permette il fulmineo successo che hanno avuto quelle povere cose sfornate dai neocons. L'acqua alla gola e quindi la fretta sono cattive consigliere. Semmai c'è una contraddizione fra le esigenze reali della borghesia più potente della Terra, ciò che è in grado di esprimere un suo esecutivo puntellato su circoli di potere affaristico e infine ciò che in questo mondo si può fare per soddisfare le dette esigenze. È del tutto evidente che la borghesia americana percepisce il dato di fatto reale di essere giunta a un limite, ed è consapevole che sarebbe necessario assimilare questo dato di fatto a livello politico-militare e superarlo. Oppure soccombere con l'intero sistema.

Le smargiassate del PNAC non sono che un banale riflesso di questa percezione e consapevolezza. La produzione letteraria è un fiorire di tentativi di teorie, dalla "fine della storia", allo "scontro di civiltà"; dal "mondo fuori controllo", alla nuova forma di "impero" (nell'accezione di Soros, di Negri-Hardt e di Gore Vidal, tanto per fare esempi). Ma non basta, evidentemente, che qualche intellettuale, autore dei teoremi citati, metta la sua firma sotto il programma neocons. Ci vorrebbe una borghesia rampante, pronta a prendersi la responsabilità di modificare veramente il mondo. Ma non c'è. Gli Stati Uniti non sono più il giovane paese che muove alla conquista con enorme spinta propulsiva, hanno esaurito il carburante. Possono provocare sconquassi a scala mai vista, ma non hanno quella politica che possa trasformarsi in guerra nel senso clausewitziano e viceversa.

25. La guerra segue un principio logico ma non sempre questo si rivela effettivo, di qui la varia natura delle guerre.

Gli Stati Uniti sono nella condizione esattamente opposta rispetto a quanto richiesto da von Clausewitz perché si possa parlare correttamente di politica-guerra-politica: "Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astratta e maggiormente collimano lo scopo politico e quello militare". E ancora: "La guerra mostra di allontanarsi tanto più dalla politica quanto maggiore è il suo carattere puramente bellico". Si leggano i documenti della banda bushita e si noti quanta parte è dedicata a questioni puramente militari e quanta a collegamenti politici; soprattutto si noti come il contenuto di quest'ultima parte si riduca in fin dei conti a frasi fatte sulla libertà, sulla democrazia, ecc. senza alcun riferimento alla dinamica storica per la quale gli Stati Uniti hanno una necessità assoluta di agire come agiscono, riferimento che darebbe una dignità teorica e storiografica all'istinto di conservazione del Capitale.

Nessuno evidentemente può pretendere che esistano moderne rivoluzioni borghesi e che da nuove battaglie di Valmy possano emergere gli eredi americani di Napoleone. Le guerre del tardo imperialismo non hanno più motivi forti e grandiosi, a dispetto delle mega-sciocchezze che i ghost writers, gli esperti di relazioni pubbliche, i portaborse e i maghi dei sondaggi mettono in bocca ai politici. Oggi, esattamente, la guerra è fine a sé stessa, può solo raggiungere risultati meschini, proprio perché si allontana dalla politica e si riduce a una pura manifestazione militare (peraltro neppure eclatante). Ciò non significa che gli americani non abbiano la forza e la capacità di scombinare il mondo a loro vantaggio: vuol semplicemente dire che il loro vantaggio immediato non corrisponde più a quello del mondo (la famosa locomotiva non traina da tempo l'economia mondiale ma la trascina nella crisi), e in ultima analisi neppure più a quello degli stessi Stati Uniti.

"Quando il piano non mira a grandi scopi, anche le tendenze della forza spirituale delle masse saranno così deboli da richiedere l'infusione di un maggior impulso anziché imporre loro un freno" onde indirizzarne razionalmente le energie. In quali parti del mondo si sprigiona una energia cinetica così alta da dover essere frenata e indirizzata invece che stimolata con droghe mediatiche?

26. La politica è l'intelligenza personificata dello Stato e ogni guerra dev'essere considerata come un suo atto specifico.

La politiguerra è la lunga mano dello Stato. Ma di quale Stato si parla? Dell'impero romano, dei regni barbarici, dello Stato di Machiavelli, di quello di Hobbes e di Hegel, dell'apparato di dominio nazionale borghese, oppure dello strumento mondiale di cui il Capitale totale avrebbe necessità e che non c'è? È chiaro che, per essere coerenti, gli Stati Uniti dovrebbero impostare la loro politiguerra con quest'ultima forma, realizzandola. Purtroppo per loro e per le semi-teorie di dominio che producono, non possono, assolutamente non possono. Essi sono costretti a muoversi nel penultimo stadio dello sviluppo capitalistico, quello dell'imperialismo nazionale, che è superato dai fatti ed è stato dagli stessi Stati Uniti combattuto contro l'Europa fino a quarant'anni fa.

Certo, è un paradosso. E allora? La storia è piena di paradossi. Perciò ribadiamo e completiamo l'enunciato di questo ventiseiesimo punto: la politica dovrebbe rappresentare l'intelligenza personificata dello Stato e ogni guerra dovrebbe essere considerata come un atto specifico della particolare forma di Stato esistente in un dato periodo storico. Non si può rappresentare l'intelligenza di un periodo storico passato senza entrare in contraddizione con la dinamica di quello attuale. Si finisce per condurre la guerra senza uno scopo. Perciò lo scopo che si accampa in un caso del genere non può essere corrispondente alla teoria: esso è falso.

Come stiamo verificando.

Riportiamo il paragrafo iniziale del già citato Rebuilding America's Defenses, che rappresenta la premessa teorica dell'azione americana: "Questo rapporto deriva dalla convinzione che l'America dovrebbe cercare di preservare ed estendere la sua posizione di leadership globale mantenendo la preminenza delle forze armate americane. Oggi gli Stati Uniti hanno una opportunità strategica senza precedenti. Essi non affrontano, nell'immediato, la sfida di grandi potenze; essi sono fortunati (nell'originale 'blessed', che vuol dire anche 'gioiosi' o 'benedetti', N.d.R.) assieme a ricchi, potenti e democratici alleati in ogni parte del mondo; essi stanno attraversando il più lungo periodo di espansione della loro storia; i loro principii politici ed economici sono quasi universalmente abbracciati. In nessun periodo della storia l'ordine e la sicurezza internazionale sono stati così riconducibili agli interessi e agli ideali americani. La sfida per il prossimo secolo consiste nel preservare e migliorare questa pax americana".

È falso che gli Stati Uniti esercitino nei confronti del mondo una qualsiasi forma di leadership, almeno nel senso complesso di primato, guida, egemonia. È falso che essi siano benedetti dal destino in compagnia di amici che, per quanto ricchi, potenti e democratici, non sono invece altro che concorrenti. È falso che i loro principii politici siano "quasi" universalmente abbracciati: la Russia, la Cina, l'India, il resto dell'Asia, il mondo islamico, l'Africa e per certi versi l'America Latina, cioè più di cinque miliardi di abitanti del Globo su sei, vorrebbero forse un livello di vita "americano", ma non apprezzano affatto i principii politici degli USA. È falso che la sicurezza e l'ordine internazionali formino un tutt'uno con gli interessi e gli ideali americani: un mondo che si sviluppasse nell'ordine e nella sicurezza manderebbe l'imperialismo americano ad ammuffire con quello inglese nel giro di dieci anni. È falsa, infine, la conclusione che si trae in genere dal quadro generale, semplicemente perché gli Stati Uniti non possono sperare di raggiungere una superiorità definitiva. Facciamolo dire a Sun Zu: "Chi ha truppe di scarsa entità è obbligato a prepararsi contro il nemico; chi ha un grosso esercito costringe il nemico a prepararsi contro di lui". Ritorna la simmetria, è solo questione di tempo.

Questa "politica" non è intelligenza personificata dello Stato ma solipsismo puro, autismo militare, complesso di potenza proiettato sul vuoto provocato da una politica imperiale. Una grande nazione come l'America può produrre un esecutivo come l'attuale solo in via transitoria, a meno che non siamo proprio alla fine del capitalismo. Seguendo il concetto di politiguerra finora preso in esame, quale "politica" possiamo immaginare che scaturisca dall'attuale "guerra" o viceversa? Vedremo cadere bombe a caso in giro per un mondo dominato dalla guerra per la guerra? Vedremo una moltiplicazione degli Afghanistan degli Iraq, dei campi di Guantanamo, delle leggi speciali come il Patriot Act? Sarebbe davvero la fine del sogno americano. Abbiamo detto e ripetuto che l'imperialismo americano è un nemico da non sottovalutare mai, e su questo hanno ragione i neocons. Non solo perché esso è in grado di sbattere sul muso a tutti la sua immensa forza, ma soprattutto perché è al momento, dialetticamente, anche come nemico, l'unico strumento che la rivoluzione possa utilizzare, e che sia abbastanza potente per far avanzare le basi per il comunismo. Altro paradosso, se vogliamo: vedremo gli Stati Uniti uccidere sé stessi?

Se la classe proletaria, l'unica potenza in grado di far marciare a tappe forzate la rivoluzione e di rappresentare col suo partito la rottura storica fra la società attuale e la società futura, non è presente sulla scena come classe per sé, la storia come movimento reale verso il comunismo non può certo non colmare il vuoto lasciato. Come diciamo spesso, sbeffeggiati dai contingentisti ma collegati con fermezza alla teoria comunista, qualcuno o qualcosa deve riempire il vuoto, "lavorare per noi".

L'attuale esecutivo statunitense non può essere il rappresentante di compiti importanti come una transizione, ma solo un esecutore materiale di compiti immediati; insomma, la storia gli fa solo eseguire il "lavoro sporco". Questo governo, in cui è installata la cricca affaristica bushita, è in grado di elaborare teorie mondiali come la proverbiale rapa è in grado di secernere sangue. La sua presenza sulla scena è provvisoria, utile solo a scuotere il mondo dall'apatia di fronte a una crisi sistemica che, tra l'altro, solo gli americani finora hanno previsto e persino descritto in ben altre opere. Se questa cricca dovesse prendere il sopravvento con il suo millenarismo al contrario (invece di aspettare la fine del mondo vorrebbe rifarlo a propria immagine e somiglianza), non sarebbe nemmeno da escludere un pronunciamento militare della borghesia americana per togliersela dai piedi e ristabilire le condizioni utili ad affrontare il problema della politiguerra in termini geopolitici seri. Oppure dovrebbe diventare un'altra cosa, più o meno come successe al falco isolazionista Nixon che mise fine alla guerra vietnamita e all'isolazionismo americano.

La congrega neocons è l'espressione del timore borghese di non farcela contro un mondo ostile. L'odio è percepibile. Il linguaggio degli strumenti militari e dei soldi per ottenerli è pane quotidiano in America, ma non ha radici riferibili a una qualche evoluzione storico-politica all'interno di un paese così fondamentale per la dinamica mondiale. Il framework, l'ossatura sociale soffre di esaurimento. Certo, è sempre possibile creare percorsi a posteriori, come ha fatto l'apparato mediatico quando è andato a scovare quarti di nobiltà politica per questo ambiguo movimento (con i citati Rizzi e Burnham). Ma sono sciocchezze.

La realtà è che la "Bush & Company" non è che una delle tante lobby ramificate all'interno dell'apparato capitalistico, quelle che qui da noi si chiamano mafie. Prima dell'11 settembre era solo una fra tante simili, arrivata al governo perché i potenti gruppi d'interessi le avevano pagato le elezioni. La sua improvvisa notorietà ha ragioni del tutto contingenti. E tali saranno i suoi compiti. Questo spiegherebbe anche la patologica mancanza di elaborazione successiva dei suoi vecchi documenti. Il Rebuilding citato, per esempio, non fa che riproporre frasi, sempre le stesse, che, per chi cercasse uno sprazzo di teoria, sono di una monotonia esasperante. Esso ricicla i temi di Statement of Principles del '97, a sua volta eco del citato memorandum Defense Planning Guidance del '92, quello secretato e mai reso pubblico. Gli stessi temi sono ripresi nel Quadrennial Defense Review Report del Pentagono e nel National Security Strategy of the United States della Casa Bianca detto "della guerra preventiva" (2002). Una specie di circolo vizioso.

Per sottolineare la continuità nel tempo, e in critica alle credenze secondo cui tutto sarebbe incominciato con l'11 settembre, citiamo da un'intervista al giornalista del Washington Post che ebbe tra le mani il documento segreto del 1992: "Qualunque cosa si possa dire su chi abbozzò il documento allora [l'attuale sottosegretario alla difesa Wolfowitz, N.d.R.] e sul fatto che il mondo sia un po' diverso da 10 anni fa, io vedo una sovrapposizione molto forte fra il National Security Strategy come espresso oggi dal governo e il decisamente muscolare Defense Planning Guidance del 1992. Vi sono in gioco molti degli stessi personaggi, oggi in primaria posizione di influenza. Lei deve semplicemente mettere i documenti fianco a fianco e vedrà che combaciano in gran parte, mentre sono veramente poche le differenze che colpiscono".

Questa è gente capace di scrivere senza ridere di sé che l'America è figlia di Marte e l'Europa è figlia di Venere! L'Europa, che è madre, nutrice e maestra del superconcentrato di violenza del militarismo a stelle e strisce!

A parte lo sciorinamento di sciocchezze, dietro la guerra all'Afghanistan e all'Iraq c'è evidentemente una spinta che parte da lontano. Pensare che il battilocchiesco gruppo sia l'artefice di una simile spinta è esagerato. Le sue spaventose ultrasemplificazioni non hanno nulla a che fare con la guerra geopolitica che dovrebbe cambiare il mondo e che non si vede ancora all'orizzonte. Se questa dovesse mai essere scatenata, sarebbe non meno gravida di conseguenze di quella che portò 12 milioni di soldati americani a combattere per occupare direttamente e lungamente il suolo dell'Europa e del Giappone.

È vero che l'America non può "territorializzare" la guerra – come del resto ammettono anche i bushiti – senza cacciarsi in un ginepraio peggiore di quello vietnamita, ma è anche vero che la politiguerra non si fa con gli schemini patinati e con le videoconferenze di stile hollywoodiano. Il generale David McKiernan, comandante delle truppe di terra in Iraq, ha scritto saggiamente che è da incoscienti invadere un paese di 450.000 chilometri quadrati e 24 milioni di abitanti con un terzo degli uomini utilizzati dieci anni fa. A meno che lo scopo non sia affatto quello ufficiale, il tanto sbandierato nation building, che dovrebbe essere la premessa per il nuovo ordine mondiale. La guerra non è un giro di poker.

La contraddizione fra potenza tecnica e bisogno di fantaccini è un altro paradosso, non c'è niente da fare. Per questo è meglio osservare ciò che succede sul campo piuttosto che ascoltare la disinformazione di guerra.

27. Una concezione del continuum politica-guerra-politica vale per l'interpretazione della storia militare e per le basi di una teoria completa della guerra.

Siamo al penultimo punto. Occorre ora, sulla base che ci siamo prefissata, tratta dallo schema del vom Kriege, approfondire il tema sugli Stati Uniti che lavorerebbero per la rivoluzione. E sappiamo bene quanto sia ostico. Al punto precedente, e non solo, è stato detto che la storia non conosce il vuoto, vediamo in che senso.

La prima osservazione da fare è che il "principio di polarità" clausewitziano vale per tutte le cose sociali (la guerra è una "cosa sociale"). Le due grandi classi "giocano" a somma zero, come abbiamo visto. Quando scatta la questione del potere tendono ad annullarsi l'una con l'altra, e chi è comunista tiene conto di questo fatto ben prima che si realizzi sul campo. La "nostra" questione militare è tutta qui. Ma il periodo della dualità di potere fra le classi è solo un attimo dell'intero corso rivoluzionario, mentre la lotta di classe non cessa mai, neanche quando la situazione sociale è calma come una palude. Il drenaggio di plusvalore da parte dei capitalisti è incessante, così come è incessante il tentativo proletario di salvaguardare le proprie condizioni di vita. Quindi le classi agiscono come avversari, non fosse che per questo solo motivo. Abbiamo già le tre condizioni che stanno alla base della teoria della guerra: l'atto di forza, l'imposizione della propria volontà e l'esistenza di avversari. Abbiamo anche gli elementi per la corrispondente teoria dei giochi. La lotta sindacale organizzata e consapevole è ad un livello più alto di quella spontanea e corrisponde a quello che von Clausewitz chiama "periodo di sospensione delle grandi battaglie", allo stazionamento militare, alla osservazione armata, alla scaramuccia, all'addestramento militare. Quando la classe proletaria non è all'attacco, passa la politiguerra della classe borghese. Il vuoto di classe, così come quello storico, non esiste. E neppure esiste la capacità di combattimento se non si combatte mai e non c'è allenamento, abitudine ai piani di scontro, all'organizzazione, ecc.

Con von Clausewitz per la prima volta un militare non scrive solo un manuale sulla guerra del suo tempo, ma scrive soprattutto della guerra, cioè sulla natura della guerra in generale, e la inserisce nell’intera dinamica della storia umana. Per questo in un testo "vecchio" come il suo, le potenti astrazioni rimangono assiomi validi anche in situazioni storiche differenti in presenza di mezzi non comparabili con quelli di allora. Quando scrive che per capire la guerra bisogna capirne l’intera dinamica, ci invita a riflettere per non sparare stupidaggini immediatiste del tipo: "si fa la guerra per distogliere l'attenzione dalla situazione interna"; "si fa la guerra per il petrolio"; "il militarismo rilancia l'economia"; "Baghdad come Stalingrado". Occorre ribadire tale concetto perché è importante: per capire quello che è successo a New York e Washington, in Afghanistan, in Iraq e in tutte le fasi successive, bisogna capire l’intera dinamica dell’imperialismo.

La dinamica è un "andare verso…", e la società umana va con sicurezza verso il comunismo, anche se la percezione di questo movimento non è immediata ed è resa possibile solo dalla teoria dei processi rivoluzionari, quella comunista. Non dunque verso il comunismo-caricatura prodotto dalla controrivoluzione, ma una società che è la negazione di tutto ciò che caratterizza la presente. Tutto, niente si salva. L'interpretazione della storia militare che porta von Clausewitz ad essere interessante per dei comunisti è che questo "tutto" è, sempre, in ogni caso, la posta in gioco fra gli avversari in una guerra, almeno da Napoleone in poi. Abbiamo quindi un invariante, sia pure da trattare con la solita circospezione.

Focalizziamo ora questo punto: nella loro storia gli Stati che possiamo definire imperialisti sono inesorabilmente cresciuti in grandezza territoriale e in potenza economica. La tendenza storica alla formazione e all'espansione delle nazioni è stata rivoluzionaria, la frammentazione è stata – e ancor più lo sarà – antistorica. La guerra poi ha una dinamica in crescendo: al livello più basso spazza via un avversario; a livello intermedio spazza via interi paesi scomponendo e ricomponendo territori, popolazioni e alleanze; al livello più alto spazza via una società vecchia per lasciare il posto ad una nuova. La politiguerra attuale, punteggiata da combattimenti, contempla uno scontro non meno vitale e dovrebbe, nella sua dinamica dell' "andare verso…", avere caratteristiche altrettanto importanti. Qual è il percorso individuabile? Quali sono gli effetti di una guerra che non si manifesta fra classi nell'epoca in cui è maturo il passaggio sociale? E soprattutto: può la guerra, per mezzo di combattenti che non hanno nulla a che fare con il comunismo, lavorare per il comunismo?

L'America non può null'altro che "andare verso…" il comunismo. È il paese con il più alto grado di maturazione capitalistica e quello che sviluppa la più micidiale potenza di esportazione delle condizioni di capitalismo maturo. Finora l'ha fatto in misura molto relativa, preoccupandosi di trarre vantaggi da qualsiasi regime le fosse alleato, anche il più reazionario o storicamente arretrato. L'imperialismo più becero della storia non è riuscito a fare storia se non indirettamente, muovendosi come il proverbiale rinoceronte nella cristalleria. Anche se le rivoluzioni avanzano più per distruzione che per costruzione, l'America ha un problema grave.

È naturale che si trovi – per "contraccolpo", come dicono gli americani stessi – con tanti nemici. È nell'impossibilità di continuare come prima e dovrà combatterli. Combattendoli dovrà spazzare ciò che resta di società antiche, non certo gli aspetti capitalistici già presenti, che dovrà invece sfruttare. L'Europa, da questo punto di vista, non è più modificabile in senso capitalistico e infatti è un obiettivo secondario, da "disaggregare", come dicono i neocons, e basta. Per ora non è soggetto del problema ma oggetto. Questo andare contro la storia è un aspetto del problema. C'è però una parte di esso che presenta una contraddizione enorme. Vaste aree del mondo sono state ridotte proprio dal capitalismo ad aree di servizio del Capitale, fornitrice di materie prime, di lavoro quasi schiavistico e manodopera da immigrazione. Il consumo non può crescere in queste condizioni, quello è riservato alle metropoli blessed dalla fortuna e dalla democrazia. Salta in questo modo l'equazione di equilibrio della formazione del plusvalore o dell'accumulazione, che contempla una circolazione del valore fra le classi (banalmente: una parte del valore prodotto dev'essere plusvalore, una parte salario, cioè consumo dei proletari, altre parti non ce ne sono).

L'America è quindi di fronte a un dilemma, di cui forse la sua borghesia più avveduta ha già sentore: o va verso un isolazionismo totale e riduce il mondo a puro retroterra fatto di paesi-satellite e di lande popolate di schiavi per alimentare la sua sete di plusvalore (soluzione che somiglia un po' troppo alla concezione hitleriana del lebensraum, spazio vitale), oppure prende la situazione di petto e conduce una guerra senza quartiere per trasformare il mondo secondo un piano razionale. La guerra e basta, senza questo obiettivo, solo per ragioni di "sicurezza nazionale", di "mantenimento della supremazia militare" e di "controllo geopolitico" è una sciocchezza. Come scrive von Clausewitz, ogni guerra deve avere uno scopo politico; se non ce l'ha, si consuma in sé stessa senza alcun risultato.

Siamo al dunque: se l'America dovrà, vorrà e soprattutto potrà trasformare il mondo, avrà bisogno di essere conseguente col grandioso compito, dovrà spazzare via quella fabbrica di chiacchiere che è l'ONU e sostituirla con un governo, cioè con un potere esecutivo, uno legislativo e uno giudiziario efficienti; dovrà darsi un ministero mondiale dell'economia, cioè distruggere per poi ri-formare da cima a fondo il sistema di controllo dei capitali (FMI, Banca Mondiale, WTO); dovrà spazzare via la sovranità nazionale di tutti gli Stati che ne mantengono qualche parvenza; dovrà impostare un piano globale di investimenti e di divisione del lavoro; dovrà darsi un esercito e una polizia globali; dovrà… ecc. ecc. Altro che globalizzazione. Ma non esiste un nuovo tipo di capitalismo capace di governare l'economia del mondo, di introdurre quell'equilibrio la cui mancanza lo ha caratterizzato per secoli rendendolo il più feroce modo di produzione della storia.

Il capitalismo, come tutti i modi di produzione, una volta preso il sopravvento, "è di ordine mondiale; non perché contemporaneamente in ogni paese ogni settore economico sia organicamente conforme al tipo di società che prevale storicamente, ma perché un solo tessuto connettivo capitalista oggi li ricollega attraverso lo scambio delle merci e questo tessuto rivela il tipo di organizzazione sociale che domina nel mondo abitato. Differenza di fasi, quindi, nello spazio e nel tempo, ma mai diversi tipi di capitalismo" (Lezioni delle controrivoluzioni). Gli Stati Uniti non daranno vita a una nuova forma capitalistica, potranno solo "andare verso…" una forma non capitalistica.

Un governo mondiale basato su di un progetto centrale, capace di pianificare l'economia e il flusso di valore, perciò di armonizzare quella che è la contraddizione massima, cioè la produzione sociale e l'appropriazione privata, sembra decisamente troppo, anche per la nazione più potente della storia. Non sarebbe troppo, invece, per una rivoluzione, anche iniziata, suo malgrado, da questa mostruosa potenza.

28. Risultato per la teoria: nello studio della guerra, violenza e istinto, probabilità e caso, ragione e rovesciamento della prassi, sono elementi inscindibili.

Siamo alla fine. Con il nostro viaggio fra i punti di von Clausewitz, seguendo il suo intento di rispondere alla domanda "che cos'è la guerra?", titolo che apre il Libro Primo, abbiamo praticamente sviluppato, in continuità con il lavoro svolto dalla nostra corrente, delle tesine sulla guerra in atto. Lo "strano triedro" fatto di opposizioni e che utilizziamo in quest'ultimo punto è dell'autore, il quale precisa: una teoria che non tenesse conto dell'una o dell'altra opposizione, oppure che pretendesse di stabilire fra di esse rapporti arbitrari, derivanti da speculazione e non da fatti, storia, dinamica di forze in lotta, si troverebbe immediatamente in tale contrasto con la realtà da doversi, già, per questo solo motivo, considerare come distrutta. E rimanda al libro secondo, in cui si affronta la teoria della guerra e si analizzano i precedenti tentativi di teorie: "Tutti questi tentativi sono da considerarsi quali progressi nel dominio del vero solo nella loro parte analitica; nella loro parte sintetica, invece, nelle loro regole e prescrizioni, non valgono assolutamente nulla".

Giudizio forte, nei confronti di centinaia di condottieri e analisti suoi colleghi. Giudizio che applichiamo, senza ulteriori dimostrazioni, ai "sintetizzatori" attuali della questione militare in epoca di capitalismo ultramaturo, che richiederebbe ben altro che specchietti, tabelle, raccomandazioni sentenziose e soldi. E lo applichiamo anche ai troppi che pensano di risolvere, con quattro frasette mandate malamente a memoria, l'immenso quesito di che cosa sia la guerra imperialistica oggi, senza sviscerare il problema nelle sue componenti, senza avere un quadro di riferimento assiomatico, senza ricavare da esso un modello dei flussi di valore che sono la vita dell'imperialismo maggiore, senza astrarre da ciò che dicono i militaristi di Washington come individui, senza soprattutto tener conto di quella dinamica storica che persino un militare prussiano d'inizio '800 ha insegnato a considerare.

Diciamo en passant che non se ne può più di questo dilettantismo volgare e pasticcione, che si risveglia dal letargo ogni volta che "l'Amerika" muove le sue truppe, che scambia il rantolo della vecchia società in agonia con una manifestazione di esuberanza capitalistica cui bisognerebbe rispondere chiamando a raccolta l'intero schieramento interclassista ed elettoralesco, con i suoi anti-globalismi, anti-crociatismi, partigianismi e "resistenze" varie, rammaricandosi persino del fatto che le "masse oppresse" non si facciano scannare più di quanto già non siano scannate, per "suonarle agli americani". Da quasi un secolo e mezzo non c'è più nulla da ri-formare, costruire, migliorare, in questa società capitalistica occidentale; c'è solo da demolire e liberare la potenza oggi incatenata della società futura. Nessuna "resistenza", ma attacco finale. In questo sono molto più seri i falchi neocons, che almeno sentono la necessità di prevenire la catastrofe, e invece di piagnucolare sfornano piani d'attacco preemptive.

Traditore della rivoluzione, disse la nostra corrente, non è chi comunismo non fa, volgare concetto da bricoleur, ma chi non ne riconosce l'avanzata, anche quando è in marcia con gli strumenti della vecchia società; chi si getta soggettivamente sul problema, isolandolo dal contesto geo-storico, e abbandona il determinismo. Perché gli uomini fanno, è vero, la propria storia, ma non a uno per volta, col proprio pensiero individuale. L'uomo individuale non esiste, come già sapevano gli illuministi prima della rivoluzione borghese, l'uomo è un essere sociale. Ma non esiste ancora quello in grado di rovesciare la prassi, di fare la propria storia. L'essere sociale d'oggi non può che decifrarla e solo da questo paziente lavoro di decodificazione può capirla, se riesce a mettersi in sintonia col partito storico.

"È metodo metafisico porre la questione dello stare, alternativamente, nel campo eletto o in quello reietto. È metodo dialettico porre la questione dell'andare, ossia della direzione del movimento" (Deretano di piombo, cervello marxista, 1955). Non ha alcuna importanza stabilire le coordinate di un corpo nello spazio per sapere dove sta; non importa sapere se tali coordinate hanno valore positivo o negativo: lo zero di separazione lo mettiamo noi, è una convenzione. Ha invece importanza fondamentale stabilire il moto di questo corpo, la massa, la velocità, la direzione, insomma la sua dinamica complessiva rispetto a un punto di riferimento.

Nel testo che abbiamo appena citato, a noi particolarmente caro, si dice che quando tracciamo un confine fra l'Alto e il Basso, il Prima e il Dopo, il Bene e il Male, la Legge e il Crimine, il Paradiso e l'Inferno, la Pace e la Guerra, si deve sapere rispetto a che cosa si traccia, che cosa finisce da una parte e che cosa finisce da quella opposta; soprattutto occorre essere consapevoli che il tracciare confini è solo un arbitrio, una norma condivisa che serve unicamente per iniziare il lavoro collettivo d'indagine. La memoria dell'esperienza passata ci trasmette risultati di azioni e ricerche grandiose, ma si tratta di risultati transitori delle società e delle classi che ci hanno preceduto, che ci obbligano a riscrivere i confini delle fasi storiche delle discriminazioni, delle rivoluzioni, dal nostro punto di vista e non dal loro. Non si tratta di cercare dei confini materiali, per esempio nei formidabili esempi dell'arte e della scienza lasciatici dalle generazioni passate, e neppure delle barriere metafisiche, tracciate in eterno dalle rivoluzioni (segmenti di storia) che hanno preceduto quella in corso, perché "ogni volta che una barriera sacra cade, la Rivoluzione sorge e cammina". Al tempo della Russia staliniana dicemmo che "andare verso…" il capitalismo, in un paese ancora non capitalistico era sinonimo di "andare verso…" il socialismo, ed era rivoluzione; la bestialità era affermare che vi era socialismo realizzato quando ancora non vi era capitalismo sviluppato, stabilire che la dinamica era terminata (cfr. Deretano di piombo cit.).

Nella guerra attuale gli ingredienti ricordati nel titolo di questo ultimo punto clausewitziano ci sono tutti: violenza e istinto, probabilità e caso, ragione e velleità di rovesciamento della prassi. Essi sono, appunto, inscindibili. L'esplosivo per far saltare barriere ci sarebbe, ma non sarà ancora utilizzato, purtroppo, da nessuno degli schieramenti, per la semplice ragione che solo la classe rivoluzionaria potrebbe, con la sua attiva presenza, con i suoi "soldati politici", obbligare a tanto. Il nemico "asimmetrico" per ora lavora alla conservazione del passato. L'America non riuscirà, come vorrebbero i suoi divinizzatori, a rovesciare la prassi, a mettere in pratica il progetto di world-building e ridisegnare il mondo a sua immagine e somiglianza, eliminando i resti delle vecchie società. Non avremo un'accelerazione dell' "andare verso" il comunismo. Non c'è più forza propulsiva nel capitalismo, non ci sono più programmi adeguati, non c'è più neppure, in ultima analisi, l'internazionalismo borghese espresso a suo tempo dall'Inghilterra coloniale. I progetti per il nuovo secolo americano, detto con von Clausewitz, "nella loro parte sintetica, nelle loro regole e prescrizioni, non valgono assolutamente nulla".

PNAC: Dichiarazione sull'Iraq del dopoguerra

Questi "suggerimenti" al governo degli Stati Uniti furono pubblicati prima della guerra. Il "disaccordo" era in pratica solo con il segretario di Stato Powell e con il presidente Bush, dato che Il vicepresidente Cheney, il segretario alla difesa Rumsfeld e il suo vice Wolfowitz erano per l'intervento senza mediazioni. Una seconda dichiarazione affrontava il tema del coinvolgimento di FMI, Banca Mondiale, WTO e NATO.

"Alcuni di noi sono in disaccordo e altri d'accordo con la gestione governativa della questione irachena, ma tutti conveniamo nel sostenere l'intervento militare in Iraq. È giunto il momento di agire per rimuovere dal potere Saddam Hussein e il suo regime.

La rimozione del regime iracheno getterà le fondamenta per la realizzazione di tre vitali obiettivi: disarmare l'Iraq rispetto all'approvvigionamento, la produzione e la detenzione di armi di distruzione di massa; instaurare un governo pacifico stabile e democratico in Iraq; contribuire allo sviluppo democratico nell'intero Medio Oriente. Per buone prospettive di successo nei prossimi mesi e anni gli sforzi americani dovranno essere guidati dai seguenti principii:

- Il cambio di regime non è un fine in sé, ma un mezzo per raggiungere un fine: l'instaurazione di un Iraq pacifico, stabile, prospero, libero e democratico. Noi dobbiamo aiutare a costruire un Iraq governato da un sistema pluralistico, completamente impegnato a tenere in gran conto il ruolo della legge e del diritto. Gli iracheni impegnati nel futuro democratico devono essere integrati in questo processo affinché esso abbia buona riuscita. L'Iraq diventerà una forza di stabilità e non più di conflitto e parteciperà allo sviluppo democratico dell'area.

- Il processo di disarmo, stabilizzazione, ricostruzione, riforma, unità e democratizzazione dell'Iraq richiederà un significativo investimento in leadership, tempo, energie, risorse agli Stati Uniti così come ai loro alleati e alla comunità internazionale richiederà assistenza. Tutti devono capire che noi siamo impegnati nella ricostruzione dell'Iraq, che offriremo le risorse occorrenti e rimarremo tutto il tempo necessario.

Ogni tentativo di fissare anticipatamente strategie alternative o partenze di truppe distruggerebbe la credibilità americana e diminuirebbe considerevolmente le prospettive di successo.

- L'apparato militare degli Stati Uniti si farà necessariamente carico dell'onere iniziale per mantenere la stabilità e l'unità territoriale dell'Iraq, trovando ed eliminando nel frattempo le armi di distruzione di massa, facendo ogni sforzo per fornire assistenza umanitaria ai più bisognosi.

- Per il prossimo anno ed oltre, le truppe USA e quelle della coalizione dovranno rappresentare l'unica forza militare internazionale presente in Iraq. Ma, non appena la situazione della sicurezza lo permetta, l'autorità dovrebbe essere trasmessa ad agenzie civili e a rappresentanti della popolazione irachena. Gran parte delle forze di sicurezza a lungo termine, così come delle risorse per la ricostruzione, dovrà provenire dai nostri alleati d'Europa e di altri paesi. Suggeriamo di dare molta importanza a un impegno della NATO e di altre istituzioni internazionali per la pianificazione e la realizzazione rapida di uno scenario post-conflitto.

- La leadership americana è dunque essenziale, ma la necessità di uno sforzo straordinario richiede il supporto, la cooperazione e la partecipazione internazionale per giungere al successo. Dal momento che un Iraq stabile, pacifico e democratico è nell'interesse dell'area e del mondo intero, è importante che la stabilizzazione guidata dagli americani e il lavoro di ricostruzione del paese abbiano il supporto, il pieno coinvolgimento, delle organizzazioni-chiave internazionali.

La riuscita del disarmo, della ricostruzione e della riforma democratica dell'Iraq può contribuire decisamente alla democratizzazione dell'intero Medio Oriente. Questo è un obiettivo che mette in primo piano l'importanza strategica degli Stati Uniti – come del resto della comunità internazionale – e il suo conseguimento richiederà investimenti e impegni commisurati ad esso. Noi offriamo al Presidente e al Congresso il nostro pieno appoggio per questi obiettivi di importanza vitale".

Rivista n. 11