L'Italia nell'Europa feudale (3)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo
3. Marx e le Formen: dal comunismo al comunismo
Quando l'IMEL di Mosca dovette scegliere un titolo per la sezione dei Grundrisse sulle Formen, lo ricavò dagli appunti originali approdando a questo risultato: Forme che precedono la produzione capitalistica. Sul processo che precede la formazione del rapporto capitalistico o l'accumulazione originaria. Osserviamo a questo proposito: le forme che precedono sono, all'indietro, quella feudale, quella antico-classica quella asiatica e quella comunistica; il processo che precede la formazione del rapporto capitalistico è l'insieme di tutte le forme; l'accumulazione originaria è il punto di partenza del capitalismo. Sono tre cose diverse. Ha importanza? Forse non molta, ma noi, come si vedrà, partiamo dal presupposto della differenza e non dell'equivalenza.
Che il feudalesimo per Marx fosse da interpretare come fonte del capitalismo lo si desume anche dalle prime righe del capitolo sull'accumulazione originaria del Capitale e in una lettera di Marx del novembre 1877 in cui egli afferma che il capitalismo non è altro che una liberazione di elementi che già erano nel feudalesimo (cfr. Lettera alla redazione ecc.). Soffermiamoci un momento sul profondo significato di questa enunciazione e proviamo ad enumerare gli elementi d'informazione che ci trasmette:
1) ci avvisa che verranno trattate le forme che precedono quella capitalistica, non quelle che seguono la forma comunistica originaria, e nemmeno quelle che uniscono quest'ultima a quella futura. Scrivendo questa sezione dei Grundrisse, Marx si pone al livello capitalistico per poter analizzare tutto ciò che lo precede. Del resto l'aveva già scritto nella Introduzione a Per la critica dell'economia politica (1857): la forma denaro capitalistica, astratta, autonoma, forma fenomenica del valore, non è assimilabile a quella inventata dagli antichi Greci quando coniarono il primo dischetto d'oro. E ne possiamo capire tutto il percorso storico fino ad oggi unicamente se ci poniamo al livello del Capitale e non dell'oggetto aureo greco, perché quest'ultimo era sì equivalente universale, ma non raffrontava valori di scambio bensì valori d'uso.
2) L'analisi riguarda un processo, quindi una dinamica storica. Marx precisa che in termini generali si sta occupando della dissoluzione del rapporto del produttore con i suoi mezzi di produzione, a partire da quello originario, con la terra. Si tratta di un processo unico, dal comunismo di ieri al comunismo di domani, quindi l'obiettivo non è tanto quello di imbastire una tassonomia delle forme quanto quello di scovare le caratteristiche del comunismo sviluppato procedendo per esclusione delle categorie di proprietà che la storia ha fissato dopo il comunismo originario.
3) Il processo che precede l'accumulazione di tipo capitalistico passa attraverso un "capitalismo antico". Il quale ha tutte le caratteristiche apparenti di quello moderno (lavoro retribuito, vasto mercato, credito, produzione di massa, ecc.), ma non è capitalismo vero e proprio. Per diventarlo ha bisogno di una accumulazione originaria abbinata a una liberazione sistematica di forza-lavoro. Solo così il Denaro diventa Capitale.
Nella bibliografia che Marx si era preparato per scrivere le Formen sono elencati circa 50 libri, segno che egli dava molta importanza all'argomento. Come la maggior parte degli economisti, adopera il nome condiviso delle forme sociali o modi di produzione, ma, a differenza di costoro, insiste sul metodo, cerca testardamente la chiave materiale del succedersi delle forme stesse e la individua nella sopraddetta dissoluzione (punto 2). Da notare che la nostra stessa corrente, trattando l'argomento, si avvale della tassonomia consueta, elencando cinque forme. Vedremo però che ciò non basta per capire l'epoca che chiamiamo Medioevo, cui con molta approssimazione facciamo coincidere il modo di produzione feudale. Non basta, perché questa generalizzazione, utile per periodizzare la storia del divenire della società futura, non poggia su invarianti certi, e quindi dal punto di vista teoretico è persino sbagliata.
Invarianti poco netti, anzi, sfumati
Abbiamo visto in lavori precedenti che anche la grande transizione senza proprietà privata che va dal neolitico al cosiddetto "modo di produzione asiatico", pone problemi analoghi. Infatti non è possibile collocarla, nella scala storica, entro la forma antico-classica semplicemente chiamandola "variante". Per capire bene il metodo utilizzato da Marx è utile sottoporre la sua scaletta cronistorica delle forme sociali ad una indagine sull'invarianza della loro struttura interna. Ne ricaviamo una sintesi di questo genere:
- Forma comunistica originaria. Caratteri elementari e invarianti facilmente definibili. Possibile generalizzazione nel tempo e nello spazio, nel senso che troviamo società pienamente comunistiche in epoche separate da millenni e in aree lontane fra di loro migliaia di chilometri. L'arco temporale è vastissimo e va dalla preistoria al tardo neolitico, ad esempio alcuni siti proto-urbani dell'Anatolia risalenti a sei o sette millenni e alcuni insediamenti nordamericani dieci volte più recenti. La forma comunistica originaria resiste anche allo sviluppo della divisione tecnica del lavoro e del principio di autorità.
- Forma di transizione (dal neolitico al "modo di produzione asiatico"). In questo caso ci troviamo di fronte a rapporti economico-sociali spurii, fra i quali è problematico far emergere un'invarianza. Si tratta di società che presentano persistenze di antiche forme comunistiche cui si sovrappongono anticipazioni della forma successiva; in genere sono "omeostatiche", quindi evolvono o collassano per eventi esterni. Data la grande varietà nel tempo e nello spazio, sarebbe necessario trovare un attributo diverso da "asiatico". Questa forma conosce già complesse gerarchie che riflettono la divisione sociale del lavoro. Non esiste la proprietà privata, e quindi nemmeno lo Stato come pieno strumento di dominio classista.
- Forma antico-classica. Come nel caso del comunismo originario è possibile riscontrare caratteri elementari invarianti facilmente individuabili. La proprietà privata è codificata, la suddivisione in classi è netta, lo Stato è strumento della classe dominante, lo scambio avviene tramite denaro. Qualche difficoltà nell'individuazione di invarianti può sorgere quando andiamo ad analizzare strutture che sembrano già compiutamente capitalistiche (grande ricchezza, lavoro salariato di uomini liberi, produzione specifica per il mercato, credito, accumulazione, ecc.), ma non lo sono ancora.
- Forma feudale. Probabilmente tanto complessa da analizzare quanto quella cosiddetta asiatica, sia dal punto di vista della struttura materiale della produzione, distribuzione e riproduzione, sia dal punto di vista della sovrastruttura, della composizione di classe e dei rapporti giuridici, quindi dello Stato. Essa presenta al massimo grado persistenze, sovrapposizioni, anticipazioni. Sulla storiografia ha un enorme impatto la sua sovrastruttura politica, rispetto alla quale la struttura economica è fortemente autonoma. Tanto che il "feudalesimo" è la forma sociale in cui quella successiva, cioè il capitalismo, è più presente: non in quanto apparenza, come nella forma antico-classica; non in quanto anticipazione del futuro, bensì come forma già sviluppata entro un'altra forma.
Luoghi di produzione sviluppata ma non capitalista
La trasformazione che conduce dall'apparenza di capitalismo al capitalismo tout court, cioè dal patrimonio monetario al Capitale, è resa possibile non tanto dall'accumulazione – evidente in tutte le società che adottano ad un certo punto il denaro – quanto dalle condizioni di accumulazione, cioè in primo luogo dalla "produzione sociale e appropriazione privata" del prodotto. Ciò necessita della completa liberazione della forza-lavoro, e del suo ingresso sul mercato in quanto valore di scambio e non valore d'uso. Queste condizioni mancavano in uno schema puramente feudale. L'insieme che viene chiamato feudalesimo non poteva essere in grado di portare al capitalismo. Dovevano esserci, oltre ai lavoratori liberi, mezzi di sussistenza e materie prime, semilavorati, ecc. altrettanto liberi. Dalla caduta dell'Impero romano il processo storico che porta al feudalesimo, dice Marx, non è un risultato a sé ma un presupposto del Capitale. Il quale per svilupparsi aveva bisogno di dissolvere completamente l'unità fra il produttore e il suo mezzo di lavoro, terra attrezzi, macchine, animali. Le città antico-classiche erano già luoghi dove si producevano e scambiavano merci, dove queste si distribuivano in cambio di denaro, dove molto presto si erano formate banche, corporazioni, nuove classi urbane, e dove si era praticamente estinto il vecchio proletariato nullatenente e nullafacente, eterna spina nel fianco per imperatori romani obbligati ad escogitare forme efficaci di welfare, cioè distribuzione di pagnotte e di biglietti per il circo.
La dissoluzione decisiva era avvenuta, alla caduta dell'impero, soprattutto nelle campagne, con il distacco del contadino dalla terra in proprietà comune, con la trasformazione di quest'ultima in oggetto vendibile, prima nella forma di passaggio di beneficium concesso al titolare in cambio di denaro e non di servizio, poi proprio in quanto merce. Il capitalismo è una rivoluzione agraria: in un modello input-output di produzione-distribuzione solo la natura può fornire qualcosa in ingresso, mentre in uscita non può esservi altro che un equivalente trasformato, come ben avevano capito i fisiocratici. In tale modello pre-capitalistico è solo l'agricoltura che produce un surplus. Il salto al plusvalore capitalistico è stato difficilissimo e tormentato perché occorreva sostituire il lavoro della natura con il lavoro dell'uomo, o meglio, un particolare tipo liberamente vendibile di lavoro dell'uomo. Ci vollero secoli, dove più, dove meno. Ma, quando questo cambiamento incominciò a verificarsi, la società si trovò di fronte ad una biforcazione, una singolarità storica: anche se il linguaggio e la giurisprudenza continuarono a registrare condizioni antico-classiche o feudali, la produzione e distribuzione seguirono la via della riproduzione capitalistica allargata.
In tale contesto, a partire dalle città italiane, sorsero le industrie, come sviluppo delle manifatture, accanto alle corporazioni degli artigiani con bottega. E l'industria incominciò a minare le corporazioni sottraendo loro prima i lavoratori a domicilio e poi i garzoni. Ciò avvenne a partire dal settore tessile, dove molto presto filatrici, tessitrici e ricamatrici vennero raccolte in un unico ambiente nel quale utilizzavano macchine, strumenti e materie prime non più di proprietà individuale ma di un imprenditore, il quale a sua volta smise di essere anche mercante. Solo quando questo processo permise l'espansione a larga scala della prima industria, poterono nascere sia il capitalista che l'operaio, e ciò in Italia successe molto presto. Da quel momento il modo di produzione cambiò, e la nuova forma continuò la sua maturazione in una cornice che non appartenne più ai tempi. Osserva Marx: l'epoca della dissoluzione del modo di produzione antico-classico è nello stesso tempo un'epoca in cui il patrimonio monetario si è sviluppato con un'ampiezza tale che da prodotto del "capitalismo" antico diventa fattore di capitalismo moderno. La dissoluzione del denaro in quanto capitale inerte, tesaurizzato e utile solo alla compravendita di beni immobili, schiavi, o servizi come l'usura, dunque la sua mobilitazione attraverso l'impiego crescente di forza-lavoro, è la sua condanna a trasformarsi in Capitale. Altrimenti Roma, Bisanzio, ecc. avrebbero potuto diventare società capitalistiche e dare origine a una nuova storia. Forse è utile fare un esempio.
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Nel 1959 fu trovato vicino a Pompei, a Murecine, un complesso romano del I secolo d.C., dalle caratteristiche curiose. Aveva infatti una struttura da edificio pubblico ma lussuose decorazioni e rifiniture da ricca villa privata, dagli affreschi ai materiali da costruzione, dagli impianti idraulici alla distribuzione degli ambienti. Furono eseguiti degli scavi, strappati dai muri gli affreschi pregevoli, rilevate le planimetrie ed estratte dal fango 125 tavolette di legno cerato per 220 facciate con annotazioni molto rovinate. Anzi, dato che il loro spostamento ne provocava praticamente la distruzione, la maggior parte di esse fu infine lasciata dov'era. Negli anni successivi, sul complesso nel frattempo re-interrato, fu fatta passare un'autostrada. Nel 2000, in occasione di scavi per il suo ampliamento, il complesso è stato riportato alla luce e analizzato con tecniche moderne. Specialmente le famose tavolette che, lasciate nel fango, senza ossigeno si erano conservate.
I ricchi edifici erano di proprietà della famiglia dei Sulpici, grandi proprietari terrieri, mercanti di derrate e banchieri. Originari di Pozzuoli e residenti a Pompei, ben conosciuti da archeologi e storici, sembrava strano che possedessero una villa suburbana tanto lussuosa a 500 metri da casa loro. Infatti non era una villa. Il complesso di Murecine era appena stato acquistato ed era in corso di trasformazione in un qualcosa di ben più interessante rispetto all'uso originario, quale che fosse. Sarebbe infatti diventato una specie di albergo con un ristorante interno e uno distaccato, stazione di posta, edificio termale, magazzino, granaio, banca commerciale, camera di compensazione per i certificati di credito, archivio contabile, pronto soccorso. Il tutto collegato al porto internazionale di Pompei e naturalmente a tutte le attività che i Sulpici avevano in giro per l'Italia e presumibilmente per l'Impero. La "clientela" non era composta solo da gente di passaggio come in un albergo qualsiasi, bensì per la maggior parte da persone che seguivano i carichi di merce in viaggio per mare e per terra, negotiatores conosciuti dai padroni di casa e non certo ospitati in camerette (cubicola), come nelle tabernae, ma in alloggi con molto spazio a disposizione. E i ricchi avventori non erano pochi: dalle dimensioni della cucina e delle sale da pranzo (triclinia) si suppone che la struttura potesse ospitarne una sessantina.
Le tavolette di legno incerato, recuperate e tradotte, hanno rivelato la struttura dei traffici di cui erano gli elementi contrattuali. Esse registravano enormi quantità di denaro per i motivi più diversi, dai semplici prestiti bancari al tasso stabilito dalla legge, alle transazioni per somme considerevoli a tassi apparentemente di usura, tanto alti da essere illegali. Siccome i controllori dell'Impero su questo non scherzavano, si può supporre che oltre al tasso normale fosse registrato anche un servizio. Data la natura del luogo, un incrocio internazionale di traffici, in quegli edifici i nuovi padroni, banchieri trasferitisi da Pozzuoli, avrebbero offerto il servizio bancario di cui erano esperti, a quella scala internazionale che molti secoli dopo sarà tipica dei finanzieri "Lombardi". Avrebbero cioè effettuato la registrazione dei valori di merci scambiate a grandi distanze al fine di non muovere casse d'oro o d'argento per i pagamenti, eseguendo delle compensazioni presso fiduciari. Infatti i certificati per le somme versate o prelevate sono "firmati" da schiavi, liberti, popolani o famigli per conto dei clienti della banca, e quindi è da escludere che costoro si portassero appresso sacchi di monete.
Le cifre riguardano svariatissimi tipi di transazioni e vanno dalle poche centinaia di sesterzi del risparmio minuto alle centinaia di migliaia. Ad esempio, un certo Cinnamus, un liberto, ha la procura per prelevare 80.000 sesterzi per sé e 50.000 per il padrone; un altro personaggio ne ottiene 130.000 per un mutuo e così via.
Conti in banca
Ora, sappiamo dai prezziari di Pompei, che un sesterzio equivaleva a circa due chili di pane, due litri di vino da osteria, una prestazione erotica al lupanare, ecc., quindi il valore di quelle somme era notevole e pone un paio di problemi. Primo: dove li avrebbe messi il buon Cinnamus 130.000 sesterzi per portarseli a casa? Era almeno una tonnellata d'argento monetato. Secondo: durante il tragitto, quasi certamente su un carretto, non avrebbe potuto incontrarsi con dei rapinatori? Domande un po' ovvie che, tenendo conto dei traffici nel mondo romano, depongono a favore di un sistema bancario capillare, basato su scritture contabili e lettere di credito. Come dice uno dei decifratori: "Dietro ai documenti dell'archivio dei Sulpici si sentono pulsare i traffici del commercio marittimo del Mediterraneo" (cfr. Camodeca). Del resto sono proprio i grandi traffici, con relativi grandi spostamenti di denaro, a rendere avide le banche. E difatti le tavolette rivelano, oltre alle modalità dei grandi affari, tutto il piccolo mondo dei crediti al consumo concessi ai privati, proprio come ai correntisti di adesso: nonostante le cifre mosse dai ricchi mercanti, i mutui sub-prime del I secolo d.C. rappresentavano la percentuale più alta dei movimenti complessivi!
Per chiudere con l'esempio, va detto che una gran parte delle tavolette contiene anche frammenti di atti giudiziari, contratti, ecc. legati al commercio, segno che gli scambi avvenivano al riparo del diritto romano e non secondo la semplice lex mercatoria, cioè consuetudinaria, che ancora nel '500 vigeva nell'area mercantile anseatica nel Nord Europa. Uno dei contratti riguarda la fabbricazione e il commercio di medicinali e prevede un intervento della banca sulpicia per quanto riguarda il lato pecunia (denaro) mentre l'altro contraente si occuperà del lato opera (lavoro). Il decifratore commenta: "Questo tipo di societas è ben noto in diritto romano".
Tutto ciò sembra capitalismo, ma non lo è. Nonostante siano presenti tutti i meccanismi del capitalismo allo stadio maturo, ciò non è ancora sufficiente per far scattare la biforcazione, la singolarità rivoluzionaria. Il patrimonio monetario dell'antica Roma contribuì alla dissoluzione della forma antico-classica non perché trascese a capitale ma perché non riuscì a farlo. Per Marx non fu l'industria di una nuova forma a far collassare il vecchio sistema, bensì questa massa di denaro che non trovò altra via d'impiego che quella dell'acquisto di terre; esaltando così la già grandeggiante influenza della campagna sulle città, rappresentata dalle immense ville agrarie del basso impero. Al culmine della civiltà di Roma, la capitale aveva un milione di abitanti; Alessandria d'Egitto un milione e mezzo; il Nordafrica si riempiva di città-colonia; il limes dell'impero inglobava popolazioni barbare che a loro volta fondavano colonie sfruttando la concessione di un terzo delle terre in cambio di lealtà; l'esercito giunse a reclutare un milione e mezzo di uomini per un servizio di leva di 24 anni; c'erano accampamenti militari ovunque e sempre più spesso diventavano città. Sembrava un sistema urbano invincibile che pompava cibo dai granai di Sicilia, d'Africa e d'Eurasia e invece maturava dentro di sé il meccanismo che l'avrebbe distrutto. Il collasso finale fu dovuto, oltre che ovviamente alle continue invasioni barbariche, proprio alla impossibilità di sviluppare un sistema industriale ad ossatura del sistema imperiale. Perché non è il Capitale che rende possibile l'industria bensì l'industria che rende possibile il Capitale. Così non furono i barbari a minare l'Impero ma fu l'Impero minato a permettere il sopravvento dei barbari.