L'Italia nell'Europa feudale (2)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo
2. Il famigerato "ritardo" a causa di "residui feudali"
Intorno al 1919 il giovanissimo Piero Gobetti, da buon liberale, progettava di scrivere una storia ideale del Risorgimento estendendo la rivoluzione borghese fino ai tempi suoi. Il progetto non andò in porto, ma alcuni temi furono da lui ripresi nel 1924, quando pubblicò un articolo intitolato Saggio sulla lotta politica in Italia. In quel testo riassumeva alcuni punti generali, che non fece in tempo a sviluppare a causa della sua precoce scomparsa. Egli considerava, giustamente, il Risorgimento come rivoluzione nazionale della borghesia italiana e Cavour come il suo principale animatore, ma era convinto che la borghesia nel suo insieme non fosse riuscita a ottenere fino in fondo la propria emancipazione rispetto alla situazione precedente (divisione nazionale, disparità di sviluppo interno, residui feudali); per cui la rivoluzione nazionale sarebbe rimasta incompiuta. Il Piemonte, ritenuto contraddittorio motore di questa rivoluzione e suo principale artefice, era dunque responsabile di tale incompiutezza: aveva un'aristocrazia inutile e assente, ma non riusciva a far prevalere la propria borghesia moderna; aveva una struttura agraria basata su grandi proprietà, ma queste erano spezzettate in concessione ad affittuari; aveva una classe dirigente e una monarchia bigotte e retrive, ma espropriava i beni ecclesiastici per pagare le guerre d'indipendenza; era in genere socialmente reazionario, ma produceva scienziati moderni. Il Risorgimento aveva quindi bisogno di una continuità come in una specie di rivoluzione liberale in permanenza. Per far questo doveva diventare rivoluzione urbana, perché la fabbrica "educa al senso della dipendenza e della coordinazione sociale, ma non spegne le forze di ribellione, anzi le cementa in una volontà organica di libertà", e la metropoli moderna rappresenta un "organismo sorto per lo sforzo autonomo di migliaia d'individui ". Il fascismo, non riuscendo ad elevarsi al livello della fabbrica e della città, rappresenta l'incompiutezza e quindi una "autobiografia della nazione".
Il Secondo Risorgimento come fronte interclassista
L'apologia della civiltà urbana e industriale in bocca a un liberale è persino notevole, ma per gente che si proclamava comunista accettare questa definizione era soltanto indice di una scivolata verso il liberalismo. Gramsci fece propria la teoria del ritardo, dell'incompiutezza (o dell'interruzione) e del tradimento, per cui nel PCI diventò vangelo sia per quanto riguardava il contesto in cui si sviluppavano la "questione agraria" e relative lotte contadine, sia per quanto riguardava il rapporto fra borghesia e proletariato, a partire dalla natura del fascismo. Ciò portava a contraddizioni stridenti anche all'interno del partito togliattiano del dopoguerra, dato che era nel contempo luogo comune attribuire al capitale finanziario e parassita una complicità sia con il fascismo, sia con i latifondisti feudali e assenteisti. Pietro Grifone fu un buon esempio di tali contraddizioni. Nel 1940, al confino, scrisse un volume sul capitalismo finanziario nel quale denunciava la parassitaria borghesia italiana come responsabile economica, politica e morale del fascismo. Nello stesso tempo dedicò buona parte della propria vita alla "questione agraria", specie per quanto riguardava l'arretratezza del Mezzogiorno. In pratica dimostrò senza volerlo che il fascismo fu l'approdo naturale e modernissimo di tutta la storia della borghesia italiana da mille anni a questa parte, ma finì per sposare la tesi del ritardo, tanto da giungere, dopo la guerra, a votare egli stesso le leggi agrarie del governo democristiano di allora, suscitando la critica ironica persino di un Sereni.
Il quale, diventato il teorico ufficiale del PCI per la questione del "secondo Risorgimento", negli anni '50 del secolo scorso sviluppò la teoria per una politica agraria "orientata" del partito estraendo dal contesto economico e sociale italiano alcuni di quelli che riteneva punti-chiave:
1) il capitalismo italiano, fra quelli europei, era giunto ultimo nello sviluppo perciò era maturato in fretta al livello finanziario-parassita;
2) per le stesse ragioni non aveva fatto in tempo a liberarsi di caratteri arcaici quali la proprietà nobiliare, la gestione del latifondo, il ricorso al caporalato, e persino la mafia;
3) il latifondo aveva di conseguenza le stesse caratteristiche del feudo: vi lavoravano o contadini assegnatari pauperizzati, o braccianti reclutati caso per caso quando servivano, anch'essi gettati nella miseria più nera e quindi facilmente assoggettabili;
4) date le sue caratteristiche arcaiche, il latifondo rappresentava un ostacolo che impediva lo sviluppo dell'impresa agraria capitalistica;
5) quand’anche vi fosse stato un innesto dell'impresa moderna sul fondo antico, tale soluzione "prussiana" non avrebbe portato giovamento all'economia agraria, né tantomeno al contadino, in quanto avrebbe semplicemente rappresentato un intervento del capitale finanziario, oggettivamente alleato con i rappresentanti del vecchio regime;
6) ciò era tanto più vero in quanto lo si era sperimentato con il fascismo: il regime dittatoriale era paragonabile a un neo-feudalesimo alimentato dai trust e dagli agrari in un sistema di dipendenze economiche e politiche;
7) millantando una riforma agraria mai effettuata, nonostante le bonifiche, i nuovi insediamenti, ecc., il fascismo aveva contribuito a mistificare i rapporti reali fra le classi, perciò era politicamente corresponsabile dell'arretratezza "feudale" residua;
8) la Resistenza, in quanto lotta interclassista contro il fascismo per la democrazia e il progresso è dunque l'ultima fase del Risorgimento: con tutto ciò che ne deriva dal punto di vista della politica parlamentare, sindacale, economica, sociale.
L'analisi della nostra corrente dimostrerà che la teoria del feudalesimo residuo e del ritardo nella rivoluzione borghese, serviva su di un piatto d’argento la copertura ideologica alla prassi interclassista e controrivoluzionaria di un partito ex comunista degenerato e compromesso fino al midollo con quelli che erano i suoi nemici di un tempo. Come il vecchio riformismo socialdemocratico, non stava più alla destra del campo proletario ma alla sinistra del campo borghese. Se "la ciarla del Medioevo sopravvivente in Italia dimentica che cosa fu il feudalesimo", compito nostro è di ricordare che cosa fu realmente tale modo di produzione; se "dimentica che ve ne fu in Italia meno che altrove", bisognerà capire, su basi oggettive, che cosa ciò possa significare comparando la situazione italiana con quella di altre aree nello stesso continente; se di feudalesimo ve ne fu "nel Sud meno che al Nord", bisognerà capire se le antiche sovrastrutture nobiliari erano pura sopravvivenza o se invece avevano una base economica.
La risposta politica ai quesiti posti dalla teoria composita di Gobetti-Gramsci-Sereni la possiamo derivare interamente da quattro articoli che il lettore troverà in bibliografia, prelevabili sul nostro sito su Internet: La "mancata rivoluzione borghese" in Italia (1946); Il preteso feudalesimo nell'Italia meridionale (1949); Il rancido problema del Sud italiano (1950); Meridionalismo e moralismo (1954). Sintetizziamo i vari punti avvisando il lettore che essi vanno letti tenendo presente il loro sviluppo nelle pagine che seguono, quando tratteremo delle peculiarità del capitalismo italiano e della classe borghese che lo incarna da mille anni. Altro che rivoluzione borghese incompiuta, la precocissima nascita del capitalismo in Italia ha prodotto la borghesia più corrotta, smidollata e putrefatta del mondo.
Dodici "tesine" sul rancido problema
1) La struttura agraria tipica del Sud è stata ed è antifeudale: un misto di orto-giardino, campo estensivo e terreno incolto, dove si affiancano produzione intensiva, vasto arativo e zone adatte solo a magro pascolo. A differenza che nel feudalesimo la popolazione agricola non risiede in piccoli villaggi ma è concentrata nelle città.
2) L'arretratezza delle tecniche agrarie non deriva da recente o antico feudalesimo ma da condizioni storiche pre-esistenti al feudalesimo stesso, alla mancata centuriazione romana su quella parte delle terre che allora erano considerate sterili. Il medioevo feudale è stato un bonificatore di terre (vedi abbazie, specie cistercensi).
3) L'arretratezza semmai non è una persistenza ma un ritorno: al tempo della magna Grecia il Mezzogiorno d'Italia era floridissimo, ancor più sotto Roma e comunque ricco nel Medioevo e nell'età moderna. Molta della decadenza recente è dovuta allo spostamento di capitali locali verso aree del Nord per investirsi nel settore finanziario.
4) Di fatto ciò si può esprimere con un assioma: gli evidenti difetti di accumulazione in Italia sono di tipo quantitativo, mai qualitativo. A prescindere dalle apparenze di un'esistenza miserabile e da sovrastrutture famigliari arcaiche, di fatto sul latifondo, che è una grande unità economica, viene impiegata molta manodopera salariata sia fissa che stagionale (outsourcing ante litteram).
5) Le politiche assegnatarie feudali congelavano il possesso dei terreni che comunque non erano in proprietà. L'assenza di rapporti feudali si misura dunque con la frequenza delle compravendite di terreni e fondi agricoli in piena proprietà: al Sud il mercato della terra è sempre stato più movimentato che al Nord.
6) La lotta risorgimentale della borghesia italiana aveva come fine l'unità territoriale e non l'abbattimento di un modo di produzione arcaico. È un errore madornale insistere su di un capitalismo "prussiano" d'Italia. In Prussia effettivamente c'erano non solo "residui" ma vere e proprie strutture operanti di tipo feudale, mentre qui da secoli c'erano "cittadini di un sistema giuridico statale moderno".
7) Mentre in quasi tutti gli staterelli tedeschi, fino alla "rivoluzione dall'alto" di Bismarck, sopravviveva un effettivo rapporto feudale in quanto il signore locale aveva poteri di giurisdizione (il banno) su veri e propri sudditi, nel Mezzogiorno d'Italia, ben prima della Rivoluzione Francese, Normanni, Svevi, Angioini e Aragonesi avevano impostato una magistratura statale rispolverando il diritto romano. Se i signori locali avevano preteso giurisdizione, erano stati sconfitti anche militarmente dai rappresentanti del re o dell’imperatore.
8) La lotta politica fra le classi dimostra che nel Mezzogiorno, fin dai tempi di Federico di Svevia, il feudalesimo è stato combattuto e vinto dai poteri dello Stato. La Guerra dei Vespri (1282-1302) fu scatenata da una rivolta popolare nel contesto di uno scontro fra dinastie di invasori, ma in realtà la scintilla scatenante fu una reazione al rigurgito di feudalesimo d'importazione rappresentato da Carlo d'Angiò.
9) Nel sistema feudale troviamo tasse di ogni genere, da pagare al signore o ad altri (traghetti, ponti, dazi, ecc.), ma non esiste una imposta che i signori feudali debbano pagare allo Stato (anche perché lo "Stato feudale" non esiste). "Ma l'Italia è la terra regina dell'imposta fondiaria, possente istituto che, senza quasi parentesi, trae le sue radici dagli ordinamenti romani". In Italia, storicamente molto presto, l'imposta moderna allo Stato tartassa le rendite agrarie e drena capitale a favore dell'industria.
10) Dal punto di vista qualitativo, il capitalismo italiano è la conseguenza ultramoderna del capitalismo mercantile delle Repubbliche marinare al loro apice, di Venezia in particolare. Nate sulla base della produzione e degli scambi a lunga distanza, esse divennero corsare, bancarie, usuraie, mercanti di schiavi, politicanti e corrotte.
11) La Rivoluzione Francese non sarebbe mai riuscita a esportare dall'esterno nell'Italia del Sud il potere di Murat e la legge basata sul Codice napoleonico se ci fossero stati residui feudali. (Ancora oggi al Sud Marat è ricordato con simpatia, mentre i piemontesi di Bixio e Cialdini sono odiati). I Borboni, quando procederanno alla restaurazione, manterranno quasi intatta la legislazione rivoluzionaria importata.
12) Ogni forma sociale contiene al suo interno, a vari gradi, caratteri di quella precedente e di quella successiva. Nel nostro testo del 1954 Vulcano della produzione o palude del mercato si pone a meno del 50% il grado di purezza capitalistica dei maggiori paesi imperialisti. Quello italiano non arriverà forse a questa percentuale, ma è evidente che sarebbe sbagliato trarne conclusioni politiche interclassiste. Ogni modo di produzione maturo è monolitico, va studiato per i suoi caratteri dominanti e non per l'esistenza – magari non provata – di isole sottosviluppate. Le cosiddette zone depresse sono l'effetto degli spostamenti del Capitale non a causa di residui feudali ma della modernissima legge della rendita.
Moderno affarismo parassitario in grande stile
I meridionalisti alla Sereni, che citano persino le mafie come segno di persistenza feudale, non si rendono conto che anche con la coppola e il fucile a pallettoni gli impiegati del Capitale uccidono meno di un normale ciclo produttivo, e ovviamente di una guerra. Negli articoli citati si fa proprio l'esempio dei modernissimi effetti del capitale finanziario sulle dinamiche di sviluppo delle aree depresse. La famigerata Cassa per il Mezzogiorno, voragine in cui sono precipitate vagonate di denaro, è stato uno dei frutti della normale e quotidiana rapina sociale. È con simili strumenti che capitalisti industriali e finanziari, del Sud e del Nord, pianificano il drenaggio di capitali a favore di "piani di sviluppo" dei quali si fanno promotori e capoccia. Quando si vota la legge in Parlamento tutto è già stabilito: da chi tesse la rete delle complicità a chi distribuisce la torta pagando per il servizio ecc. Piano moderno che cozza contro l'antico? Macché, è il presunto antico che è modernissimo capitalismo parassitario.
Tutto ciò naturalmente fa aumentare le differenze fra aree dello stesso paese invece di livellarle. È insito nel capitalismo il differente sviluppo e la crescente disparità sociale. Esso anzi se ne alimenta, e così facendo l'aggrava. L'unità politica nazionale fu sinonimo di unità economica e formazione di un unitario mercato capitalistico, ma mise anche a confronto realtà produttive prima separate, per cui le più deboli soccombettero, alimentando l'esercito industriale di riserva e impoverendo le regioni annesse con la guerra. Le industrie siderurgica, tessile, mineraria e alimentare borboniche furono annientate dalla concorrenza di quelle del Nord, spesso attraverso pianificate operazioni scaturite dalla connivenza fra lobby industriali e parlamentari. Quando sbarcò Garibaldi, i borghesi meridionali si misero al servizio del nuovo regime per primi.
Sembrano "questioni" di lana caprina, ma indicano chiaramente da che parte si schierano i nostri avversari nello scontro di classe; il quale, è bene ribadirlo, non cessa mai di manifestarsi. La critica della nostra corrente non è solo denuncia di fesserie. Le "interpretazioni" interclassiste della storia sono tesi coerenti che bisogna saper collocare al loro giusto posto. Esse sono e saranno forze motrici della controrivoluzione. Se le "violenze" antiproletarie erano dovute alle "storture" di un capitalismo feroce e parassita, diventava automatica la reazione moralistica e imbelle contro le "offensive padronali", per cui le masse dovevano lottare in difesa… di un capitalismo meno trucido, più ragionevole. Oggi si direbbe "dal volto umano". La litania sull'offensiva padronale non è che una premessa per la ricerca di alleanze con una parte della borghesia contro l'altra, nell'infinito (finché esisterà il capitalismo) gioco delle partigianerie politiche e militari.