L'Italia nell'Europa feudale (16)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

16. Lo Stato feudale?

Federico II di Svevia muore nel 1250. Si avvicina il XIV secolo che vede nello stesso tempo una crisi economica, forse la prima a base monetaria moderna, e un perfezionamento dei rapporti capitalistici. Da quel modello la società italiana non recederà più, seguendo il corso del capitalismo fino al suo stadio imperialista di capitalismo di stato, finanziario, colonialista, socialmente decomposto. Pasquale Villani, storico medioevalista, sembra rispondere per noi alla opportunistica teoria dei residui feudali, del secondo Risorgimento e delle bandiere raccattate dal fango:

"Da alcuni secoli [il feudalesimo] non esisteva più neppure nelle nostre regioni meridionali che erano ancora massicciamente agricole. Se un tale mondo era mai esistito, l’espansione del mercato, l’organizzazione e la fiscalità dello stato, le conseguenti mediazioni e differenziazioni sociali, l’egemonia cittadina lo avevano introdotto in un circuito che rende inapplicabile ogni schema e modello di società contadina pura".

Federico II lascia una quindicina di figli, nessuno dei quali riesce a continuarne il programma. L'arrivo degli Angioini rappresenta certamente un peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, tanto che il papa Clemente IV richiama duramente Carlo d'Angiò ricordandogli il peggioramento rispetto al regno di Federico, soprattutto per la disorganizzazione e l'insostenibile dissanguamento fiscale. Franco Cardini dirà che il malcontento sfociato nei Vespri siciliani sarà causato da un tentativo di rifeudalizzare il Mezzogiorno alla francese. C'è del vero, ma la storia non ritorna indietro: le radici della Guerra dei Vespri (1282-1302) vanno ricercate ancora una volta nello scontro fra modi di produzione. Il tentativo di restaurazione ghibellina non è limitato al Sud e del resto neppure la forte reazione ad esso. Nella guerra sono coinvolti gli eredi – dinastici e politici – dell'imperatore, ma non è una guerra dinastica. La sua vera natura di classe (borghesia contro feudalità) la trasforma in una guerra "mondiale". Dopo la effimera pace di Caltabellotta, riprendono le azioni militari su terra e per mare. Sono coinvolti il Papato, gli Angioini, gli Svevi, gli Aragonesi e altre forze che si schierano con gli uni e con gli altri. Si combatte in Piemonte, Toscana, Nordafrica, Palestina, Balcani. Sono coinvolte potenze come Venezia, Genova, Bisanzio, più alcune signorie italiane. Si combatte per 90 anni e alla fine si instaura la monarchia aragonese (che, essendo imparentata con svevi ed angioini, in realtà propriamente aragonese non era). Gli storici la definiscono "pattista" per il suo carattere di compromesso cui si collega una etichetta di anti-assolutismo. Gradita ai banchieri toscani già in affari con essa, non disdegnava l'intervento dello stato in economia.

Il feudalesimo è fondamentalmente anarchico, nel senso che lo Stato non trova posto nella sua struttura, a meno di non chiamare Stato la corte dell'imperatore e le sue dipendenze amministrative. Nessun imperatore feudale si è mai occupato ad esempio di promuovere la manutenzione della rete stradale dell'Impero se non per ragioni contingentemente militari o relative a transiti obbligati dove riscuotere un pedaggio. Del resto i vassalli badavano al proprio feudo e spesso entravano in conflitto con i ranghi superiori. Anche i re d'Italia o d'altrove erano figure che solo molto tardi poterono incarnare uno stato. A parte alcune eccezioni come quelle che abbiamo riportato, il feudale non concepiva nemmeno un potere pubblico nazionale. Ma nel '300 italiano, un poeta medioevale come Dante poteva non essere feudale e immaginare uno stato slegato dalla Chiesa e con a capo un imperatore… che nella realtà non esisteva. Non era un'utopia, era un manuale di istruzioni. La Chiesa capì subito di che si trattava e condannò il libro al rogo e all'indice perpetuo.

In uno degli articoli citati all'inizio (Il rancido problema del Sud italiano) Dante è ricordato proprio per quel saggio sul governo. Peccato non vi sia un commento: tradotto con parole nostre, il testo dantesco è certamente una descrizione medioevale del partito storico che si fa Stato in base al principio di autorità: la società è strutturata in communitates descritte come parti in rapporto con il tutto. È chiaramente una visione organica in cui la società umana si compone di parti (le città come fonte di buona vita) che danno origine a un corpo sociale complesso. La genesi di questo corpo sociale parte "dal basso", ma è giungendo alla sintesi del tutto che le particolarità sono superate e che quindi "dall'alto" può formarsi il "buon governo", capace di irradiare le sue leggi, vivificare la società, affasciarla in un complesso unitario. In "doppia direzione", insomma.

Dante è un poeta medioevale, d'accordo, ma nella sua descrizione dello Stato il feudalesimo non c'è se non nel linguaggio e nell'onnipresenza della divinità. Il governo feudale è organizzato secondo gerarchie di dipendenza piramidali, non conosce il diritto, non ha uno strumento di potere che possa riassumere in sé la rete di città, il suo vertice non vivifica la società ma la dissangua, il suo ideale è il passato e non una visione finalistica verso una umanità migliore. Dante cita un ritorno alla romanità ma non lo rivendica. Il suo "imperatore" è il frutto di una sintesi delle parti con il tutto, non c'entra con la divinizzazione del "capo". E neppure si può dire, come pure fa qualcuno, che il poeta prefiguri lo Stato hegeliano moderno. Egli non ragiona per concetti ma per sillogismi, per cui il risultato non è filosofico ma empirico. Spiega la necessità di dimostrare quanto sia praticamente (empiricamente, appunto) inevitabile un organismo che rappresenti la guida e l'autorità per il benessere comune. Tale organismo non può essere la Chiesa, dato che essa confonde fin troppo la sua funzione spirituale con le cose del mondo, specie per quanto riguarda la proprietà terriera, l'oro e il potere. Non può essere l'imperatore così com'è, che tra l'altro ha bisogno dell'investitura da parte del papa per esserlo. Forse, semplicemente, Dante, italiano, e non germanico, ipotizza un imperatore non feudale, dato che egli stesso feudale non era, così come non lo erano i suoi contemporanei.

Letture consigliate

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Rivista n. 35