Un modello dinamico di crisi (2)
Indagine sul futuro prossimo del capitalismo

Confronto fra modelli: il nostro e quello del MIT

Come s'è visto, abbiamo adottato alcuni criteri e dati ricavandoli da studi passati della nostra corrente e direttamente nostri (di n+1), supportandoli con grafici elaborati da istituzioni borghesi. Abbiamo anche visto che la differenza sostanziale tra il nostro modello e quello borghese non consiste nella tecnica di raccolta e utilizzo dei dati ma nella finalità dell'elaborazione. In ultima analisi nello scopo della previsione. La potenza di elaborazione dei grandi computer dell'inizio degli anni '70 oggi è a disposizione di qualunque ragazzino con il PC in casa, moltiplicata per migliaia di volte, quindi non è questione di macchine ma di programmi finalizzati. Questo è il punto: un programma finalizzato alla salvaguardia del capitalismo va bene anche se finalizzato alla sua distruzione. Non c'è bisogno di voli dialettici, basta capire che per salvaguardia e distruzione sono necessarie le stesse conoscenze sui meccanismi del sistema (da Sun Zu a von Clausewitz l'arte della guerra è una relazione fra difesa e attacco, elementi inseparabili). E su questo argomento noi abbiamo sicuramente "una marcia in più", perché non ci basiamo sull'ideologia della conservazione del sistema bensì sulla storia effettiva del succedersi dei modi di produzione, vale a dire sulla serie delle rivoluzioni già realmente avvenute.

Rapporto produzione cerealicola/popolazione mondialeFigura 12. Indice della produzione cerealicola mondiale in rapporto alla popolazione dal 1950 al 2000 (indice 1950=100. Fonte: Meadows-Randers, Oltre i limiti dello sviluppo. Nostra elaborazione dal 1990 al 2000 su dati FAO. Tonnellate). Tra gli anni '50 e '60 la produzione pro capite è aumentata per effetto della cosiddetta "rivoluzione verde" nel Terzo Mondo che ha comportato l'introduzione massiccia degli ibridi, con la conseguente dipendenza dei contadini dalle multinazionali del seme e dei fertilizzanti chimici; da qualche anno è in calo anche a causa di cattivi raccolti dovuti alla siccità, tanto che al momento in cui scriviamo si stanno intaccando pesantemente le riserve e si scatenano i prezzi.

Tra le istituzioni borghesi, il MIT, su commissione del Club di Roma, ha prodotto lo strumento più interessante dal nostro punto di vista, Mondo 3, tanto che quando fu pubblicato in Italia ce ne occupammo direttamente sulla nostra stampa di allora. La borghesia ha significativamente rimosso quell'esperienza, relegandola a curiosità formale, ma noi ce ne siamo occupati spesso, anche recentemente (cfr. n+1 n. 20, bibliografia).

Nel sistema-mondo simulato da quel modello, era in vigore senza infingimenti l'ideologia dominante della crescita continua. La popolazione mondiale avrebbe smesso di crescere solo una volta raggiunto nel suo complesso il livello di vita europeo, che già presentava sintomi di flessione (oggi è in declino nei maggiori paesi, resiste la crescita di quello americano). Le riserve minerali del sottosuolo erano considerate limitate ma liberamente consumabili. I fenomeni di retroazione fra produzione e natura, fra entrambi e il sistema politico, erano registrati con i reali ritardi osservati, quindi era giustamente attribuita al sistema una conseguente inerzia al cambiamento. In base ai dati immessi nel modello e ai criteri realistici adottati, i suoi realizzatori non si stupivano affatto nel vedere il computer disegnare curve che erano potenti segnali di "superamento dei limiti" e perciò di collasso del sistema-mondo. Ma avevano il filtro dell'ideologia in testa e quindi si limitavano a correggere i parametri fino a ottenere delle curve "accettabili". Siccome Mondo 3 era un modello studiato per la salvezza del capitalismo, lo scopo dichiarato dei suoi autori era quello di suggerire delle riforme. Di qui il connubio fra i borghesi preoccupati del Club di Roma e i tecnici del MIT.

Mondo3Figura 13. Risposte del modello standard "Mondo3" del MIT-Club di Roma, 1972. Tutte le curve mostrano inesorabilmente un "picco" nella prima metà del secolo in corso. Il gradino nella "speranza di vita" alla fine degli anni '30 è dovuto alla diffusione della penicillina.

La figura 13 visualizza l'evoluzione del modello nel futuro sotto l'azione delle determinazioni realistiche immesse sulla base degli andamenti storici conosciuti. Sono del tutto assenti cambiamenti tecnici e provvedimenti politici considerati poco probabili senza una "presa di coscienza" (naturalmente!) da parte dei governi a livello internazionale. È la continuazione della routine del capitalismo "così com'è", quella che a noi interessa di più, dato che non abbiamo mai pensato che il capitalismo sia riformabile. Dal punto di vista della massima astrazione, lo schema di riferimento è quello del quadro D di figura 1.

Con serio piglio scientifico, gli autori del modello mettevano in guardia sulle previsioni così ottenute per mezzo del computer: esse non avevano la pretesa di rappresentare un vaticinio a media scadenza; disegnavano però un "tracciato di riferimento" o "standard" per chiunque volesse su quei dati impostare una determinata politica di cambiamento per correggere l'andamento catastrofico. A noi importa sottolineare che il sistema così com'è, con le retroazioni conosciute e il trend di crescita esponenziale, è sicuramente spacciato. Dicevamo che nessun modello di previsione può essere neutro. Mondo 3 non ha la pretesa di esserlo, perché è finalizzato alla salvezza del capitalismo, ma se noi affermiamo di poterlo utilizzare ai nostri fini, opposti rispetto a quelli dichiarati dai suoi elaboratori, sembriamo cadere in una palese contraddizione.

La contraddizione è solo apparente. Se il modello può essere utilizzato indifferentemente da comunisti e borghesi per scopi opposti allora il modello sembrerebbe neutro, assumerebbe quei caratteri opposti proprio esclusivamente per via dell'utilizzo che se ne fa. Questo non è esatto. Un modello dinamico di sistema sociale non è come un fucile, che in mano al borghese ha funzione conservatrice e in mano a un rivoluzionario ha funzione sovvertitrice. Un siffatto modello per noi ha funzione sovvertitrice anche se pensato, elaborato e realizzato da un borghese. Purché i dati non siano falsi. È il borghese che lo identifica come strumento di salvezza conservatrice, ma è una sua illusione, perché la dinamica è impostata su dati reali e questi sono spietati: il capitalismo morirà. Non per niente gli articoli che pubblicammo nel '73 e nel '78 erano intitolati La borghesia interpella il suo oroscopo e Invano il capitalismo si interroga sul futuro della propria economia. La dinamica reale è una cosa, altra è l'esorcismo.

In questo caso si tratta di un esorcismo "onesto". Nel modello il sistema capitalistico prosegue la sua corsa "progressiva" in modo solo quantitativo senza che, proprio come nella realtà, qualcuno prenda provvedimenti atti a cambiare l'intero percorso, che quindi rimane immutato e dura… il più a lungo possibile. Agricoltura, industria, welfare, scienza, tecnica progrediscono solo secondo l'andamento registrato già per il passato, con esclusione dei balzi che potrebbero introdurre perturbazioni improbabili. Anche la transizione demografica è vista come risultato spontaneo dovuto al passaggio di molti paesi allo stadio prima industriale e poi dei servizi.

La simulazione prevede gli eventi con uno scarto minimo di errore. Mostra una popolazione mondiale che passa dal miliardo e mezzo del 1900 ai 5 miliardi del 1990 e ai più di sei del 2000. La produzione industriale si espande di 20 volte fino al 1990 consumando solo il 20% delle risorse non rinnovabili (al netto fra il consumo, le riserve e i nuovi ritrovamenti). Il prodotto agricolo pro capite cresce ancora e sembra che la fame sia scongiurata. Tra il 1990 e il 2000, però, intervengono fattori di accelerazione che preannunciano il collasso a venire. Siccome il sistema ha un'inerzia di una ventina d'anni, ecco che la simulazione dice: bisognava prendere provvedimenti tra il 1970 e il 1980. Sappiamo com'è andata.

Appena dopo il 2000 il sistema si autolimita. La crescita si ferma spontaneamente. L'inquinamento da polluzione e rifiuti, che prima era sopportabile, ora impone spese insostenibili per essere combattuto. Incomincia ad essere intaccata significativamente la fertilità della terra, tanto che a partire dal 2010 diminuisce del 4,5% all'anno, cioè in modo esponenziale. Nel 2015 incomincia a declinare la produzione totale di alimenti (quella pro capite precipita). Qui il modello non tiene conto della legge della rendita e specifica soltanto che maggiori risorse vengono spostate dall'industria all'agricoltura. La nostra lettura è diversa: sempre più plusvalore viene accaparrato dalla rendita e il prezzo del cibo sale enormemente mentre scendono i prezzi industriali.

Al livello di consumo del 1990 il modello (ricordiamo che lo stato del sistema evolve a partire da tempo t=1972 su dati reali raccolti dal 1900) prevede che le risorse minerarie conosciute durino, a ritmo di consumo costante, ancora per 110 anni. Ma l'evoluzione fino al 2020 mostra a quella data una riserva di minerali che può durare solo altri 30 anni. Il modello corregge sé stesso e passa da 110 anni a 60 per la disponibilità di "risorse non rinnovabili" a causa della crescita esponenziale e delle retroazioni negative. Tra il 1990 e il 2020 la popolazione sale a oltre 9 miliardi, la produzione industriale sale dell'80% e la crescita percentuale del consumo di materie prime raddoppia. Dal 2000 al 2020 il mondo consumerà, secondo il modello, una quantità di risorse non rinnovabili uguale a quella consumata in tutto il XX secolo. Ma per far questo utilizzerà molta più energia, tempo e capitali a causa delle difficoltà e dei costi crescenti per trovare, estrarre, raffinare e trasportare risorse sempre più rare e inaccessibili (è una inesorabile conseguenza della legge della rendita: il prezzo base di un prodotto della terra è dato dal "campo" peggiore).

Il modello reagisce a questo stato di cose e dirotta parte dei capitali destinati alla produzione di base (settore dei mezzi di produzione) e a quella per mantenere il ciclo D-D', verso una serie di settori che servono soltanto a difendere il Capitale da sé stesso. In tal modo l'economia mondiale diventa assistita, "il capitale fisso industriale incomincia a declinare trascinando con sé i settori agricolo e dei servizi" (Oltre i limiti… pag. 169). Il modello non tiene conto della finanziarizzazione del Capitale, cioè della sua autonomizzazione rispetto alle decisioni degli uomini, ma non si può pretendere, basta e avanza quello che ci permette di osservare. Per ammissione degli stessi autori, anche se Mondo 3 non è la realtà, la lunghissima serie di simulazioni, durata vent'anni, porta a concludere

che il sistema del modello, e, per implicazione, quello del mondo reale, ha una forte tendenza al superamento dei limiti e al collasso. E in effetti, nelle migliaia di elaborazioni al calcolatore che abbiamo eseguito nel corso degli anni, questo è stato l'esito di gran lunga più frequente (Oltre i limiti… pag. 171).

Ricordiamo che per "superamento dei limiti" s'intende la tendenza del sistema a distruggere più di quanto non riesca a preservare, e questo senza rendersene conto, cioè senza che sia possibile prendere provvedimenti per autolimitare la potenza distruttiva insita nel sistema stesso. O anche solo senza che sia possibile eliminare i classici ritardi della politica nelle retroazioni, anche qualora i provvedimenti siano presi. Vale la pena sottolineare un concetto fondamentale di Marx: ogni rivoluzione esplode quando una data forma economico-sociale si trasforma da motore di sviluppo della forza produttiva sociale in sue catene. Il modello, nonostante l'ingenua pretesa di giungere a una riforma, mostra evidentissime le catene.

Mondo 3 prendeva in considerazione cinque parametri fondamentali: popolazione, risorse minerali, risorse alimentari, produzione industriale, inquinamento; il nostro modello del 1956 prendeva in considerazione solo i primi quattro (anche volendo, a quella data non esistevano dati sull'inquinamento). Mondo 3 ricavava dai dati una quantificazione sul "tenore di vita" della popolazione mondiale; il nostro modello ne ricavava un crocevia storico per il proletariato occidentale: quando la mineralizzazione della società avesse sopraffatto il suo essere biologico, essa si sarebbe disumanizzata del tutto, esplodendo in una guerra e, conseguentemente, in una rivoluzione (che avrebbe dovuto bloccare la guerra per accelerare il processo storico). Il tenore di vita è quantificabile in valore monetario di beni e servizi consumabili, un parametro che ovviamente non ci interessa se non come critica alla folle pulsione consumistica che corrompe il proletariato occidentale. Ma le rivoluzioni non esplodono solo perché si abbassa il tenore di vita: gli uomini si rivoltano quando la vecchia società diventa insopportabile e quella nuova sembra impossibile, cioè quando il salto sociale viene impedito dalla vecchia forma che stenta a morire. Tutto ciò ha soverchianti contenuti qualitativi. Anche se esistono modelli matematici per trattare qualitativamente i processi (teoria delle catastrofi di René Thom) ci conviene rimanere nel campo del computabile, cioè dei numeri.

Non c'è altro modo di quantificare i caratteri del sistema se non quello di fissare su carta (o nella memoria del computer) le nude cifre sui quattro parametri classici (oggi cinque) presi in esame sia da noi negli anni '50, sia dalla borghesia venti e quarant'anni dopo. Su di esse innesteremo un'ulteriore elaborazione qualitativa ricorrendo alla "nasometria", cioè alla capacità di elaborazione del cervello sociale, che non appartiene a qualche particolare individuo ma è distribuito nel tempo e nello spazio.

Guardando i grafici di Mondo 3, anche quelli che simulano provvedimenti drastici da parte di tutti i governi, si nota chiaramente che le curve possono cambiare il loro andamento solo se si elimina la crescita esponenziale. Ma il capitalismo senza accumulazione è un non senso, e quindi i governi cercano invano una crescita senza le sue conseguenze. Un automobilista che si trovi sotto un nubifragio, con visibilità ridotta, strada viscida e freni bagnati, se non è pazzo o ubriaco, non accelera di certo, rallenta. Una legge fisica ci dice che il danno in caso di incidente aumenta in ragione geometrica rispetto alla velocità, e naturalmente ha grande influenza anche la massa. Senza far calcoli, agendo solo istintivamente, l'automobilista saggio regola la propria velocità in funzione delle condizioni ambientali. Si comporta come un sistema a retroazione negativa, cerca cioè un suo equilibrio rispetto al nubifragio. Cerca anche di prevedere che una pozza d'acqua può comparire all'improvviso e quindi che il sistema potrebbe essere disturbato da un evento non lineare (diminuzione dell'attrito e della tenuta di strada, reazione di controsterzo, testa-coda e disastro). Sa che se non pone rimedio preventivamente, vi sono eventi che si amplificano da soli sfuggendo al controllo. Sa che per lui vi è una soglia di pericolo in relazione all'ambiente. Per un sistema complesso è la stessa cosa, anche se tutti i parametri sono ovviamente moltiplicati di numero e d'importanza.

Quasi tutti i processi che riguardano il capitalismo sono di tipo non lineare, quindi soggetti all'effetto soglia. Può diminuire la quantità di alimenti disponibile in un paese a capitalismo maturo, e statisticamente in un primo tempo diminuirebbe semplicemente il numero degli obesi; ma oltre una certa soglia scatterebbe improvvisamente un problema sociale, o un aumento delle malattie e quindi della mortalità, interrompendo la regolarità della curva. Un paese petrolifero può veder diminuire costantemente la produzione di petrolio per esaurimento dei pozzi e aumento dei costi nella messa in funzione di quelli nuovi e più profondi, ma oltre una certa soglia (prezzo medio del petrolio in relazione ai consumi) deve smettere bruscamente le trivellazioni e l'estrazione. Quando esiste un "effetto soglia" gli effetti delle retroazioni ritardate diventano catastrofici e il sistema va fuori controllo. Indipendentemente dalla potenza del sistema, dall'efficienza della sua scienza, dalla professionalità dei suoi governanti, dalla vitalità della sua economia. Anzi, in presenza di soglie, quelle che normalmente sono considerate virtù si manifestano come difetti. Ad esempio: di fronte a una recessione dovuta a crescita da aumento di produttività (discesa del saggio di profitto), i saggi governanti predicano di solito che occorre prendere provvedimenti per rilanciare la crescita e fanno di tutto per aumentare ancora di più la produttività!

Interrogato nel 1990 su quali fossero i sintomi del "superamento dei limiti", cioè del picco di incoscienza che avrebbe portato il sistema fuori controllo, Mondo 3 aveva risposto con sicurezza: 1) crescita imperterrita del sistema-mondo nonostante la scarsità di energia, di minerali e di alimenti; 2) inizio di effetti visibili sul fronte dell'inquinamento e dello smaltimento dei rifiuti; 3) declino del capitale industriale. Tutto ciò, affermavano gli autori, si sarebbe mostrato con particolare evidenza a partire dai primi anni 2000. Invece Mondo 3 non aveva dato risposte sugli effetti a livello di classe. Ovviamente perché i suoi autori non si erano nemmeno posti la domanda.

Una modellizzazione al 2008: acciaio e petrolio

Il modello standard del MIT, pubblicato come abbiamo visto nel 1972, mostra chiaramente una situazione catastrofica fra il 2020 e il 2040. Lo stesso modello, ripreso nel 1992, non aveva suggerito particolari modifiche. Vennero implementati soltanto alcuni dati dovuti alle verifiche sperimentali accumulate nei vent'anni trascorsi. Si tenne conto in particolare di una simulazione che rispondeva a una domanda cruciale: che cosa sarebbe avvenuto se nel 1975 − data che, al 1972, veniva posto come punto di non ritorno per modificare drasticamente il sistema − si fossero presi tutti i provvedimenti suggeriti dal modello? La risposta fu illuminante:

Muovere verso la sostenibilità con venti anni di anticipo produce un mondo più sicuro e agiato, ma non qualitativamente differente… Questo è un futuro che sarebbe stato aperto venti anni addietro, oggi non lo è più. Venti anni in avanti comportano una differenza ben marcata, com'è facile aspettarsi conoscendo la matematica della crescita esponenziale (Oltre i limiti…).

Sulla maggiore sicurezza e agiatezza attuale e futura della popolazione mondiale è fin troppo facile rispondere e sorvoliamo. Soffermiamoci invece sull'affermazione secondo la quale il mondo non sarebbe qualitativamente differente neppure se fossero stati presi provvedimenti globali nel 1975. Gli autori non si riferiscono certo al fatto che il mondo rimane capitalistico, perché il cambiamento di forma sociale non è nei loro intenti e il modello ne è ben lontano. Questa frase buttata lì è estremamente significativa: qualunque tentativo di modificare arbitrariamente i parametri non comporta significative variazioni alla durata del sistema. Nemmeno con ipotesi estreme è possibile evitare il collasso. Il motivo per noi è semplice: nelle interazioni vagliate a livello della struttura del modello è previsto il "rinnovamento del capitale", cioè la produzione di plusvalore per consentire il ciclo D-D', il quale può realizzarsi solo nella crescita. E crescita vuol dire collasso. Siamo al punto di partenza.

Abbiamo visto più volte che la marcata senilità di un Capitale zombie sopravvivente sé stesso si misura con parametri semplici semplici. Prima di tutto rilevando il grado di finanziarizzazione, che per noi è acquisizione di autonomia da parte del Capitale sui suoi possessori e sui paesi in cui si è originariamente formato prima di "globalizzarsi" (corollario: borghesia nazionale sempre più inconseguente e parassita). In secondo luogo osservando i tentativi inutili di raffreddare il sistema in modo da tenerlo sotto controllo: dai protocolli tipo Kyoto ai consessi internazionali organizzati da governi o istituzioni sovranazionali. La Cina è anche in questo caso un esempio illuminante, dato che il suo governo ha provato sia a raffreddarne l'economia surriscaldata, sia a limitare i danni sociali dovuti alla finanziarizzazione interna del mercato. In terzo luogo, nascita delle ideologie basate sullo "sviluppo sostenibile" come reazione alla crescita incontrollata e alla distruzione di risorse "non rinnovabili".

Ma i soli parametri della finanza, dell'acciaio e dell'energia, senza contare le altre materie prime minerali e soprattutto vegetali, demoliscono ogni teoria riguardante un capitalismo controllabile e quindi responsabile verso l'umanità e la biosfera in cui essa vive, produce e si riproduce. L'andamento cinese della produzione e del consumo di acciaio sta già condizionando quello del mondo intero. La Cina nel 2006 ha prodotto il 28% dell'acciaio mondiale e ne ha consumato il 35%. Quindi ne importa, sottraendone al resto del mondo (ad esempio, in Italia ci sono state ripercussioni eclatanti sulla costruzione delle linee ferroviarie ad alta velocità). L'India produce solo il 3,5% dell'acciaio mondiale, ma il suo rapido sviluppo l'ha portata a possedere i più grandi e moderni impianti di produzione del mondo, per di più concentrati in pochissime mani.

Un discorso a parte va fatto per l'acciaio mediorientale, di cui non si parla al di fuori degli ambienti specializzati, ma di cui bisogna valutare la futura portata. Attualmente il maggior produttore d'acciaio del Medio Oriente è l'Egitto, seguito dall'Iran. A parte le cifre di oggi, tali da non influire sostanzialmente sul miliardo e passa di tonnellate prodotte nel mondo, sono quelle indicate per il futuro ad essere significative. La produzione americana ed europea è in discesa, anche se una parte di essa viene mantenuta e sovvenzionata per ragioni strategiche, esattamente come succede per l'agricoltura; e si è diversificata nel tempo passando dalla preponderante percentuale di ghisa, che sta alla base di ogni successivo prodotto siderurgico, all'acciaio pregiato, che si ricava in gran parte, oltre che dalla ghisa, da rottami riciclati, di cui l'Occidente dispone in quantità. Questa diversificazione verso gli acciai di qualità, ottenuti mediante l'utilizzo di forni elettrici e a gas, favorisce evidentemente chi dispone di energia. I paesi del Medio Oriente produttori di petrolio hanno questa energia. Attualmente in fase grande sviluppo urbanistico, essi sono anche dei poderosi consumatori di acciaio (100 milioni di tonnellate all'anno) e prevedono di passare in una decina di anni a produrre in loco un incredibile 25% del totale mondiale.

Anche se la previsione sembra esagerata (significa almeno 300 milioni di tonnellate, cioè la produzione mondiale del 1965), è significativo che venga in mente un progetto del genere, e per di più con un accordo fra Stati che non hanno alcuna tradizione siderurgica. Il fatto è che con un consumo mondiale di petrolio che ammonta a 40 miliardi di barili all'anno già si trasferiscono alla rendita 4.000 miliardi di dollari (poniamo a 100 dollari al barile la media delle oscillazioni recenti e future). Si tratta di un sovrapprofitto che la sfera produttiva deve realizzare solo per cederlo alla rendita petrolifera, senza contare che di sovrapprofitto essa ne deve già produrre sia per rifornirsi di altre materie prime, sia per alimentare il mostro finanziario. Ora, nel mondo si produce un valore totale di circa 60.000 miliardi di dollari; se noi ponessimo un saggio di sfruttamento anche solo del 100% (metà lavoro e metà sopralavoro, come ai tempi di Marx), ciò significherebbe una massa di plusvalore di 30.000 miliardi, sulla quale la sola rendita petrolifera peserebbe per il 12%. E almeno altrettanto peserebbe la rendita per altre materie prime e per quella "specie di interesse" che è la tangente pagata al capitale fittizio.

Naturalmente se tale modello fosse realistico il capitalismo sarebbe già morto da un pezzo. Per nostra disgrazia il saggio di sfruttamento oggi è molto più alto di quello adottato da Marx come esemplare e la tangente pagata dalla produzione alla rendita risulta quindi relativamente più bassa. Ma con la crisi il saggio di sfruttamento generale diminuisce, anche se aumenta quello che pesa sulle spalle del singolo proletario occupato, quindi la rendita tende ad essere sempre più insopportabile per l'intero sistema capitalistico. Il paradosso è che la rendita-capitale s'indirizza verso il circuito del credito, essenziale all'industria per gli investimenti. Il sistema diventa in tal modo assolutamente perverso: finanza e rendita soffocano la stessa sfera produttiva che le alimenta.

Il valore totale prodotto nel mondo (PIL) è aumentato in termini reali del 4,5% nel 2006, del 5,7% nel 2007 e si prevede che aumenterà del 4% nel 2008 e del 3,5% nel 2009. Per il biennio 2008-2009 si prevede che l'insieme dei paesi di vecchio capitalismo avrà invece crescita negativa, guidata dal crollo della specifica produzione industriale che, come sappiamo, ci dà la misura della caduta del saggio di profitto. S'è dunque verificata una situazione, anomala ma cronica, in cui il saggio di profitto nella sfera produttiva tende a scendere al di sotto del saggio d'interesse strappato nella sfera finanziaria, situazione che provoca l'ingigantirsi della circolazione dovuto alla ricerca disperata di un surrogato del profitto mancante. A tutto ciò si accompagna il raddoppio dei prezzi degli alimenti di base, la quadruplicazione dei prezzi dei metalli e l'ormai consueta oscillazione del prezzo del petrolio, storicamente verso l'alto. E bisogna tener conto dell'aumento della popolazione (al momento intorno all'1,2%), che contribuisce ad abbassare la crescita pro capite, che è il vero parametro su cui basare le misure economiche. Tutto concorre alla conferma di ciò che andiamo dicendo da anni: queste non sono crisi congiunturali, sono gli effetti collaterali di una crisi cronica del sistema che si aggrava col tempo (cfr. La crisi storica…).

L'insostenibile leggerezza della produzione

In tutto il mondo l'agricoltura assorbe il 40% degli occupati ma produce solo il 4% del valore totale. All'industria si dedica il 20% degli occupati, che però producono il 32% del valore. Ai servizi il restante 40% degli occupati i quali produrrebbero ufficialmente il 64% del valore. La media comprende paesi come l'Afghanistan e la Tanzania che producono con l'agricoltura più del 40% del PIL e paesi come gli Stati Uniti che ne producono l'1% (21% industria e 78% servizi). All'interno dell'industria e dell'agricoltura vi sono ovunque dei sottosettori che sono anch'essi servizi, come l'amministrazione, le reti di vendita, il controllo interno, ecc.

C'è qualcosa che non funziona. Questa sproporzione enorme fra l'economia materiale e l'economia "leggera" dei servizi ha delle premesse e delle conseguenze. Prima di tutto l'agricoltura produce poco valore perché in esso non è calcolata la cospicua quota sociale che lo Stato preleva dagli altri settori e devolve alla produzione di cibo. In secondo luogo i servizi fanno parte di quei settori che, come si diceva, nascono per l'esigenza del Capitale di rendere tutto vendibile, nella finzione che qualsiasi attività sia produttrice di valore. Il lavoro produttivo è per definizione quello che rende possibile la produzione di plusvalore. Qualunque attività che sfrutti lavoro salariato per vendere un servizio è attività produttiva. Ma alla lunga anche i "servizi destinati alla vendita" si trasformano in rami parzialmente improduttivi, dediti alla ripartizione del plusvalore più che alla sua produzione.

La stessa industria propriamente detta non è fatta solo di acciaierie e meccanica. Le fabbriche di computer ad esempio lavorano assemblando semilavorati che contengono tecnologia concentrata e quindi assai "leggeri", e una delle loro materie prime − ci si scusi il bisticcio − è immateriale, come il software. La produzione leggera, a parità di valore ricavato, comporta un aumento del rendimento termodinamico nelle sfere che riescono a realizzarla. Questo rendimento si esprime in quantità di energia necessaria per ottenere mille dollari di PIL, la cosiddetta intensità energetica, misurabile ad esempio in tonnellate equivalenti di petrolio. Da quando iniziò la rivoluzione industriale ad oggi questo parametro è enormemente diminuito nei paesi sviluppati, mentre in alcuni di quelli in via di sviluppo è ancora a livelli ottocenteschi. Il diminuire nel tempo dell'intensità energetica dell'economia non significa affatto che viene consumata meno energia in assoluto: ne viene consumata meno solo in rapporto alla massa di valore prodotta, la quale cresce a dismisura, impedendo che l'energia totale dissipata nella produzione diminuisca.

Il ragionamento vale anche per le materie prime in generale. Con l'avvento dell'età petrolifera, la fine dell'età del carbone e dell'acciaio non ha comportato una diminuzione della loro produzione, tutt'altro. La sete di energia e di infrastrutture dei paesi emergenti ha fatto esplodere produzioni che sembravano aver raggiunto la parte asintotica della curva di sviluppo produttivo (crescita prossima allo zero). La produzione mondiale di acciaio, che era intorno ai 200 milioni di tonnellate nel 1950, sembrò raggiungere il culmine con la crisi degli anni '80, stabilizzandosi intorno agli 800 milioni di tonnellate. Da quel momento le acciaierie dei paesi industriali iniziarono a chiudere, mentre nuovi impianti siderurgici sorgevano altrove. L'emergere di nuovi protagonisti della crescita portò infine la produzione di acciaio agli odierni 1.100 milioni di tonnellate. Lo stesso dicasi per il carbone: la Cina da sola, affamata di energia, estrae 2.000 milioni di tonnellate di carbone su una produzione mondiale di 5.600 milioni. In termini energetici la produzione di carbone cinese equivale a un terzo della produzione mondiale di petrolio (la quale, per inciso, è passata dai 750 milioni di tonnellate annue del 1955 ai 5.000 milioni attuali).

Come si vede, mentre la produzione tende ad alleggerirsi l'intero sistema tende ad appesantirsi, sia materialmente (acciaio, carbone, petrolio) che metaforicamente, dovendo pagare un pesantissimo tributo oltre che al settore primario nei paesi in via di sviluppo anche alla rendita e alla finanza nei paesi a vecchio capitalismo. Questo è inevitabile: la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto pretende sempre che produzioni a bassa composizione organica di capitale (estrazione di plusvalore assoluto) affianchino quelle ad alta composizione (estrazione di plusvalore relativo). Finché durerà il capitalismo sarà impossibile avere ovunque, in modo generalizzato, produzioni a bassa intensità energetica. Perciò il tributo da pagare alla rendita sarà sempre alto e sempre alto sarà l'effetto monetario congiunto fra rendita che finisce in banca e sovrapproduzione di merci e perciò di capitali (vedi il solito esempio della Cina e dell'India).

Quantificare gli effetti del capitale fittizio è difficile, ma farlo con il valore del sovrapprofitto da trasferire alla rendita è elementare: un paese come l'Italia paga, solo alla rendita petrolifera, l'equivalente del 25% delle sue esportazioni, vale a dire il 7% del valore che produce ex novo in un anno. Oltre a ciò deve pagare la rendita per tutte le altre materie prime importate, minerali e vegetali, provenienti dalla terra. Per la maggior parte dei paesi del mondo i vantaggi derivati dalla produzione "leggera" e dalla diminuzione dell'intensità energetica del PIL sono azzerati dagli effetti congiunti della rendita e del capitale fittizio. Come s'è visto, sale la massa della produzione, sale la massa del valore prodotto ma, per effetto dell'aumento della produttività, non sale in proporzione il valore delle singole merci prodotte. In compenso sale la tangente da devolvere alla rendita, al capitale fittizio e all'ingigantirsi di servizi che sono produttivi solo sulla carta.

Dunque, la fame di acciaio e di energia non si placa con lo sviluppo del capitalismo. Ma un conto è l'acciaio, che è totalmente riciclabile e come rottame è ben più prezioso del minerale di ferro che esce dalle miniere, tutt'altro conto è il combustibile, che va inesorabilmente bruciato. Prendiamo il petrolio: in tutta la storia dell'estrazione se ne sono già bruciati 994 miliardi di barili; le riserve accertate ammontano a 850 miliardi di barili; le riserve ipotizzate ma non ancora scoperte ammontano a 160 miliardi di barili; se ne consumano nel mondo 30 miliardi di barili all'anno. Il calcolo è presto fatto: con i dati fermi alla situazione attuale, fra una trentina d'anni il mondo resterà a secco. Naturalmente succederà qualcosa molto prima della fine del petrolio. Ad esempio il suo prezzo salirà alle stelle permettendo lo sfruttamento di giacimenti in zone impervie, o la distillazione di depositi bituminosi oggi non convenienti, o la mescolanza, come già sta avvenendo con oli e alcoli di origine vegetale. In ogni caso occorrerà tener presente quanto ciò verrà a incidere sul saggio medio di profitto e sulla fuga dei capitali nella sfera finanziaria. Sapendo peraltro in anticipo che l'economia è in crescita esponenziale e quindi non è lecito dividere semplicemente la quantità di petrolio oggi disponibile (e alle condizioni produttive di oggi) per la quantità bruciata in un anno. Le curve della produzione e del consumo salgono, quelle della valorizzazione del capitale e della disponibilità di risorse scendono. Il trend è verso un incrocio mortale.

Una modellizzazione al 2008: si può applicare quella del '56?

La Grande Depressione, la Seconda Guerra Mondiale, la ricostruzione sostenuta dal Piano Marshall e quindi la crescita indotta che ne seguì diedero luogo a una situazione completamente diversa rispetto a quella presente. Oggi vediamo ripetersi stancamente i cicli di piccola crescita e piccola stagnazione, con le economie più importanti ormai in nefasta sincronia, ma fino alla metà degli anni '70 il carbone e l'acciaio, che rappresentavano l'ossatura della ripresa economica mondiale, erano abbondanti e poco costosi, mentre l'economia era in crescita controllata, dato che i fascismi avevano offerto agli Stati gli strumenti (che si chiamarono poi keynesiani) per stimolare la produzione e i consumi. A metà degli anni '50 si era in pieno sviluppo del "quantitativismo produttivo" e quindi l'aspettativa per gli effetti economici e sociali dovuti all'incrocio delle curve della produzione biologica (in discesa) e della produzione "minerale" (in ascesa) era scientificamente fondata, anche se gli autori stessi del modello mettevano in guardia contro arbitrarie assolutizzazioni.

Tale aspettativa scaturiva sia dalla teoria che dalla prassi, che avevano avuto una formidabile verifica sperimentale con l'esplodere della crisi del '29, premessa alla più sterminata guerra che il mondo avesse conosciuto. La transitorietà della forma capitalistica, cioè l'oggettiva base del contendere fra le opposte concezioni del mondo, quella borghese e quella comunista, s'era infine dimostrata da sé. E questa dimostrazione aveva permesso di ricavare dalla storia il profondo significato simbolico insito nella definizione del capitalismo come "mineralizzatore" della biosfera, come trionfo del lavoro morto sul lavoro vivo, del soffocamento di ogni possibilità di sviluppo (che non è sinonimo di crescita quantitativa) della specie umana. Veniva messo in risalto il programma della produzione nella società futura. Che dovrà essere in armonia con la biosfera, con un "bilancio" non economico ma energetico: tutto ciò che abbiamo e avremo sarà in equilibrio con l'energia che ci arriva dal Sole (Mai la merce…, pagg. 30-31).

Oggi, lasciato alle spalle da un pezzo il punto di sorpasso della morte minerale sulla vita, l'umanità, pur ancora schiava dell'ideologia borghese, si accorge finalmente che la biosfera è un insieme termodinamico complesso, la cui esistenza è, appunto, dovuta all'equilibrio fra l'energia che arriva dal Sole e quella utilizzata per i cicli vitali di riproduzione della nostra e delle altre specie. Quella stessa umanità che mezzo secolo addietro era capace di sorridere di compatimento davanti a grafici e tabelle elaborati da visionari della catastrofe adesso si accorge che stiamo bruciando in pochi decenni ciò che Terra e Sole hanno accumulato in migliaia di millenni. E, invece di farla finita con un sistema neg-umano, dà sfogo alle sue paure con ingenue teorie ecologiche basate su di un impossibile capitalismo "sostenibile", con tutte le sue categorie di valore e di mercato. Ma la vendetta di quel movimento oggettivo verso la società futura che chiamiamo comunismo non si è fatta attendere: s'è già fatta strada, prepotentemente, la teoria non-economica dell'equilibrio termodinamico, la stessa che, quel mezzo secolo fa, la nostra corrente riprendeva da Marx, il quale a sua volta l'aveva ripresa dal modello di equilibrio del fisiocratico Quesnay.

Quindi una modellizzazione al 2008 con i criteri del 1956 non solo è possibile, ma è l'unica via per avere un modello realistico del sistema.

Quali altre curve disegnare? Quali possono avere un significato materiale e simbolico della potenza di quelle tracciate cinquant'anni fa? Quelle della mineralizzazione sono state tracciate ed è già storia. Quelle della miseria relativa crescente di fronte al giganteggiare della ricchezza prodotta le aveva già tracciate Marx, e il buon Paul Krugman, ultimo premio Nobel per l'economia e critico della diseguaglianza sociale, arriva un pochino in ritardo. Quelle della contraddizione fra il saggio di profitto declinante al di sotto del saggio d'interesse con conseguente finanziarizzazione del sistema e crisi del credito le abbiamo sotto gli occhi in questi mesi. Quella del sovrapprofitto declinante relativamente a una rendita rampante la teniamo d'occhio dal tempo della crisi petrolifera di metà anni '70 (non ci sono solo petrolio e materie prime, c'è anche la rendita immobiliare: l'economista Joseph Stiglitz calcola che l'80% della crescita occidentale negli anni immediatamente precedenti l'attuale crisi fosse dovuta al settore immobiliare).

La massa del valore totale prodotta ogni anno (p+v) è gigantesca in confronto a quella della forza-lavoro che la genera nei settori veramente produttivi. Ma la sua parte di plusvalore è esigua di fronte alle necessità del Capitale: petrolio, minerali vari, alimenti, immobili, finanza e sprechi la stanno divorando. Per questo il Capitale ha bisogno di vampirizzare l'industria e impazzare nella sfera della circolazione dove c'è ancora una parvenza di guadagno in forma di interesse o di speculazione.

La finanziarizzazione dell'economia è quindi una risposta alla crisi di valorizzazione dovuta alla crescente produttività. Non c'è mai pletora di capitali senza pletora di merci: per questo "rilanciare la produzione, ritornare all'economia reale" è uno slogan imbecille. La crisi c'è perché la produzione è già troppa. L'economia "reale" è questa, non ce n'è una "irreale". L'unica distinzione che facciamo noi all'interno del sistema è quella fra capitale reale e capitale fittizio. Quando il capitale fittizio supera di gran lunga quello reale subentra ben altra distinzione: quella fra ciò che è attuale e ciò che è potenziale. Perché il capitalismo genera in continuazione, entro sé stesso, elementi che lo negano, e dentro ai suoi meccanismi si nasconde la società futura. È la sua realtà embrionale che ci permette di vederne la potenzialità degli sviluppi. E anche questo ha ovviamente attinenza con il modello possibile. Marx aveva osservato che questa contraddizione si esprime al massimo livello nel sistema del credito. Esso sancisce la scomparsa dell'interesse personale del capitalista nella formazione del valore attraverso la produzione materiale, quindi la scomparsa potenziale del capitalismo.

Oggi vediamo che l'intera sfera del credito si è completamente autonomizzata scalzando i proprietari dei capitali dal potere decisionale sugli stessi. Anche l'agricoltura dei paesi industrializzati è uscita dal ciclo capitalistico, è cioè un mero ciclo produttivo strategico, quindi assistito, al fine di alimentare popolazioni che non potrebbero permettersi un prezzo di mercato. Prossimamente vedremo coinvolta nello stesso fenomeno la sfera energetica, dato che è stato raggiunto il limite di sopportazione da parte della sfera produttiva nei confronti della rendita. Le guerre contro l'Afghanistan e l'Iraq, qualunque sia la motivazione di chi le ha scatenate e di chi le avversa, hanno una componente di questa natura: nel Medio Oriente e nell'Asia centrale si gioca la partita energetica per il futuro dei paesi capitalisti industrializzati. Produttori e accaparratori di petrolio e materie prime non possono essere altro che, allo stesso tempo, nemici e complici.

Le curve della catastrofe

Nel 1956, lo stesso anno della nostra previsione sul possibile crollo del 1975, il geofisico americano Marion King Hubbert trasse dai dati storici empirici dello sfruttamento dei giacimenti minerari un modello matematico che produceva regolarmente una curva a campana. La prima parte della curva era di tipo "logistico", cioè ad "S", come alcune di quelle che abbiamo già visto. La seconda parte, invece dell'andamento asintotico presentava una caduta repentina, anche questa già vista nei diagrammi dei modelli dinamici di Mondo 3. Qualunque storia avessero le miniere e qualunque tipologia le caratterizzasse, questa forma rimaneva invariante, per cui era possibile fare delle previsioni sul loro futuro produttivo.

Questo modello applicato ai pozzi petroliferi americani permise di prevedere un picco di produzione nei primi anni '70, seguito inesorabilmente da una caduta molto rapida. Tale previsione fu accolta con scetticismo, dileggiata e praticamente ignorata fino alla data fatidica, quando la produzione petrolifera degli Stati Uniti incominciò a declinare davvero proprio nel momento in cui scoppiava la crisi in seguito − si disse − alla Guerra del Kippur e al relativo embargo da parte dei paesi arabi. Hubbert divenne allora famoso, ma presto gli eventi lo relegarono di nuovo nell'ombra: il prezzo decuplicato della rendita aveva reso possibile lo sfruttamento di giacimenti di qualità peggiore e dislocati in zone più impervie, per cui sembrò che la teoria del picco fosse semplicemente sbagliata.

Oggi la teoria del picco di Hubbert è tornata prepotentemente alla ribalta a causa delle ulteriori oscillazioni del prezzo del petrolio verso l'alto, ma ancora una volta essa ha i suoi detrattori. Il modello di Hubbert non è né "giusto" né "sbagliato": come abbiamo visto per altri modelli, risponde semplicemente alle domande che gli si rivolgono. Non prendeva in considerazione eventuali variazioni di prezzo, ma dato che nel 1956 non ve ne furono la previsione risultò corretta per 47 stati americani su 48 (mancava il Texas, ma sulla produzione complessiva la previsione era esatta). Dopo il 1975 i modelli di previsione sul picco petrolifero tengono conto di scenari alternativi basati non solo su possibili variazioni dei prezzi, ma anche sull'affinamento delle tecnologie di prospezione ed estrazione, sulle eventuali tensioni politiche e altri parametri incerti.

Nella figura 14 sono mostrati, sovrapposti, i vari picchi previsti da un sofisticato modello della EWG (Energy Watch Group), un centro studi indipendente fondato da alcuni membri del parlamento tedesco. Secondo tale organismo il picco mondiale è già stato raggiunto nel 2006 e da allora la produzione non fa che scendere. Nella stessa figura è mostrata la previsione della IEA (International Energy Agency) nel suo studio World Energy Outlook del 2006. Le differenze sono sostanziali e sono dovute alle metodologie che suppongono diversi scenari per il futuro. EWG prevede un crollo della produzione al 50% nel 2030 di fronte a un consumo crescente, e critica fortemente l'ottimismo infondato delle varie agenzie ufficiali.

Picco del petrolioFigura 14. Il cosiddetto picco del petrolio per aree di produzione secondo il centro studi indipendente tedesco EWG (Crude oil, The supply outlook, ottobre 2007). Per la maggior parte delle aree sarebbe già stato raggiunto intorno al 2006-2008, mentre il Nordamerica e l'Europa l'avevano raggiunto rispettivamente nei primi anni '70 e intorno al 2000.

Nella figura 15 è mostrato l'andamento storico della produzione petrolifera nei paesi che hanno già superato il loro picco. Questo andamento è servito di supporto alla modellizzazione per trarre previsioni realistiche. La curva complessiva, dalla forma invariante, è quasi sempre la stessa per i singoli paesi come per i singoli giacimenti. Questo tipo di invarianza, che nelle curve delle agenzie ufficiali esiste per il passato ma scompare nel futuro, ci fa pensare che vi sia una convenienza generalizzata a disinformare sulla fine del petrolio.

Picco del petrolioFigura 15. Paesi che hanno da tempo superato il picco petrolifero e quindi sono già al di sotto della produzione massima raggiunta.

La disinformazione ha un senso: serve a sostenere i prezzi energetici per tenere in vita i giacimenti poco redditizi, ma anche a ritardare il più possibile l'esplosione inflazionistica e la speculazione selvaggia, in modo da permettere il varo di politiche che possano portare a nuove scoperte e allo sfruttamento di energie alternative. Il calcolo termodinamico sulla crescita capitalistica ci consente di negare queste sospirate eventualità. Il sistema acquista possibilità di sopravvivenza abbassando l'intensità energetica del suo PIL, "alleggerendo" la produzione, come abbiamo visto, ma rimane altamente entropico, cioè dissipativo, e la perdita di energia non sarà sufficiente a compensare l'aumentato rendimento. Il trend del carbone, dell'acciaio e del petrolio lo dimostra. Di fronte a una crescita media prevista del 2 o 3 per cento all'anno del PIL mondiale con una diminuzione della stessa percentuale della produzione annua di petrolio, qualsiasi correzione apportata al modello EWG non cambia la sua prognosi: con i parametri attuali, il sistema collasserà intorno al 2030 o anche prima.

Siamo nelle condizioni della previsione del modello 1956, anche se oggi le incognite sono in parte diverse, sia per le ragioni storiche cui abbiamo già accennato, sia per il progressivo invecchiamento del sistema, che lo rende molto più sensibile agli inceppamenti dei meccanismi di accumulazione. A differenza dei nostri compagni di allora noi abbiamo oggi molti più dati, che si possono utilizzare in modo molto più dinamico, rispetto alle interminabili tabelle che accompagnavano il Corso del capitalismo. Non ci riferiamo soltanto ai modelli borghesi che abbiamo utilizzato e che hanno introdotto, appunto, la dinamica dei sistemi nella modellizzazione della realtà. Ci riferiamo al fatto che la stessa borghesia ha dovuto capitolare ed è venuta sul nostro terreno.

Oggi possiamo disporre di un sofisticato modello borghese di mineralizzazione della biosfera che ci dimostra come il capitalismo rappresenti effettivamente il trionfo del lavoro morto sul lavoro vivo.

Se nel 1956 attribuivamo alle tabelle e ai numeri un linguaggio ben significativo e simbolico rispetto alla prospettiva rivoluzionaria, che dovremmo dire oggi, quando lo stesso nostro nemico mortale è costretto a studiare i sintomi della propria morte annunciata, utilizzando i nostri stessi metodi di cinquant'anni fa? Quando i dati dimostrano oltre ogni dubbio che, di fronte al giganteggiare della produzione a base minerale, quella a base biologica sta inesorabilmente declinando non solo relativamente alla prima bensì in termini assoluti?

Il modello in questione è realizzato dalla Global Footprint Network, che lo aggiorna in continuazione. Da esso la detta GFN, il WWF e la Società Zoologica di Londra traggono ogni anno, dal 1998, il Living Planet Report, un rapporto sullo stato del pianeta per quanto riguarda, appunto, il processo di marcatissima de-biologizzazione dell'umanità e del suo ambiente. Come i lettori sanno, non abbiamo nessuna simpatia per l'ecologismo piccolo-borghese che aspira a un impossibile "capitalismo dal volto umano". Ma il nostro interesse è rivolto alla dinamica dei sistemi, lo stesso interesse con il quale abbiamo preso in considerazione il modello dinamico del MIT, il quale non nacque certo, agli inizi degli anni '70, per affossare il capitalismo, ma per tentare di salvarlo così com'è, per insegnargli a governarsi meglio. Prendiamo il modello e lasciamo perdere il piagnisteo eco-pacifista sul povero mondo malato da rattoppare. I calcoli si basano sui dati primari raccolti da diversi istituti come il Food and Agriculture Organization (FAO) dell'ONU, l'International Energy Agency (IEA), il dipartimento di statistica dell'ONU (UN Commodity Trade Statistics Database), l'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) e altri organismi che si occupano del monitoraggio del pianeta.

Il modello di Global Footprint Network è abbastanza curioso. Esso si basa su due soli "indici" che però derivano da una massa enorme di dati: 1) l'indice di biodiversità del pianeta nel tempo in confronto a un anno campione (1970) e 2) l'impronta ecologica (ecological footprint), ovvero la misura dell'intervento dell'uomo con il conseguente disequilibrio fra ciò che produce − ed ha prodotto − il pianeta e ciò che la nostra specie consuma o distrugge impoverendo la biomassa relativa del pianeta.

La raccolta dei dati, come sempre, considera i decenni passati per rilevare il trend conosciuto e ricavarne invarianti che servano a definire gli scenari futuri. L'intento è eco-pacifista e la ricerca è finalizzata a dare suggerimenti ai governi per ottenere "una società sostenibile, in armonia con gli ecosistemi vitali", ma i dati sono oggettivi, nel senso che è possibile ottenere tramite misura parametri come il calo della biomassa animale e vegetale. Quindi è dimostrato il precipizio verso una degenerazione permanente della biosfera, verso il collasso dell'ecosistema Terra fino all'impossibilità, per lo stesso genere umano, di esistere.

Il primo indice (fig. 16) comporta l'integrazione dei dati riguardanti la presenza sul pianeta di 1.313 specie viventi, mammiferi, pesci, rettili, uccelli, anfibi, ecc. suddivise in 3.600 popolazioni; e il loro tasso di estinzione o la proliferazione dovuta all'azione umana, responsabile della diminuzione della biodiversità. Si tratta di specie che per i loro habitat e le loro caratteristiche di vita, riproduzione e rapporti con altre specie sono parte di sistemi e sottosistemi in grado di rappresentare la globalità del vivente e quindi l'indice di "biologicità" del pianeta. Fra il 1970 e il 2003 questo indice è sceso del 30%, una velocità di degrado dell'equilibrio biologico che nella storia della Terra non s'era mai verificato, capace di elevare di migliaia di volte il tasso di estinzione delle specie rilevato nelle ere in cui è stato più alto, come durante la grande estinzione di massa del cretaceo.

Indice della biologicità del pianetaFigura 16. Indice della biologicità del pianeta. La curva discendente indica nel tempo la scomparsa di massa biologica di alcune specie, mentre l'ambiente è colonizzato da altre. La diminuzione della biodiversità è l'indice di una perdita di equilibrio che influisce enormemente sul tasso di estinzione delle specie. L'innalzamento temporaneo della curva al di sopra dell'indice negli anni '70 è dovuto all'influenza, sulla media, dell'anormale aumento locale della biodiversità nella parte settentrionale degli oceani Atlantico e Pacifico, probabilmente a causa del riscaldamento dell'acqua.

Il secondo indice (fig. 17) offre la misura della differenza fra quello che noi, con riferimento a Quesnay, abbiamo chiamato "lavoro del Sole", cioè la "produzione" della biosfera, e il consumo della specie umana, da tempo uscita dall'equilibrio con la natura (con relativa produzione di scorie inerti o tossiche, non metabolizzate).

Impronta ecologicaFigura 17. Impronta ecologica della specie umana sul pianeta. L'unità di misura è costituita dal "numero di pianeti" che sono necessari per sostenere il ritmo di consumo della Terra da parte della specie umana. La biocapacità della Terra è fissa a 1. Nel 1961 l'umanità consumava il 50% della biocapacità media del pianeta, mentre nel 2003 ne consumava il 125%.
Ettari globaliFigura 18. La curva discendente indica la disponibilità nel tempo di "ettari globali" pro capite. La curva ascendente indica quanti ettari globali "consuma" ogni abitante del pianeta in rapporto a quelli disponibili: nel 1961 ne consumava 1,75 su 3,4 disponibili; nel 1988 andava in pareggio a 2,2; nel 2003 ne consumava 2,2 su 1,75 disponibili.

L'impronta ecologica (figure 17 e 18) offre la misura di quanto s'è allargato il divario fra l'equilibrio termodinamico e la dissipazione di energia, cioè di risorse che, se il sistema capitalistico non verrà eliminato, andranno irreversibilmente perdute, come la foresta primaria o l'acqua di molti fiumi a causa del prelievo per l'agricoltura e per le metropoli. Le unità di misura "un pianeta" o "un ettaro globale pro capite" si equivalgono al di là della differenza dell'approccio: il divario attuale fra il "consumo" del pianeta e la sua capacità di "produzione" biologica è sempre del 25%.

La figura 17 mostra che a partire dalla metà degli anni '80 le attività dell'uomo incominciarono a consumare più risorse biologiche di quante il pianeta fosse in grado di rigenerare. Gli scarti del metabolismo della specie, un tempo esclusivamente composti di sostanze organiche e quindi riciclati in via naturale dalla biosfera, si sono sempre più industrializzati e mineralizzati, fino alla situazione attuale in cui trasformiamo risorse in rifiuti molto più velocemente di quanto la natura possa trasformare i rifiuti in risorse. Una modellizzazione basata su dati dell'ONU per proiezioni al 2050 presenta uno scenario in cui l'impronta ecologica giunge a "due pianeti": vale a dire che entro la metà del secolo appena incominciato la nostra specie dissiperà in termini energetici, solo per ciò che attiene alla sfera biologica, il doppio di quanto il sistema Terra-Sole potrà offrire. Ciò è palesemente impossibile: molto prima di allora gli effetti devastanti sull'economia e sulla società porteranno al collasso del sistema. Perciò sarebbe necessario prendere dei provvedimenti in grandissimo anticipo. E qui il modello mostra i suoi limiti politici.

Gli effetti delle decisioni, anche drastiche, sull'andamento dei parametri presi in considerazione sono estremamente lenti a prodursi. Un controllo demografico di qualsiasi entità produce effetti a quarant'anni (quando pure si limitasse il numero di nascite di una popolazione questa avrebbe già un certo numero di bambini); lo stesso vale per le strutture produttive, le infrastrutture, le case, che continueranno ad esserci e a funzionare per decenni. Sia il modello del MIT, sia quelli dell'ONU, sia il modello di "impronta ecologica" dimostrano che le condizioni attuali determineranno effetti per tutto questo secolo, indipendentemente da qualsiasi provvedimento immediato teso ad evitare la catastrofe. Il modello del MIT, Mondo 3 del 1970, poneva il "punto di non ritorno", guarda caso, al 1975: se a quella data tutte le variabili fossero state stabilizzate, l'intero sistema si sarebbe a sua volta stabilizzato fra 1l 2010 e il 2020. Non sembra che sia andata così.

Earth Oveshoot Day

Il "giorno del sorpasso sul pianeta": dal primo gennaio al 22 settembre 2008 la nostra specie ha consumato risorse che la biosfera ha mediamente rinnovato. Dal 23 settembre in poi, essa consuma il pianeta senza che questo possa reintegrare ciò che va perso. È una terza modalità utilizzata dalla Global Footprint Network per esprimere le stesse grandezze di cui si era servita per la misura dell'impronta ecologica in "numero di pianeti" o in "ettari globali pro capite". Naturalmente queste grandezze hanno senso compiuto solo quando ne verifichiamo la variazione nel tempo, confrontandole con il passato e con il possibile futuro. I calcoli si basano su dati raccolti dal 1961, al tempo in cui la specie umana consumava circa la metà di ciò che la biosfera era mediamente in grado di reintegrare. Il primo sorpasso è stato nel 1986 allorché al 31 dicembre l'umanità consumò esattamente quanto la biosfera era mediamente in grado di riprodurre.

Quel "mediamente" è fondamentale, perché alcune delle risorse sono rigenerabili con un certo margine, mentre altre non lo sono affatto, come l'etanolo e il biodiesel, che vengono bruciati; o come i milioni di tonnellate di concime umano e animale che viene buttato, provocando non solo spreco di biomassa fertilizzante ma anche l'eutrofizzazione delle acque con relativa rottura degli equilibri ittici, dei fondali, ecc. Ciò significa che l'umanità consuma le risorse in modo pericoloso anche quando mediamente il bilancio appare ancora positivo.

L'erosione delle possibilità di rigenerazione della biosfera è peggiorata in modo esponenziale, proprio mentre cresceva in modo altrettanto esponenziale la produzione capitalistica: nel 1995 il simbolico sorpasso è avvenuto il 21 novembre. Nel 2005 è avvenuto il 2 ottobre, e quest'anno il 23 settembre. A quella data la massa vegetale e animale fagocitata o distrutta dall'umanità superava il limite oltre il quale la biosfera è ancora capace di rigenerarsi. La soluzione semplicemente non c'è: anche se fosse possibile applicare delle politiche capitalistiche di contenimento della crescita, un cambiamento degli stili di vita, un utilizzo delle tecnologie a basso impatto ambientale e tutte le fantasie immaginate per esorcizzare la catastrofe, tenendo conto dei ritardi fra le decisioni e i loro effetti, entro una ventina d'anni mezza umanità dovrebbe traslocare su di un'altra Terra… solo per consumare anche quella.

Invece il principio capitalistico della crescita pretenderà che si continui con il ritmo suicida di oggi. E se il mondo dovesse raggiungere il modello americano attuale, ci vorrebbero cinque Terre e mezza, anche mantenendo fermi tutti gli altri parametri, popolazione, capitale investito, livello di inquinamento, impronta ecologica, ecc.

Indici di biologicitàFigura 19. Presentazione in un unico grafico del modello standard del MIT e degli indici di biologicità della Global Footprint Network (Living Planet).

La figura 19 mostra, sovrapposti, il modello standard del MIT e i due indici di biologicità del mondo elaborati dalla Global Footprint Network. Sia l'indice del mondo vivente che quello dell'impronta ecologica intersecano la linea di equilibrio delle risorse (in declino costante) nella seconda metà degli anni '80. La mineralizzazione del mondo ha raggiunto il limite con molto anticipo rispetto ai quattro picchi del modello standard del MIT, che peraltro sono anch'essi il risultato di dati storico-economici rispecchianti i parametri biologici (alimenti, popolazione, inquinamento e prodotto industriale). La collocazione dei picchi fra il 2020 e il 2040 è coerente con le proiezioni del modello GFN (raggiungimento del parametro "due pianeti" entro il 2050). Anche il declino delle risorse ha un punto di flesso nello stesso periodo a causa della crisi. Quattro picchi e un declino, dunque, annunciati dall'avvenuta mineralizzazione dell'umanità e del suo ambiente (la sovrapposizione dei grafici è puramente indicativa, essendo le rispettive scale compatibili solo per quanto riguarda l'asse del tempo).

Unificando i parametri del "nostro" modello con quello standard del MIT e con quello della GFN, senza dimenticare il picco del petrolio, la proiezione che se ne ricava è inesorabile: al 2030 il sistema salta. Pur avendo spiegato come leggere le proiezioni di un modello dinamico, siamo sicuri che fra vent'anni qualche cretino verrà a chiederci conto delle nostre "profezie".

Il consumo del pianeta e la genesi del capitale fittizio

Occorre dimostrare perché hanno torto coloro che vorrebbero un mondo capitalistico riformato, coloro che non capiscono perché questo sistema non possa superare le proprie distruttive contraddizioni. Che non capiscono quindi l'ineluttabilità del "consumo" capitalistico del pianeta, per cui il loro grido di dolore non è altro che vano piagnisteo.

Secondo la teoria della rendita il prelievo puro e semplice dalla terra e il prelievo che il proprietario del campo (o della miniera o del pozzo petrolifero) effettua sul profitto del settore produttivo hanno delle analogie. Nel nostro testo Vulcano della produzione o palude del mercato? l'analogia è estesa a qualunque settore, produttivo o meno, in grado di sfruttare una rendita di posizione (ad esempio un monopolio) che permetta un prelievo extra rispetto al profitto medio.

Marx utilizza lo stesso criterio per distinguere il capitale reale (produttivo o di credito) da quello fittizio. Incominciamo dal prelievo puro e semplice dalla terra. Un raccoglitore di funghi che venda al mercato il suo raccolto ricava del denaro, partecipando alla generale produzione e ripartizione del valore. Se tutto il ricavato servisse solo a riprodurre il raccoglitore stesso è come se egli si nutrisse direttamente di funghi, si confezionasse i vestiti con tessuto d'erba e si facesse le calzature con giunchi intrecciati. Ma se il ricavato eccedesse i suoi bisogni immediati e da ciò ne risultasse un gruzzolo in banca, allora bisognerebbe chiedersi da dove sbuchi quel denaro extra e che cosa rappresenti. L'origine, lo sappiamo, è nel valore altrui (profitto o salario di chi compra i funghi), ma ciò nell'intera società non si vede, mentre si vede benissimo il gruzzolo che aumenta. Se il gruzzolo che si forma in un anno è pari a 50 euro e il tasso d'interesse medio è del 5%, è come se il nostro raccoglitore avesse un capitale di 1.000 euro. Lo stesso discorso vale ad esempio per un pescatore, un cacciatore o un cercatore d'oro.

Un privato che compri e venda azioni al computer senza alcun rapporto con le aziende che emettono capitale azionario e che guadagni 50 euro all'anno oltre al capitale iniziale è come se avesse, anche lui, un capitale aggiuntivo di 1.000 euro (senza il bisogno di calcolare il netto per il suo sostentamento, dato che ciò che guadagna in più è tutto valore altrui).

Un monopolista che ricavi un sovrapprofitto non dalla speciale qualità dei suoi prodotti ma dalla condizione di monopolio, gode degli stessi vantaggi di un concorrente che abbia investito una maggior quantità di capitale per migliorare la produttività o la qualità dei suoi prodotti. È come se avesse investito anche lui.

Questi capitali, che provengono dai meandri sociali della produzione e del mercato, agiscono come se esistessero solo per i singoli accaparratori finali. Essi sono chiamati da Marx capitali fittizi. All'inizio sono capitali reali e, se vengono depositati in banca e inseriti quindi nel circuito del credito, essi continuano ad essere reali. Ma, già distaccati dalla loro origine e diventati proprietà dei rentiers, una volta entrati nel giro creditizio finanziario si staccano del tutto dal capitale reale… e si moltiplicano. Un titolo cartaceo emesso su un valore reale può essere venduto più volte, comportandosi come moneta, così come all'origine succedeva solo alla classica cambiale scontata. Tra il 1971 e il 1974 due masse enormi di capitale circolante si autonomizzano definitivamente dalla produzione reale e tendono a diventare capitale fittizio irreversibile: la massa degli eurodollari, resi inconvertibili dal governo USA, e la massa dei petroldollari, derivata dalla decuplicazione dei prezzi petroliferi. Entrambe irreversibili: perché nessuna massa del genere avrebbe mai potuto ritornare al circuito primario della produzione di plusvalore senza far saltare il sistema dalle fondamenta.

Da una parte capitale, cioè lavoro passato, morto; dall'altra non solo petrolio, ma tutte le risorse della Terra. Ora, la terra è uno degli elementi fondamentali del processo produttivo completo, con il lavoro e il capitale. Tutte le materie prime, è ovvio, vengono dalla terra, dall'agricoltura come dalle miniere, dalle foreste come dai pozzi petroliferi. Tutto il prelievo di biomassa e di minerali deve avere il suo corrispettivo in plusvalore proveniente dal settore produttivo per un ammontare deciso dall'unico criterio della domanda che cozza contro la proprietà e contro la quantità di plusvalore disponibile. La proprietà fondiaria è dunque come una forza estranea che limita l'investimento di capitale. Il quale è costretto ad aumentare la produttività, a trovare ogni espediente per superare questo limite, ingigantendo il ciclo produttivo complessivo e ingigantendo di conseguenza il bisogno di materie prime. Il consumo del mondo, la sua mineralizzazione, sono un prodotto specifico del capitalismo. Nessun'altra società è mai giunta né potrà mai giungere a tanta perversione economica.

La rendita dev'essere sempre pagata, sia che riguardi un terreno coltivato, irrigato e ben concimato, sia che riguardi un terreno su cui non è stata apportata assolutamente alcuna miglioria. In questo secondo caso esso non "vale" nulla, non incorpora lavoro umano e quindi valore. Non dovrebbe perciò rientrare nel costo di produzione industriale. E invece anche la terra assume un valore a causa della proprietà capitalistica, come se fosse un prodotto del lavoro umano e non della natura. Infatti la rendita, l'abbiamo visto negli esempi precedenti, può essere riferita al capitale, pur senza esservi legata. Può essere cioè considerata, al pari di tutti gli altri redditi monetari, come l'interesse di un capitale immaginario che si concretizza nella forma irrazionale di prezzo della terra. E ciò anche se la terra non può avere un "prezzo", perché non può avere valore di scambio, come l'aria o il mare (per adesso), anch'essi fonti primarie e non prodotti del lavoro. Se il tasso d'interesse medio è − poniamo − del 5% e un dato terreno rende 50 euro all'anno, allora il suo prezzo è 1.000 euro (50/0,05). Ma la tendenza storica è verso la diminuzione del saggio di profitto, che comporta storicamente una diminuzione del saggio di interesse. Se ad esempio quest'ultimo si dimezza, ecco che la stessa rendita di 50 euro corrisponde a un capitale immaginario di riferimento raddoppiato (50/0,025 = 2.000 euro). Per questo, a parità di rendita, il prezzo della terra e degli immobili è destinato storicamente a salire:

"Quanto più capitale si investe nel suolo, quanto più grande è lo sviluppo dell'agricoltura e in genere della civiltà, tanto più aumentano sia le rendite per acro sia la somma totale delle rendite, tanto più gigantesco è il tributo che la società versa sotto forma di soprapprofitti ai grandi proprietari fondiari" (Marx, Il Capitale, Libro III, cap. XLIII).

Il discorso vale ovviamente anche per le miniere, per i pozzi di petrolio e per gli immobili d'ogni genere. Ora prendiamo il prezzo di produzione dell'insieme di merci prodotte nel mondo. Come sappiamo, esso, a differenza dei prezzi di costo dei singoli rami produttivi o di una singola fabbrica, corrisponde esattamente al valore. Scomponiamolo nei suoi elementi sociali, che sono quelli destinati alle tre grandi classi, capitalisti, proletari, proprietari fondiari:

Prezzo = capitale costante + salario + profitto + interesse + rendita.

Essendo il prezzo di produzione storicamente dato dalla media dei valori che lo compongono, è chiaro che ogni variazione fra di essi non può che risolversi in un trasferimento a somma zero. Se aumenta il salario deve diminuire qualche altro elemento; e così per la rendita ecc. Siccome l'intero sistema capitalistico deve reggersi sul mantenimento di una produzione di plusvalore sufficiente a perpetuare il ciclo del capitale reale, ecco che diventa pericolosissimo ogni fenomeno che obblighi a ripartirne "troppo" all'interno del prezzo di produzione, fra gli elementi che lo compongono .

Ma il sistema, giunto all'attuale dipendenza dalla rendita e dalla finanza (cioè dal capitale fittizio), impone proprio una feroce ripartizione del valore. E siccome la componente salariale è data anch'essa, storicamente, dalla quantità di beni e servizi necessaria a riprodurre la forza-lavoro e può oscillare solo entro quei limiti, ecco che, tolto il possibile e l'impossibile dal salario, è solo dal plusvalore che si può trarre ciò che andrà devoluto: 1) al capitale costante come feedback di valore per la riproduzione allargata; 2) all'interesse per il credito; 3) alla rendita per le materie prime, l'energia, gli immobili, le infrastrutture, ecc.; 4) alla dissipazione dovuta all'anarchia del mercato, al controllo contabile, alla sicurezza, ecc. (faux frais); 5) al costo dello Stato e dei suoi apparati di classe. Ovviamente non stiamo a parlare del singolo capitalista, che può anche personalmente violare la regola generale, ma dell'intero sistema che deve per forza affrontare il classico e irrisolvibile problema della coperta troppo corta.

Non è strano che all'interno della classe capitalista (industria, finanza e rendita) non si possa risolvere nulla: il salario non lo si può mandare al di sotto del suo valore; il profitto deve poter permettere la riproduzione allargata; il credito è il motore dell'industria moderna e la finanza è sua figlia, non c'è l'una senza l'altro; la tangente alla rendita non la si può eliminare senza eliminare la proprietà privata. Non resta che l'innalzamento della produttività della forza-lavoro (dello sfruttamento) e il consumo del mondo. Finché il mondo stesso e il proletariato che lo abita non superano la soglia di sopportazione. Quella del mondo come biosfera è stata già sorpassata; quella del mondo minerale dei "quattro picchi e un declino" sarà raggiunta intorno al 2030; quella del proletariato ci auguriamo sia superata ben prima. Il nostro modello, che con tutto il materiale prodotto dal partito storico della rivoluzione è certo più vasto di quello comprimibile in un articolo, non prevede che le classi rimangano inerti di fronte al collasso del capitalismo. Prevede piuttosto che lo anticiperanno, specie il proletariato, che non potrà che esplodere in un furore rivoluzionario.

 

Nota. Questo articolo è la trascrizione ampliata di un rapporto registrato il 13 gennaio del 2007 durante uno dei nostri incontri redazionali trimestrali e intitolato: Le prospettive del capitalismo dalla pesantezza dell'acciaio alla leggerezza del software e oltre. Le variazioni e le aggiunte riguardano soprattutto gli argomenti collegati alla crisi scoppiata nell'estate del 2007 sull'onda dei mutui subprime e ancora in corso mentre andiamo in tipografia. Alla crisi e ai suoi sviluppi dedichiamo uno specifico articolo su questo stesso numero della rivista.

Letture consigliate

  • Karl Marx, Grundrisse, Einaudi, 1976.
  • Partito Comunista Internazionale, Il corso del capitalismo mondiale, raccolta di articoli, tabelle e dati comparsi sul quindicinale Il programma comunista dal 1956 al 1958, con alcuni aggiornamenti agli anni '80. Edizioni del PCInt. Firenze 1991.
  • Partito Comunista Internazionale, Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, articoli comparsi sul quindicinale Il programma comunista dal 1955 al 1959, raccolti nel volume dallo stesso titolo, ediz. Progr. Com. 1976.
  • Partito Comunista Internazionale, Tesi di Napoli, 1965, ora in In difesa della continuità del programma comunista, ediz. Progr. Com. 1970.
  • Partito Comunista Internazionale, "La borghesia interpella il suo oroscopo", Il programma comunista n. 11 del 1973.
  • Partito Comunista Internazionale, "Invano il capitalismo si interroga sul futuro della propria economia", Il programma comunista nn. 14-15 del 1978.
  • Partito Comunista Internazionale, Proprietà e Capitale, cap. XVII, "Utopia, scienza, azione", sulle dinamiche soggiacenti alle possibilità di previsione. Iskra 1980.
  • Partito Comunista Internazionale, Mai la merce sfamerà l'uomo, Iskra 1980.
  • Amadeo Bordiga, "Idealismo socialista", L'Avanguardia, 11 agosto 1912.
  • Einstein e alcuni schemi di rovesciamento della prassi, n+1 n. 4, giugno 2001.
  • Dal mito originario alla scienza unificata del domani, n+1 nn. 15-16.
  • La crisi storica del capitalismo senile, Quaderni di n+1, 1985.
  • Dinamica dei processi storici – Teoria dell'accumulazione, Quaderni di n+1 1992.
  • La legge della miseria crescente, n+1 n. 20, dicembre 2006.
  • Bruno de Finetti, L'invenzione della verità, Cortina 2006.
  • Bruno de Finetti, articolo Probabilità, Enciclopedia Einaudi, vol. 10.
  • Stefan Amsterdamski, articolo Previsione e possibilità, Enciclopedia Einaudi, vol. 10.
  • Mark Buchanan, Ubiquità. La nuova legge universale dei cambiamenti, sul concetto di "fisica della storia", Mondadori 2001.
  • Giorgio Israel, La visione matematica della realtà, un testo interamente dedicato alla formalizzazione dei processi naturali "e" sociali. Laterza 1996.
  • Tito Tonietti, Catastrofi, sui modelli di accumulo continuo che portano a soluzioni discontinue o singolarità. Dedalo 2002.
  • Jay W. Forrester e altri, Verso un equilibrio globale, studi del System Dynamics Group del MIT sulla modellizzazione dello sviluppo capitalistico. Mondadori 1973.
  • Donella e Dennis Meadows, Jørgen Randers, William Behrens, I limiti dello sviluppo, sul primo modello completo e computerizzato di dinamica dei sistemi applicato alla previsione del futuro capitalistico. Mondadori, 1972.
  • Donella e Dennis Meadows, Jørgen Randers, Oltre i limiti dello sviluppo, lo stesso modello ripreso vent'anni dopo. Il Saggiatore, 1992.
  • Wassily Leontief, Il futuro dell'economia mondiale, un modello di previsione commissionato dall'ONU e basato sul metodo input-output, cioè sui criteri di accumulazione capitalistica trattati secondo schemi ripresi (senza dichiararlo) da Quesnay e da Marx (matrice di Leontief). Mondadori 1997.
  • Benoît Mandelbrot, Il disordine dei mercati, un tentativo di ricerca delle regolarità e perciò di leggi nel sistema caotico degli scambi finanziari. Einaudi 2005.
  • Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli 2007.
  • Georgescu-Roegen Nicholas, Energia e miti economici, Bollati-Boringhieri, 1998.
  • Rifkin Jeremy, Entropia, Baldini e Castoldi, 2000.
  • Passet René, L'economia e il mondo vivente, Editori Riuniti, 1997.
  • Autori vari, Living planet report 2008, in italiano sul sito del WWF.
  • Autori vari, "Current Methods for Calculating National Ecological Footprint Accounts", Science for Environment & Sustainable Society Vol. 4 n. 1 del 2007.
  • Autori vari, La grande crisi. Domande e risposte, edizioni Il Sole-24 Ore, 2008.
  • Autori vari, "Saving the system, Special report on the world economy", The Economist, 11 ottobre 2008.

FINE

Rivista n. 24