L'Italia nell'Europa feudale (15)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

15. I due più grandi feudatari d'Italia

A cavallo dell'anno Mille, Bonifacio di Canossa (985-1052), conte di Modena, Reggio, Mantova, Brescia e Ferrara, marchese di Toscana ecc. ecc. divenne signore di territori immensi, i più vasti che in Europa fossero raccolti sotto un solo feudatario. La proprietà copriva, quasi senza soluzione di continuità, una superficie che andava dal Lazio alla Langobàrdia all'altezza del Lago di Garda, passando dalla Romània (figura 35). Dopo l'imperatore, Bonifacio era l'uomo più potente d'Italia, signore di una terra grande come una nazione e per di più fitta di grandi città.

La peculiarità del suo "feudo" consisteva nel fatto che esso non era composto di terre ricevute in beneficio feudale ma di proprietà allodiali ricevute per via ereditaria, oppure acquistate con denaro o procurate con altri mezzi. Meno celebre della figlia Matilde, aveva portato alla perfezione la strategia adottata dal casato fin dal X secolo: occupare il territorio colmando i vuoti lasciati dall'incuria, dalle guerre, dalle faide, ecc.; accorpare fondi sparsi e permutarli con altri che fossero utili all'ampliamento del possedimento principale; acquisire terre in dote attraverso oculate quanto spregiudicate politiche matrimoniali; utilizzare con profitto il sistema della simonia per acquisire con denaro cariche ecclesiastiche; approfittare del venir meno di protezioni potenti per appropriarsi con le armi di fondi, specie ecclesiastici; prendere fondi in pegno in cambio di beni o denaro la cui mancata restituzione produceva automaticamente il sequestro dei fondi stessi.

Il feudo atipico dei Canossa

Ma soprattutto il casato dei Canossa era specializzato nella gestione di fondi i cui proprietari o beneficiari erano assenti, o lontani, o comunque non in grado di provvedervi da soli. Va da sé che in caso di morte del cliente o grazie ad altri tipi di "facilitazione", a volte succedeva che si ampliava il feudo del casato. Con tali modernissimi sistemi, degni di una banca attuale, i Canossa divennero una potenza in grado di rapportarsi al papa o all'imperatore da pari a pari. Possedevano o controllavano 85 castelli e città per centinaia di migliaia di ettari. Avevano la residenza ufficiale in un palazzo a Mantova. In caso di pericolo o di negoziati importanti, raggiungevano il castello di Canossa, una rocca che si diceva inespugnabile (figura 34). La loro potenza era fondata su proprietà privata. Certo in ambiente feudale che la condizionava ma, almeno come nucleo principale, proprietà privata.

Trecento anni dopo, all'inizio del '300, in epoca considerata ancora totalmente feudale, Pietro De Crescenzi scrive un trattato di agraria che, nonostante i limiti "filosofici" (una concezione aristotelica degli elementi naturali), diventa un best-seller dell'epoca. Prima dell'invenzione della stampa è un bel risultato. Il trattato s'intitola: Opus ruralium commodorum, ovvero Lavoro con vantaggio nelle aree rurali e si può prelevare gratuitamente sul Web, in italiano. L'Enciclopedia Treccani ne dà questo giudizio:

"Il piano dell'opera rivela molta originalità in rapporto alle opere antiche [e sue contemporanee] sulla base della scelta veramente 'moderna' di approntare un'enciclopedia pratica destinata ad un pubblico socialmente ben definito nell'Italia intorno al 1300: quello dei 'borghesi' che avevano costituito un patrimonio nel contado".

In effetti il contesto del trattato – ed è detto esplicitamente – è quello della scelta per impiantare o rilevare, acquistando la terra sul mercato, una "villa" che produca non per l'autosostentamento ma per la vendita, dal bestiame alle erbe officinali, dagli ortaggi al legname, dai cereali alla frutta.

Dunque in Italia, in quell'epoca, c'è un pubblico socialmente ben definito in grado di acquistare, certo a non poco prezzo visto quanto costavano pergamena e copisti, un manuale che insegna a fondare una curtis partendo dall'acquisto dei terreni. Non stiamo solo cercando l'ennesima prova dell'esistenza di un mercato della terra. Stiamo preparando il contesto, tramite Bonifacio e De Crescenzi, in cui collocare i due più grandi feudatari che abbiano mai operato dal punto di vista economico in un paese d'Europa. Di Matilde di Canossa (1046-1115) abbiamo appena presentato il padre. Di Federico II di Svevia (1194-1250) parleremo seguendo l’ordine cronologico.

Vorremmo saperne di più sulla natura della proprietà di Bonifacio e sulla facilità con cui la famiglia l'ha resa così sconfinata con mezzi non sempre limpidi. Ma ci dobbiamo accontentare della documentazione che c'è. L'allodio, come sappiamo, esisteva fin dai regni barbari, ma in pieno feudalesimo stava scomparendo in tutta Europa meno che in Italia. Perché? E perché una potente famiglia, in controtendenza persino con l'Italia, accumula un patrimonio fondato sull'allodio quando, imparentata con i più alti esponenti del feudalesimo europeo, poteva avere quanti feudi voleva? I ben calcolati matrimoni ne portavano certamente (ne arrivarono persino dalla Lorena), ma sembra che la compravendita fosse privilegiata. Ad esempio, la prima moglie di Bonifacio, Richilde, acquista a suo nome 12 curtes pagandole 2.000 libbre. La seconda, Beatrice, ripete l'operazione per 6 curtes a 1.000 libbre. È chiaro che lo fanno per conto del marito. La somma è enorme (la libbra era una mera unità di conto, materialmente esistevano solo i denari: 1 libbra = 409 grammi di oro = 240 denari) e la proprietà acquistata ha dimensioni altrettanto enormi: 18 curtes vogliono dire decine di chilometri quadrati di terra, anche se in proporzione all'area complessiva posseduta è quasi niente. Una delle ipotesi è che il contratto sia fasullo e serva coprire una delle ricorrenti acquisizioni irregolari (Lazzari). Tutto comunque fa pensare che la famiglia dei Canossa avesse un progetto territoriale ben preciso, con fulcro sull'Appennino tosco-emiliano. Lo proverebbe la dislocazione dei castelli e dei castra, acquistati o fatti costruire, a difesa dell'imbocco delle valli. Se è così (ma i castelli servono proprio a questo) allora ci troviamo di fronte a una scelta politica che deriva dal fatto che in quegli anni è alta la tensione fra i Comuni, l'Impero e la Chiesa, e un feudatario sarebbe costretto a schierarsi. Perché altrimenti immaginare una specie di vasto principato fatto di fertili e numerose curtes di pianura con alle spalle una gigantesca area di arrocco in caso di guerra? Gli storici stanno studiando i documenti antichi con criteri moderni, ed è effettivamente visibile la tensione che in questo secolo investe ad esempio i Comuni, specie quelli più piccoli, che si dedicano a sistemare freneticamente il territorio con difese materiali, sistemi di alleanze e neutralizzazione dei feudatari (figura 33). Significativo il titolo di un testo che il lettore troverà in bibliografia: Aziende fortificate, castelli e pievi. Le basi patrimoniali dei poteri dei Canossa e le loro giurisdizioni. Dunque siamo alle aziende fortificate. Nell'anno Mille. Non male.

Matilde, che visse quando nacquero i Comuni

Matilde di Canossa (o di Toscana) eredita questa situazione insieme alla signoria atipica di Bonifacio, suo padre. Nella lotta fra papato e impero decide senza esitare di schierarsi con Roma. La tesi comune è che lo fa in quanto convinta cristiana ecc., tant'è che vara una politica di donazioni e costruzioni a favore di chiese e abbazie. Può darsi, ma ci sembra più verosimile che l'impostazione, dislocazione e natura economica delle proprietà fossero già predisposte per una scelta di campo. La stessa rete delle abbazie può rappresentare un sistema logistico. Persino alcune paludi, acquistate a poco prezzo, sembrano opere di difesa più che investimenti. Un feudatario avrebbe ragionato diversamente, e i Canossa erano imparentati con i più alti feudatari d'Europa, compresi gli ultimi imperatori. Erano mezzi germanici e discendevano pure dai Longobardi. La guerra per le "investiture" era in corso da anni e l'Impero aveva già piazzato vescovi suoi nelle sedi nevralgiche. D'altra parte, oltre alla strategia, c'era la questione economica: il "feudo" ereditato da Matilde era in gran parte cittadino; lei stessa, come il padre, risiedeva a Mantova, Pisa, Firenze o in qualche altra città dove avesse un palazzo, e le città erano in gran parte anti-imperiali. Insomma, la struttura allodiale della proprietà (non revocabile come beneficio e requisibile solo con una vittoria militare), la loro posizione e la rete di opere che le proteggevano, più gli interessi cittadini, portavano Matilde a concludere un'alleanza con il papa piuttosto che con l'imperatore (Enrico IV), che pure le era cugino.

Durante il Risorgimento la figura di Matilde fu utilizzata, e spesso quasi beatificata, dai neoguelfi, che vedevano nella Domina comitissa un'antenata della rivoluzione nazionale. In qualche lavoro contemporaneo la tesi rispunta regolarmente, e se ne fece indigestione durante gli "eventi" organizzati in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia; ma è impossibile che Matilde pensasse alla costituzione "di uno stato nazionale italiano basato sulla proprietà personale anziché sulla concessione imperiale" (Minarelli). È invece plausibile che in Italia, nel secolo XI-XII, oltre al maturare del forte schieramento anti-feudale e anti-imperiale dei Comuni, maturasse, per la difesa pura e semplice dei propri interessi, una borghesia urbano-agraria come quella dei Canossa. Non sappiamo cosa pensasse Bonifacio della propria attività perché di lui non sembra siano rimasti che documenti amministrativi; ma di Matilde abbiamo documentazione abbondante, dalla quale si può solo rilevare la grande attività materiale intorno alle curtes, ai castelli, alle abbazie, e naturalmente intorno ai suoi rapporti con il papa e l'imperatore. Aveva certo un atteggiamento pratico da personaggio dell'epoca comunale, ma ragionava come una grande proprietaria terriera dell'epoca feudale. Non risulta invece che abbia avuto le ambizioni "nazionali" che alcuni le attribuiscono.

Semmai era suo padre Bonifacio ad avere titoli per aspirare al regno italico. Nel 1014 si era messo in vista aiutando l'imperatore Enrico II a deporre Arduino d'Ivrea che era stato proclamato re d'Italia nel 1002, del quale era incomparabilmente più forte in quanto ad esercito e possedimenti: si poteva arroccare meglio in caso di pericolo, poteva vantare una genealogia germanico-longobarda, mentre Arduino era un ribelle anti-imperiale e anti-papale. Ma gli era mancato uno di quegli spiragli della storia che rendono possibili queste imprese, come invece era successo ad Arduino. Dopo la morte di quest'ultimo, spiragli non ve n'erano più.

Quando fra il Papato e l'Impero esplose la guerra, con l'imperatore che destituiva il papa e il papa che scomunicava l'imperatore, sembrò che per Enrico IV fosse davvero finita, dato che i vassalli tedeschi di rango più alto gli avevano voltato le spalle. L'episodio di Canossa (1077) con la sceneggiata del pentimento imperiale e del perdono papale non rientra in questa trattazione, ma sottolinea la funzione centrale che vi ebbe Matilde. La guerra scatenata in seguito dall'umiliato (ma salvato) imperatore dimostrò che l'apparato difensivo delle valli ideato da Bonifacio e potenziato da Matilde era strategicamente valido e che sembrava fatto apposta per resistere proprio a un attacco delle truppe imperiali abituate alla guerra campale.

In margine alla grande attività politica e militare, c'è tutta una letteratura su Matilde ecologista ante litteram. Si tratta in realtà di bonifiche e migliorie attuate con il metodo cistercense: ella concesse infatti in enfiteusi una grandissima quantità di terre nella bassa padana, specie intorno all'abbazia di Nonantola, organizzando un esercito di contadini liberi assegnati a un progetto centralizzato sotto la guida e la logistica delle abbazie circostanti. Su tutte le strade che collegavano i centri appenninici fece arrivare squadre di lavoro per la manutenzione della viabilità, ma soprattutto per rimettere in funzione o costruire ex novo stazioni di posta, locande, ospizi, in modo che le postazioni militari, i castelli e le città fortificate fossero parte di un unico sistema economico-militare. Per questa attività mobilitò anche i monaci che precedentemente aveva finanziato. All'epoca tutto ciò non era usuale. La conduzione dei feudi con il sistema tardo-curtense comportava anche a livello produttivo una oggettiva anarchia (Tabacco). La mentalità "aziendale" che la proprietà privata invece comporta, produce a sua volta attività centralizzata, ricerca di efficienza, strategie produttive e organizzazione del lavoro secondo una divisine tecnica e non di rango. Se c'è una cosa che a nostro avviso gli storici hanno sottolineato poco, è che il "feudo" di Matilde funzionava come uno stato. Anzi, era uno stato. Il feudalesimo vero, non quello dei personaggi di De Roberto o Tomasi di Lampedusa, non conosce lo Stato.

Nel 1084 Matilde fu messa al bando da Enrico IV, che la dichiarò decaduta da tutti i titoli feudali. Ma la sua potenza stava negli immensi possedimenti e fin che quelli c'erano, era possibile pagare un esercito. Si venne allo scontro, nel quale Matilde guidò personalmente la battaglia. Le truppe imperiali furono sconfitte a Sorbara. Nel 1092 si fece di nuovo ricorso alle armi. Enrico IV fu sconfitto definitivamente a Canossa e abdicò. Gli successe il figlio, Enrico V, che si riconciliò con Matilde e, anzi, la incoronò regina d'Italia. Era pura formalità, senza alcuna relazione con l'unità territoriale del regno, e lei continuò nel suo lavoro di sistemazione economica e militare delle proprietà. Milano, Lodi, Piacenza e Cremona le si erano nel frattempo avvicinate formando la prima Lega contro l'Impero, che resistette vent'anni. Scrisse un testamento in cui lasciava tutto alla Chiesa. Evidentemente partiva dal presupposto che, vinte due guerre, i feudi in concessione non dovessero essere riconsegnati all'impero ma fossero da considerare bottino militare e quindi da conteggiare fra le proprietà private. Diede così ai giuristi feudali il destro per aprire un contenzioso col papa che durò secoli.

Essere monarchi feudali in Italia

Nel 1066 i Normanni guidati da Guglielmo il Conquistatore invadono l'Inghilterra, sconfiggono i Sassoni e si incastellano immediatamente, come avevano già fatto nel Nord della Francia. A quella data essi erano già insediati stabilmente nelle regioni meridionali d'Italia. Tuttavia, essendo stata la loro penetrazione molto diluita nel tempo, ed essendo stati chiamati a fiancheggiare forze locali in lotta fra di loro (residui ducati longobardi, possedimenti bizantini e soprattutto emirati arabi), avevano assorbito elementi dell'antica società locale più che lasciarne di nuovi loro propri. La situazione era molto confusa e per dei mercenari avventurieri, intraprendenti, forti nel maneggio delle armi, non era difficile rendersi conto che c'era un vuoto da riempire. Una bella immagine ce la offre uno storico positivista a proposito della Sicilia:

"Come in natura ogni più strano disordine è ordinato in sé stesso secondo le eterne leggi della materia, così in quel ribollire di tutte le genti che altre vicende avevano messo insieme in Sicilia, nacquero vari grumi, e in ciascuno si scoprì l'affinità degli elementi che gli davano principio… si erano dileguati i Cristiani [vinti dagli Arabi] e gli unici a crescere erano i popolani dell'antica stirpe siciliana" (Michele Amari).

Il fatto è che nel 1060, data della prima incursione normanna sull'isola da parte di Roberto il Guiscardo e Ruggero (con soli 200 cavalieri e qualche nave!), era impossibile impiantare in una società complessa la semplicità barbarica delle dipendenze personali, insomma, il feudalesimo. Le terre che furono della Magna Grecia, poi dei Romani e dei Bizantini non erano permeabili all'influenza esterna come le lande d'Inghilterra già occupate dai Sassoni. Anche i ducati longobardi in pochi anni si erano adeguati all'ambiente tardo-antico, assimilando, nei pochi edifici costruiti o restaurati, persino l'arte classica. Bloch ammette la persistenza delle usanze barbariche, ma nega che queste fossero elevate a sistema: "Nei principati longobardi di Benevento, Capua e Salerno, era assai diffusa la pratica delle sudditanze personali, senza tuttavia che queste si fossero elaborate in un regolare sistema gerarchico". Anche per quanto riguarda le zone rimaste sotto l'influenza bizantina è chiaro che al Sud non era filtrato il sistema delle relazioni feudali, al massimo: "Alcune oligarchie terriere, guerriere e spesso anche mercantili, dominavano la moltitudine degli umili, a cui li legava talvolta una specie di patronato". E per quanto riguarda la Sicilia, il vero fulcro determinante di tutto il Sud, "là dove re­gnavano gli emiri arabi non esisteva nulla di analogo, neppur lontanamente, al vassallaggio".

I rapporti feudali furono dunque prodotti d'importazione anche nel Sud, ed arrivarono pure tardi, quando gli invasori, ormai stabilizzati in quanto classe dominante, li imposero alla popolazione. Ma a questo punto si erano anch’essi latinizzati e arabizzati. Invece di costruire castelli in quantità come in Inghilterra, avevano requisito palazzi urbani o ne avevano costruiti di nuovi producendo in pochissimo tempo capolavori di sintesi architettonica arabo-bizantino-normanna. Ancora Bloch:

"Il trapianto dei rapporti feudali e vassallatici fu ovunque facilitato dal loro carattere d'istituzioni di classe. Al di sopra delle plebi rurali e tal­volta della borghesia, entrambe di tipo ancestrale, i gruppi dirigenti, es­senzialmente composti di invasori, ai quali in Inghilterra e soprattutto in Italia si aggiunsero alcuni elementi delle aristocrazie indigene, forma­vano altrettante società coloniali, rette da usanze anch'esse esotiche. Tali feudalità d'importazione ebbero, quale caratteristica comune, di essere molto meglio sistematizzate che là dove lo sviluppo era stato pura­mente spontaneo. A dire il vero, nell'Italia meridionale, sussistettero sempre allodi, molti dei quali, per un tratto singolare, erano nelle mani delle vecchie aristocrazie cittadine".

Per "sistematizzate" noi intendiamo "statalizzate", condizione cui non pensarono nemmeno lontanamente i continuatori dei regni barbarici. Lo stato era congeniale agli eredi dei Romani, persino a quelli dei califfati, se pensiamo ad esempio a quello di Cordoba, ma non ai feudali. La conquista araba aveva portato un'agricoltura compatibile con quella degli horti irrigati dagli acquedotti greco-romani: essa riproduceva i qanat che gli arabi avevano copiato dalla Persia, o le foggara del Nordafrica, che permettevano, nel clima siciliano, l'agricoltura a tre livelli delle oasi, cioè palme in alto, frutta al livello mediano, ortaggi a terra. Come già avevano sottolineato gli agronomi dell'800, l'economia agraria a coltivazione intensiva, irrigata, sotto una direzione tecnica quale fu anche quella dei cistercensi, è incompatibile con il feudalesimo. Nella prima metà del '200, dopo due secoli di "feudalesimo" meridionale, i borghesi si arricchivano sempre più nelle città proprio perché, anche se virtualmente dipendenti dal sovrano, erano praticamente liberi dalle dipendenze. Di fatto, la loro "servitù" nei confronti dello Stato li liberava dagli arbitrii dei potentati locali, specie per quanto riguardava le loro proprietà immobiliari allodiali. Persino questo termine feudale al Sud non esisteva: per secoli, nel linguaggio notarile meridionale, per proprietà privata completamente disponibile si usò "burghensatico" anziché "allodiale".

Federico II. Stupor mundi, ma non per quello che si crede

La maggior parte degli storici sono propensi a considerare questo imperatore almeno atipico; alcuni, molti meno, gli attribuiscono caratteri anticipatori delle signorie rinascimentali; uno solo, per quanto ne sappiamo, lo tratta come un imperatore feudale al pari di tutti i suoi predecessori (David Abulafia); uno stuolo di autori più o meno attendibili va a cercare materiali e collegamenti fantastici, esoterici, cabalistici e così via. È naturale che, di fronte ad anatomie perlomeno romantiche del personaggio, almeno un autore si metta contro corrente. Diciamo subito che a nostro avviso, Abulafia ha ragione. È perciò vero che Federico era un imperatore feudale come suo padre Enrico VI e suo nonno Federico I il Barbarossa. Se ci ponessimo al di là delle Alpi vedremmo che la regola federiciana, non diciamo la legge, che per i feudali era cosa diversa da ciò che intendiamo noi, era la feroce conquista di territori, l'esercito di cavalieri mistici, la cristianizzazione forzata delle popolazioni, il rogo di eretici, lo spirito di crociata per aprirsi vie di sbocco verso Oriente, l'incastellamento, la generalizzazione della servitù, l'economia naturale, ecc. ecc. Il fatto è che l'imperatore feudale risiedeva al di sotto delle Alpi, e, come diceva tra l'altro egli stesso, era costretto a fare ciò che non avrebbe voluto. Ovviamente se voleva tenere l'Italia lo doveva fare alimentandosi fino in fondo con ciò che offriva quella che ormai considerava la sua vera terra (era normanno di rango reale da parte di madre); così come, se voleva tenere il Nord Europa lo doveva fare da imperatore feudale tedesco. Ciò può comportare una certa schizofrenia del potere, ma non cambia la natura di un rappresentate del feudalesimo. Non era un Ariberto da Intimiano, arcivescovo feudale, combattente per il Comune di Milano contro l'imperatore: Federico era l'imperatore.

L'aveva impressionato il fatto che in Italia prima di tutto veniva la legge, e Pier delle Vigne, il suo logoteta, l'aveva edotto sul diritto romano e sulla filosofia del potere. Ordinò ai suoi legislatori di scrivere una Constitutio sulla falsariga del diritto romano adattato ai tempi. Essa prevedeva un sistema giudiziario centralizzato, con propaggini alla periferia, un fisco gestito dallo Stato (quindi l'esistenza di uno Stato), eguaglianza delle etnie, diritti delle donne, monopoli di Stato nella produzione di beni strategici, ammasso statale del grano, controllo statale dei porti, monetazione aurea ad effettiva circolazione (per la prima volta nel Medioevo, la seconda fu nella Repubblica di Genova), limitazione dei poteri ai baroni feudali, ecc.

La Costituzione era stata presentata a Melfi in gran pompa. L'amministrazione era stata affidata agli Ebrei, che erano stati combattuti e ridotti all'obbedienza. L'esercito era strutturato come quelli tipici medioevali, con la differenza che era multi-etnico; al fine di sviluppare lo spirito di corpo reparti speciali erano formati ad esempio da arcieri e cavalieri arabi (anche in questo caso prima combattuti e poi inseriti nell'apparato statale). La corte era completamente internazionale, vi si parlava il latino, il tedesco, il francese, il greco, l'arabo, l'ebraico e… una lingua che ufficialmente non esisteva ancora, l'italiano. Soffermiamoci un attimo sulla lingua italiana che stava nascendo come letteratura: il linguaggio è un mezzo di produzione, difficile che nasca in una forma sociale decadente, semmai involve; più facile che nasca ed evolva in una forma nascente. Per Dante e Firenze s'è sempre detto così; per Cielo d'Alcamo dovrebbe valere lo stesso criterio (anche Federico si dilettava a comporre versi). Infine: Bloch si chiede come mai in Italia non sia mai esistita un'epica originaria feudale come la Chanson de Roland, o il ciclo arturiano: "Singolare il caso dell'Italia. Non ebbe, sembra non abbia mai avuto, un'epopea autoctona. Perché? Sarebbe temerario risolvere in due parole un problema tanto inquietante". Tuttavia risponde con una ipotesi davvero "inquietante": l'Italia era l'unico paese dove la maggior parte dei feudali e quella dei mercanti sapessero leggere, per cui "se il gusto del passato non fece nascere dei canti, ciò non si potrebbe addurre al fatto che si trovava una suffi­ciente soddisfazione nella lettura delle croniche latine?". E se fosse invece che il feudalesimo non era una forza tale da produrre letteratura? I primi esempi di scrittura in italiano sono quasi tutti in documenti notarili o contabili riguardanti la proprietà.

Ma la rivoluzione federiciana, quella che nel Nord Europa non sarebbe stata neppure pensabile, quella di cui non si parla mai, avvenne nell'economia. Federico II si era incontrato a Pisa con Leonardo Fibonacci, il celebre matematico, con il quale aveva scambiato una corrispondenza su problemi di calcolo e che gli aveva dedicato un libro di matematica. Poiché il Pisano aveva anche scritto un manuale di calcolo per mercanti, si suppone che alcuni elementi siano stati assimilati dall'imperatore per i suoi progetti riguardanti l'agricoltura. Non che spunti la matematica dai documenti, ma certamente emerge una visione sistemica del problema agrario; in relazione al quale la contabilità razionale ha estrema importanza in quanto essa non è un semplice modo per quantificare la produzione e il guadagno, ma è la base per ricavare conoscenza dal sistema al fine di migliorarlo.

Un'altra azienda feudale. Questa volta di stato

"Ernst Kantorowicz, tutt'altro che insensibile ai problemi economici della politica di Federico, aveva concluso le sue pagine sull'argomento con un richiamo al mercantilismo di Colbert… Il parallelo è meno azzardato di quanto supponesse il grande biografo... L'impianto economico messo in opera da Federico II è già razionalistico e capitalistico… Siamo in presenza di una razionale conduzione dell'economia, cioè di una ratio che informa l'azione economica e che si viene definendo specularmente alla ratio su cui si veniva fondando lo stato. La forma più immediata ed elementare in cui questa razionalità si manifesta è il calcolo, il computo aritmetico: il Liber Augustalis dice ratiocinium, e quaterna ratiocinii sono i libri contabili" (Mario Del Treppo).

Troppa grazia. Individuare meccanismi aziendali, imprenditoriali, capitalistici, non significa ancora che ci sia capitalismo. La sola produzione di merci non basta a definire un modo di produzione, la prova la dobbiamo cercare nel complesso della società. E neppure si può fare come Stalin che aggiungeva: allora posso dire che in Russia c'è socialismo anche se c'è produzione di merci. Quel che ci serve è percorrere la strada che porta al capitalismo di oggi; e vediamo che non è sorto per miracolo, si è sviluppato da germi antichi, perfettamente individuabili, che demoliscono spietatamente la teoria della sopravvivenza feudale, in Italia, al XX secolo. Giusta la tesi di partenza, anche nel regno federiciano troviamo: 1) meno feudalesimo al Sud che al Nord; 2) in tutta Italia meno che altrove; 3) altrove meno nella struttura sociale che nella sovrastruttura politica, almeno dal secolo XII in poi (vedremo che l'Altrove sarà fortemente plasmato dal capitalismo italiano)

Del Treppo è uno dei pochi storici che non mandano giù il piagnisteo sul povero Sud Italia rovinato dal feudalesimo residuale. Dicono che sia anticomunista. Con i comunisti che ci sono in circolazione non c'è da stupirsi. Comunque sia, in un articolo (Prospettive mediterranee ecc.) ha pubblicato dati federiciani interessanti, che adoperiamo. Da un'analisi dei documenti dell'epoca risulta che i fondi presenti in Puglia, una delle regioni del regno più amate da Federico, sono di tipo classico: curtes con terreni coltivati da affittuari o salariati, terreni allodiali a coltivazione diretta o indiretta (quasi nulla la presenza di servi), masserie coltivate negli stessi modi, abbazie a schema curtense. Le masserie regie compaiono tardi (la prima è documentata nel 1220), e siccome non sono mai menzionate in epoca normanna, sono certamente di origine federiciana. Non le masserie individuali, che sulle proprietà erano già presenti anche se rare, ma il sistema delle masserie statali che facevano capo a una amministrazione centralizzata. Anche in questo caso spunta la rete con i suoi nodi.

In quel periodo, è scritto in una cronaca di Santa Maria di Ferraria, un'abbazia cistercense, Federico aveva convocato delegazioni di conversi provenienti da tutte le abbazie cistercensi del Regno affinché collaborassero all'organizzazione e amministrazione delle sue aziende agricole e dei cantieri pubblici per le nuove costruzioni. C'è da dire che i cistercensi a quell'epoca avevano compiuto il secolo da vent'anni e non avevano più lo spirito pionieristico originario. Le curtes con grange non erano troppo diverse da quelle con mansi, e i coloni o affittuari di ogni tipo erano gravati di obblighi nelle une e nelle altre. In un documento giudiziario è descritta la richiesta di sgravio da parte dei contadini calabresi spremuti da un'abbazia cistercense; Federico, presente, mostra comprensione per i tartassati, ma non può fare altro che applicare il contratto. Questo piccolo aneddoto va ricordato quando parleremo delle condizioni di lavoro nelle masserie di stato.

Questi aggravi a carico del lavoro contadino si spiegano anche con l'aumento dei traffici legato alla crescita economica e demografica, per cui alla campagna venivano richiesti più prodotti. Lo stesso motivo può essere alla base della decisione imperiale di ristrutturare completamente il settore produttivo a cominciare dall'agricoltura. La chiamata dei conversi cistercensi è certamente collegata, anche perché le abbazie erano pratiche di sistemi agrari collegati alle vie di traffico sia stradale che marittimo: non solo possedevano approdi attrezzati e porti di tutto rispetto, ma pure le navi che vi attraccavano in partenza e arrivo verso e da tutto il Mediterraneo. Dal regolamento di uno di questi porti risulta che vi attraccassero anche navi di grande tonnellaggio delle Repubbliche marinare.

In questa cornice si colloca la "rivoluzione dall'alto" federiciana, la quale si propone di far scaturire dalla realtà esistente un risultato nuovo, più razionale perché progettato. La teorizzazione di questa razionalità risulta esplicitamente da documenti prodotti per spiegare a chi lavorerà al progetto con quale mentalità dovrà svolgere tale lavoro. Non quindi semplicemente un'impresa che termini con il risultato voluto, ma un modello che faccia scuola per tutto il regno. Purtroppo è sopravvissuto un solo documento in cui compaiano delle cifre inerenti alla trasformazione in atto. Si tratta di un elenco di contratti in scadenza in Capitanata datato 1248, due anni prima della morte di Federico. Sono citate 33 località. In 7 di queste esistono delle curtes, in 10 delle masserie. In tutto vi sono 854 unità produttive, 662 in affitto e 192 a conduzione diretta (14 con esclusivo lavoro salariato). Le cifre rispecchiano una situazione "avanzata" dal punto di vista agrario di metà '200 ma che non stupisce: la conduzione in affitto è molto alta rispetto a quella diretta, di famiglie; il sistema curtense sta scomparendo; il ricorso esclusivo a lavoro salariato è basso ma certo indica una tendenza; le masserie sono una novità presente su circa il 30% del territorio preso in esame.

Quest'ultimo dato è di per sé quantitativamente interessante ma quasi scontato, poiché dal 1220, data della prima menzione di masseria federiciana sono passati trent'anni. Quello che invece stupisce è il dato qualitativo. È vero che sparisce la curtis con i suoi mansi, ormai superata, ma al suo posto non subentra la fattoria autonoma, isolata, che potrebbe risultare da una diversa gestione dei mansi, bensì una unità produttiva tra altre collegate, con precisi piani di produzione fissati per prodotto e quantità da un centro coordinatore. Ogni masseria era composta di vari edifici, in parte urbani, in parte agricoli. Sparsa sul territorio, ricomponeva la sua unità sotto un centro amministrativo. Così poteva giovarsi di qualità diverse del suolo e del clima e diversificare le colture senza sparpagliarle entro la medesima unità produttiva. Poteva assemblare vigneti con vigneti, uliveti con uliveti, cereali con cereali, ecc. senza per questo specializzarsi nella monocoltura. A capo della masseria era un massaro, sovrintendente ai lavori e all'organizzazione dei lavoratori. La novità assoluta era che tutta la forza-lavoro presente in masseria era formata esclusivamente da salariati, compresi il massaro e i capi squadra. L'imperatore feudale – e lo era davvero – con l'aiuto di qualche principio razionalistico appreso dall'amico Fibonacci e da un andamento economico che certo non aveva determinato egli stesso, stava rivoluzionando l'agricoltura.

In effetti era dal principio del secolo che il declino delle curtes, del colonato e della manodopera in tutte le forme stava spingendo al cambiamento e all'unificazione della manodopera sotto la forma salariata. In una raccolta di norme imperiali si raccomandava di tenere sotto controllo coloro che lavoravano sub certa mercede affinché non esagerassero con le loro richieste; segno, appunto, che sul mercato della forza-lavoro erano tanto ricercati da far alzare i prezzi. C'era persino una tassa sui redditi derivanti dalla mediazione sulle forniture di salariati. Una volta "assunto" nella masseria, il salariato doveva applicarsi al lavoro che sapeva fare meglio. Non era più un tuttofare come nella curtis ma un lavoratore specializzato. Le contabilità dell'epoca elencano ogni lavoratore con accanto la specializzazione. Il massaro doveva invece sovrintendere a molti lavori e quindi possedere conoscenze più vaste. Lo stesso valeva per il provisor massarum, responsabile di un centro di coordinamento che si occupava anche del reclutamento dei lavoratori e dei massari. L'imperatore raccomandava per iscritto un'attenzione particolare alla qualità più che alla quantità, sollecitava ad attenersi all'essenziale per ottenere un processo razionale. Era proibito ai capi assumere amici e parenti, costituire intorno a sé gruppi di interessi che non fossero dedicati alla produzione, non fossero cioè solliciti circa servitia.

L'efficienza del sistema a masserie, cioè del lavoro salariato ben organizzato secondo un piano centrale, peggiorava la situazione delle unità produttive di tipo diverso. Nel caso dei contadini gravati da imposizioni, che abbiamo visto "presentare ricorso" di fronte all'imperatore senza poter ottenere soddisfazione, l'esistenza di un luogo dove lavorare a salario in condizioni forse non troppo diverse, ma almeno liberi da gravami di ogni genere rappresentava una via di fuga. Tuttavia Federico re di Sicilia e imperatore era, appunto, un uomo feudale. Se il progetto agrario era grandioso e si agganciava bene alla Costituzione di Melfi come assetto dello stato e della produzione, non certo grandiosa era la prospettiva politica. Per collegarsi al Nord dell'Impero doveva passare dai territori dei Comuni, nemici da sempre. Via mare era bloccato dalla disponibilità o meno di Genova e Venezia, solo Pisa gli era alleata. Il Papato, oltre ad averlo scomunicato due volte, tesseva intrighi per abbatterlo. Le continue guerre dissanguavano il tesoro nonostante i notevoli risultati della produzione. Federico si trovava dunque nella tremenda situazione di gestire capitalismo in veste di agente feudale, di essere l'antesignano dei capitalisti di stato nello stesso tempo in cui era rappresentante del passato. E non lo poteva certo aiutare il suo luogotenente Ermanno di Salza con l'armata di cavalieri teutonici. L'unica via d'uscita era predisporre le condizioni per fare del Regno di Sicilia una potenza mediterranea facendo tesoro delle esperienze delle Repubbliche marinare. Ne andava di mezzo l'Impero.

"Il sistema delle masserie, ideato da Federico di Svevia, introduceva per la prima volta nel Mezzogiorno una agricoltura di stato di tipo capitalistico, imperniata sulla razionalizzazione del processo produttivo, sul lavoro salariato, sul mercato. Questo modello di azienda rientra a mio giudizio perfettamente in quella tipologia che F. Braudel ha suggestivamente definito 'il Capitalismo in casa d'altri' " (Del Treppo).

La definizione di Braudel può andare per il Regno di Sicilia, dato che c'era di mezzo l'impero feudale, ma la nostra corrente fu molto più esplicita e radicale nel definire le altre situazioni da cui Federico stava attingendo:

"Questo primo tipo di Stato borghese ha svariatissime funzioni economiche, poiché regola strettamente tutta la disciplina dei mestieri e degli scambi. Tali forme sono di deciso capitalismo di stato: esse vanno fino ad un aperto monopolio del commercio estero da parte dell'autorità civica. La cosa riesce espressiva fino a sfiorare tipi di economia collettiva se ci rifacciamo alle repubbliche marinare" (Lezioni delle controrivoluzioni).

Nel 1235 Federico pubblica una Ordinatio novorum portuum con la quale stabilisce la costruzione di 11 nuovi porti, 2 in Sicilia e 9 nelle regioni continentali che si affacciano sui tre mari. Non è difficile collegare la dislocazione dei porti con lo sviluppo del sistema di masserie e di produzioni poste sotto il monopolio dello stato, anche perché non tutti quelli elencati sono effettivamente di nuova costruzione. La novità quindi è la loro organizzazione rispetto al territorio, un po' come aveva fatto Matilde di Canossa ristabilendo la rete di comunicazioni, stazioni di posta, abbazie e ospizi. Il progetto, che prevede la costruzione di depositi e scaricatoi granari, è particolarmente rivolto proprio alla Puglia e in particolare alla Capitanata, che ha un porto tutto per sé. Il Tirreno, del resto, sta già diventando una via granaria collegata con Venezia e il Nord Europa. Mentre la Sicilia ha già una potente rete portuale che ospita, in porti separati, le navi delle Repubbliche marinare che qui fanno scalo. Con la documentazione che fornisce, Del Treppo non può far altro che collegare i due provvedimenti federiciani, la Constitutio super massariis e la Constitutio novorum portuum, anche perché documenti più tardi dimostrano che i lavori sono in corso, compresa una ristrutturazione dell'Ammiragliato, alla testa del quale è il genovese Nicola Spinola, l'artefice della flotta federiciana. Collegato in tal modo il sistema produttivo del Regno alla rete mediterranea, i rapporti internazionali vengono demandati a mercanti, armatori, banchieri delle Repubbliche marinare, capaci di organizzare una rete globale, una specie di gigantesco outsourcing imperiale.

Rivista n. 35