La socializzazione fascista e il comunismo (7)
7. L'integrazione totale
I Problemi del Lavoro
In seguito alla promulgazione delle cosiddette leggi fascistissime, che trasformano di fatto l'ordinamento giuridico del Regno d'Italia nel regime fascista, e alla dura repressione contro le Camere del Lavoro e le sedi sindacali (il 10 novembre 1926 i fascisti devastano la CdL di Milano e quella della FIOM a Torino), si apre una discussione all'interno dei gruppi dirigenti della CGL che porta, nel gennaio del 1927, alla decisione di sciogliere l'organizzazione.
Dalla Francia Bruno Buozzi e altri esuli dichiarano di non condividere tale scelta. I capi sindacalisti rimasti in Italia non si limitano a sciogliere l'organizzazione e a ritirarsi a vita privata: dirigenti come Baldesi e Calda hanno colloqui con Mussolini e Rossoni (già nel '23 vi erano stati degli abboccamenti con Mussolini e si era delineata una tendenza frontista all'interno della CGL), durante i quali mettono al corrente i gerarchi fascisti della volontà di fondare una rivista che si chiamerà I Problemi del Lavoro (diretta da Rinaldo Rigola e Ludovico D'Aragona). L'obiettivo, al solito, sarebbe quello di operare contro il fascismo incalzandolo da sinistra. Tanto per farsi un'idea della linea politica della rivista, nel primo numero (25 marzo 1927) si dice esplicitamente che la sostituzione dei sindacati con le corporazioni, tutto sommato, non è da valutarsi negativamente:
"Questo obiettivo dato di fatto sta a dimostrare che un principio ha vinto, sia pure col sacrificio di particolari concezioni e degli uomini che le incarnavano. Chi ha vissuto in tempi in cui il sindacalismo era avversato in principio, così dalla scienza economica come dalla politica, può fare dei raffronti. Più sindacalismo oggi di ieri, malgrado la guerra ai sindacati."
Certo, più sindacalismo "oggi di ieri", ma che tipo di sindacalismo? La fondazione della rivista e dell'associazione Studi del Lavoro è accettata dai fascisti, che hanno tutto l'interesse a dimostrare di essere tolleranti e aperti verso le istanze che arrivano dal mondo del lavoro.
I Problemi del Lavoro viene pubblicata dal 1927 al 1940. La rivista ha come scopo ufficiale quello di aiutare il sistema politico e istituzionale a concretizzare i postulati espressi dai vari patti e mira a dare un fondamento "socialista" allo stato fascista. Il gruppo dirigente dell'allora Confederazione del lavoro capitola dunque su tutta la linea inserendosi nel dibattito in corso nell'Italia fascista in merito alla realizzazione dei postulati contenuti nella Carta del Lavoro. Del resto il cedimento riguarda anche altri aspetti della politica fascista: ad esempio, si arriverà a giustificare le imprese coloniali e imperialiste del regime, sostenendo addirittura che l'Africa è un'appendice naturale dell'Italia.
La Carta del Lavoro
Arriviamo quindi, alla Carta del Lavoro (redatta da Carlo Costamagna, riveduta da Alfredo Rocco), varata il 21 aprile 1927. Il mondo industriale poteva dirsi soddisfatto della resa del gruppo dirigente della CGL e della progressiva istituzionalizzazione del sindacato. Non poteva dirsi soddisfatto il proletariato che in quegli anni doveva misurarsi con la famigerata rivalutazione della Lira a "quota 90", con l'aumento della disoccupazione e con l'abbassamento dei salari. In seguito all'impennata della disoccupazione c'era stata una migrazione, guidata dal governo, dal Veneto e dall'Emilia verso l'Agro Pontino dove erano in corso le famose bonifiche mussoliniane (una realistica descrizione romanzata è in Canale Mussolini di Antonio Pennacchi). Lo stato corporativo era intervenuto per attenuare i processi di impoverimento con grandi opere pubbliche che da un lato risanavano territori paludosi e dall'altro mettevano in moto nuovi cicli di accumulazione agraria locale. Mancavano ancora dieci anni alla pubblicazione del manifesto keynesiano e il capitalismo italiano sentiva già il bisogno di dare un assetto statale all'economia con notevoli investimenti in opere pubbliche.
Il contenuto sindacale della Carta del Lavoro doveva, tra l'altro, porre rimedio con miglioramenti normativi e assistenziali al processo di immiserimento della popolazione dovuto al fatto, confessato, che le corporazioni non riuscivano a far rispettare le decisioni presso le industrie, le quali di conseguenza si sentivano libere di tenere bassissimi i salari. A ciò si aggiungeva la rivalutazione della Lira, poco funzionale, riguardante solo una questione formale di prestigio; mentre l'Italia avrebbe, al contrario, avuto bisogno di svalutare per aumentare la competitività delle proprie merci sul mercato estero. Risultato, comunque, che si cercò di ottenere abbassando i salari con una riduzione tra il 10 e il 20%. Insomma, la Carta del Lavoro avrebbe dovuto compensare con un welfare ante litteram sia i sacrifici chiesti per aumentare il valore della moneta, sia la naturale tendenza dei capitalisti ad abbassare il salario al minimo permesso dal mercato della forza lavoro.
La Carta constava di 30 enunciazioni suddivise in 4 gruppi che riguardavano lo stato corporativo e la sua organizzazione, il contratto di lavoro e le garanzie del salario, gli uffici di collocamento e la previdenza, l'assistenza e l'educazione del popolo italiano.
Le enunciazioni fondamentali contemplavano la collaborazione di classe e l'armonia tra i diversi fattori della produzione, la preminenza dell'iniziativa privata sull'intervento statale in campo economico, la contrattazione collettiva sotto la regia del sindacato unico, e la magistratura del lavoro.
Il diritto-dovere al lavoro è messo in primo piano:
"Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato. Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale"
Con la Carta del Lavoro l'Italia diventava un paese capitalista all'avanguardia per le "garanzie" concesse ai suoi cittadini. Il sindacalismo fascista e le politiche del welfare nascono quasi contemporaneamente e, se hanno come risvolto quello di impedire la lotta di classe, dimostrano come il rivoluzionamento continuo dei rapporti di produzione non sia un semplice paragrafo nel Manifesto di Marx ma un'esigenza materiale che ha riflessi sulla sovrastruttura politica.
Insopprimibile lotta di classe
Nonostante i ripetuti tentativi del PNF di raggiungere la pace sociale, la lotta di classe non è certo sopita; gli industriali se ne infischiano delle leggi e i lavoratori si muovono di conseguenza, scioperando. Per Rossoni, l'esponente di primo piano della sinistra fascista, l'eccessiva autonomia concessa agli industriali provoca un disequilibrio sociale che a lungo andare può diventare pericoloso. Si verificano infatti importanti agitazioni operaie nel corso del 1927, e ancora una volta i sindacati fascisti si trovano sotto la pressione dei capitalisti da una parte e dei lavoratori dall'altra.
Rossoni arriva a minacciare gli industriali sostenendo che lo stato dovrebbe avocare a sé la proprietà delle grandi industrie per affidarne la gestione a funzionari stipendiati. A mali estremi, estremi rimedi: il capitalismo moderno ha dato troppo potere al capitale, con la conseguenza di permettergli la massima autonomizzazione rispetto ai suoi singoli possessori. Rossoni ha ragione. Dal punto di vista della salvezza del capitalismo sarebbe meglio che il capitalismo facesse a meno dei capitalisti. Ancora una volta l'Italietta sconquassata da scontri epocali, produce teoria di alto livello a disposizione del mondo: un capitalismo senza capitalisti si sta consolidando in Russia, e negli Stati Uniti appare una teoria sociale basata addirittura sulla nascita di una nuova classe "gestionale" formata esclusivamente da tecnici.
La minaccia di Rossoni è estremamente significativa, ma è in realtà un segno di debolezza: in fondo il fascismo non ha il potere e neppure il coraggio di essere radicale rispetto alle proprie origini. In una dinamica storica da tragedia infinita come quella degli anni '20, il sincretismo politico fra sindacalismo rivoluzionario, dannunzianesimo e corporativismo è la montagna che partorisce il topolino. Le premesse storiche sono più potenti di quanto sappiano raccogliere le componenti politiche. Dover riconoscere che di fronte al capitale che si autonomizza (come del resto previsto da Marx) lo stato non è in grado di disciplinare i singoli capitalisti, anzi permette loro di immiserire la osannata classe del lavoro, è una resa umiliante per i fascisti rimasti fedeli alle origini. Ma quale sarebbe la struttura del capitalismo-fascismo se davvero i capitalisti fossero sostituiti da funzionari stipendiati? Da notare che, nel caso di industrie sull'orlo del fallimento lo stato fascista requisisce già le fabbriche sostituendo i proprietari con tecnici che hanno il compito di rimetterle in sesto e presentarle di nuovo sul mercato. Rossoni dunque non fa un discorso personale ma esprime un dato di fatto: l'ondata rivoluzionaria ha perso la sua forza e la socializzazione dell'economia assume l'aspetto statale, accentrato e burocratico. In Italia e nella Russia dei soviet ciò è particolarmente visibile, ma anche, con qualche anno di ritardo, in Germania e negli Stati Uniti. In quest'ultimo paese il riflesso della socializzazione si manifesta con il movimento tecnocratico, uno sviluppo tutto americano delle premesse fasciste.
Tale movimento nasce dopo la Prima Guerra Mondiale negli Stati Uniti e si rafforza nei primi anni '30 sull'onda della grande crisi del '29 che, come ogni crisi, non fa che dimostrare come il capitalismo sia un modo di produzione transitorio: se vuole ritardare la sua fine, deve rivoluzionare sé stesso. La parola Technocracy è usata per la prima volta da un ingegnere californiano, William Henry Smyth, nel 1919, per descrivere una "democrazia industriale" da ottenere attraverso l'impiego di scienziati e tecnici al servizio della produzione. I lavoratori, sotto la guida dei tecnici, devono essere integrati nei processi decisionali. Ciò tramite scelte programmate o attraverso una rivoluzione.
I tecnocratici, a differenza dei fascisti, non danno vita a un movimento politico, propongono "semplicemente" di opporre alla disastrosa politica tradizionale un governo di tecnici che agisca sulla base di programmi scientifici, fondati sul calcolo con dati oggettivi. Non è da escludere che anche all'interno del corporativismo italiano degli anni '30 ci siano state delle spinte in questa direzione, ma se pure si sono manifestate, sono state schiacciate dagli interessi prevalenti di una borghesia miope, incapace di realizzare il suo stesso programma storico.
Il movimento tecnocratico sostiene che il tempo del capitalismo è finito e che bisogna passare da una misura basata sul valore-denaro a una basata su quantità fisiche. Nel 1936 Marion King Hubbert presenta sulla rivista Technocracy (serie A, n. 8) un articolo intitolato "Ore-uomo e distribuzione - Una quantità declinante", proprio per dimostrare l'efficienza di una contabilità senza rapporti di valore (proponeva il calcolo in base allo scambio di energia). Riprendendo, anche se non volutamente, il punto di vista marxista, secondo il quale la contabilità della società futura sarà basata su quantità fisiche, come ore di lavoro, numeri di oggetti e di persone, riguardanti il processo produttivo e distributivo, oppure, appunto, scambio di energia.
Corporativismo e managerialismo tra le due guerre sono tentativi del capitalismo di salvare sé stesso negando i caratteri che ne decretano oggettivamente la fine. Infatti, introducendo l'ipotesi di nuovi elementi di governo del fatto economico, il capitalismo si spinge al confine con una società completamente diversa. Lo shock rappresentato dalla crisi del '29 esorta a una maggiore programmazione economica, cioè a un maggiore intervento dello stato in economia. Si scrivono saggi come La burocratizzazione del mondo di Bruno Rizzi e La rivoluzione manageriale di James Burnham, che analizzano la posizione sociale dei manager, la loro marcia verso il potere e la trasformazione in corso nei rapporti di proprietà, necessaria a dare respiro al capitale. Per sopravvivere, il capitalismo è costretto a mutuare strutture centrali e organismi politici di governo adatti ad assecondare il processo di autonomizzazione del Capitale:
"Sulla traccia dello studio Proprietà e Capitale vediamo il fattore essenziale dell'attuale fase capitalista mondiale nell'impresa - quella edilizia ne fornisce un esempio suggestivo - che lavora senza sede e impianto proprio e stabile, con capitale minimo ma per un profitto massimo e può fare questo perché si è asservito lo Stato che distribuisce il capitale e incamera le perdite. Il funzionario non è figura centrale ma è semplice mediatore; di contro al corpo di funzionari di Stato vi è quello dei contro-uffici delle imprese dove pullulano consulenti di ogni specie e vegliano a piegare lo Stato agli interessi delle imprese." (Lezioni delle controrivoluzioni, PCInt. 1951)
Oggi il capitalismo di stato non è più quello in cui lo stato controllava l'economia ma quello in cui l'economia controlla lo stato. Giunta a quest'ultimo livello la società è in transizione.
Lo "sbloccamento" dei sindacati
Le discussioni nel PNF in merito alla realizzazione dello stato corporativo portano allo "sbloccamento" dei sindacati, poiché la Confederazione dei sindacati fascisti è ritenuta da Augusto Durati (segretario del partito) e da Giuseppe Bottai, un veicolo per la riproposizione della lotta di classe.
"Non è possibile contare su di una collaborazione corporativa delle classi e delle categorie, se tra le classi e le categorie si continua a mantenere il sistema del 'fronte unico' il quale, plausibile in un regime di lotta di classe, diventa illogico in un regime che vuole affermarsi nella restaurazione dell'unità dello Stato." (Giuseppe Bottai, Esperienza Corporativa. 1929 - 1934).
Per Bottai, la Confederazione dei sindacati fascisti era stata necessaria per inquadrare i lavoratori e debellare il sindacalismo di classe: raggiunto l'obiettivo bisognava voltare pagina. Uno Stato (sindacale) nello Stato non poteva essere accettato dal fascismo, che ormai da tempo si era allontanato dalle sue origini sindacaliste rivoluzionarie. Lo Stato doveva inglobare la società civile e non era tollerabile la persistenza di un sindacalismo che, nonostante l'assetto corporativo e pacificatore, era ancora basato sul confronto fra le classi. In nome di un ulteriore perfezionamento dello stato corporativo viene quindi deciso lo smembramento del sindacato fascista, una forza che raccoglie almeno due milioni di iscritti. Il 21 novembre del 1928 è la data dello "sbloccamento": tutte le federazioni provinciali che compongono la Confederazione sindacale fascista vengono trasformate in confederazioni e unioni provinciali autonome le une dalle altre. Si formano 13 Confederazioni nazionali, sei dei lavoratori e sei dei datori di lavoro più una dei liberi professionisti.
E siccome oltre al confronto fra classi tende a persistere anche l'unione fra proletari, pericolosa anticamera del movimento politico, il regime pensa bene di dividerli:
"La borghesia sente che, finché si può tenere il proletariato sul terreno di esigenze immediate ed economiche che lo interessano categoria per categoria, si fa opera conservatrice evitando la formazione di quella pericolosa coscienza 'politica' che è la sola rivoluzionaria, perché mira al punto vulnerabile dell'avversario: il possesso del potere." ("Partito e classe", Rassegna Comunista del 15 aprile 1921).
Frammentato e separato, il proletariato non ha nessuna forza, sembra sparire addirittura come classe. Lo "sbloccamento" annichilisce il dispiegarsi dell'azione sindacale e, annientato il sindacalismo "rosso", viene meno anche la necessità di quello "nero". Poiché gli operai sono rappresentati solo dalle corporazioni, non hanno ora alcuna possibilità di organizzarsi autonomamente e far valere le proprie rivendicazioni: le corporazioni sono gli unici organismi di collegamento tra il governo e i gruppi industriali, e dal 1939 la Camera dei deputati è sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il periodo che va dal 1928 alla caduta del regime vede uscire di scena il sindacalismo, ma il fascismo si vanterà di aver costruito una serie di "garanzie" che ancora oggi alcuni settori della sinistra parlamentare e non, rimpiangono e vogliono preservare. Elenchiamole:
- - ferie pagate;
- - indennità di licenziamento;
- - conservazione del posto in caso di malattia;
- - divieto di licenziamento in caso di maternità;
- - assegni familiari;
- - diffusione delle casse mutue aziendali;
- - assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro.
Se dallo "sbloccamento" dei sindacati alla legislazione sull'ordinamento corporativo (1934), non accade nulla di rilevante dal punto di vista delle lotte operaie, abbiamo però la formulazione di curiose teorie politiche: durante il secondo Convegno di studi sindacali e corporativi che si tiene a Ferrara nel '32, il filosofo Ugo Spirito presenta la sua teoria per una "corporazione proprietaria": il controllo del capitale sarebbe dovuto passare dagli azionisti (soggetto passivo per quanto riguarda produttività e lavoro) ai lavoratori dell'azienda, mentre la proprietà dei mezzi di produzione, e quindi dell'azienda, sarebbe stata prerogativa della corporazione.
Questa teoria viene illustrata nel suo libro Capitalismo e corporativismo, pubblicato nel 1933, in cui si affronta anche il tema della separazione tra proprietà e controllo nelle grandi società per azioni. Guarda caso, negli stessi anni in Francia nasce il "planismo", una teoria economica secondo la quale attraverso la pianificazione si può cambiare la società, o per lo meno contrastare gli effetti perversi del capitalismo, e che influenzò socialisti, sindacalisti e fascisti. Al convegno ferrarese partecipò anche il sociologo ed economista tedesco Werner Sombart, che in quella sede disse: "Stato e Nazione sono due potenze e l'economia dovrà sottostare alla forza politica. Anche in Russia si manifesta la stessa tendenza; ma il primo paese a muovere i passi sulla strada nuova è l'Italia." (L'avvenire del capitalismo, Introduzione di Alberto Ghislanzoni).
Un filo unico lega le teorie sindacaliste rivoluzionarie della UIL, il sansepolcrismo, il "sindacalismo integrale" di Rossoni, la Carta del Lavoro e il Manifesto di Verona (1943) redatto durante la Repubblica di Salò, in cui viene proposta la collaborazione all'interno di ogni azienda tra tecnici e operai per l'equa ripartizione degli utili:
"In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai cooperano intimamente (attraverso una conoscenza diretta della gestione) all'equa fissazione dei salari, nonché all'equa ripartizione degli utili, tra il fondo di riserva, il frutto di capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori . In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i consigli d'amministrazione con consigli di gestione, composti di tecnici e di operai, con un rappresentante dello Stato; in altre, ancora, in forma di cooperativa parasindacale." (Manifesto di Verona).
En passant : non bisogna dimenticare che in regime borghese le nazionalizzazioni delle imprese, la cogestione e la partecipazione alle scelte aziendali, di cui ancora oggi cianciano tanti sinistri, s'inquadrano in un processo di esasperazione ed accelerazione del ritmo di accumulazione capitalistica, e perciò di sfruttamento della forza lavoro.
Abbasso la repubblica borghese…
Finita la guerra, sconfitto il fascismo in "camicia nera", il corporativismo non scompare ma si presenta in una nuova veste, quello della ricostruzione post-bellica. D'altronde, se il fascismo è una necessità che emerge dal profondo della società capitalistica per darsi un ordine a fronte dell'enorme complessità raggiunta, tale processo non può che continuare ed evolversi aggiornando strumenti e metodi di intervento.
La breve esperienza della "CGL rossa" nel Sud Italia nel 1943-44, che si richiama al sindacalismo prefascista ed è in polemica con l'interclassismo, viene presto riassorbita dal ricostruito sindacato tricolore (cfr. L'altra Resistenza); e nemmeno le scissioni sindacali degli anni '40 e '50 che danno vita alla CISL e alla UIL rappresentano una rottura nel processo di sussunzione del sindacato nelle istituzioni borghesi, anzi, non fanno che rafforzare il processo stesso.
Può essere utile la lettura del libro di Pietro Neglie, Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla Cgil 1928-1948, che, come dice il titolo, mette in luce la continuità anche fisica tra corporativismo fascista e corporativismo demo-fascista, ovvero le molteplici relazioni che esistettero, durante il Ventennio e oltre, fra stalinisti italiani e fascisti, soprattutto in campo sindacale. Niente di nuovo per chi si richiama alla Sinistra: la nostra corrente in Abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua costituzione (1947), dichiarava senza mezzi termini che il processo di integrazione dei sindacati cominciato negli anni 20' lo stavano portando a termine i governi postfascisti:
"Il sindacato economico proibito nella prassi iniziale della rivoluzione borghese viene prima ammesso, poi corrotto, poi inquadrato nello Stato. Il gioco delle iniziative economiche che all'inizio deve per sacro canone (versione diretta di quello sgonfione della inviolabilità della persona) essere incontrollato, vede interventi sempre più fitti e diretti del potere politico, in nome dell'interesse sociale!"
Nell'articolo citato c'è una lucida descrizione del lascito del Ventennio: in quanto "realizzatore dialettico delle istanze riformiste" il fascismo sposta la forma sindacale dall'esterno delle istituzioni borghesi, all'interno di esse per una riforma. Con la Carta del Lavoro e con gli altri documenti fondamentali del regime i sindacati diventano una questione di stato. Non è strano che, con la vittoria degli Alleati e della resistenza antifascista, la nuova repubblica venga fondata sul lavoro, come recita l'articolo 1 della Costituzione, e che la forma corporativa sopravviva.
Dal punto di vista del proletariato, inteso come classe "per sé", non è una conquista il fatto che le organizzazioni dei lavoratori vengano riconosciute dalla borghesia: la via proletaria non è "entro" lo Stato. A maggior ragione, gli organismi di battaglia del proletariato non hanno nessun interesse ad essere riconosciuti dai capitalisti: essendo il sabotatore dell'investimento borghese, il proletariato in lotta non dialoga con le istituzioni della classe nemica, non accetta contratti che prevedano riduzioni salariali e licenziamenti, non accetta nuove sconfitte in cambio di fantomatiche promesse come la difesa dell'occupazione, gli investimenti produttivi o politiche monetarie per stimolare l'economia.
La tesi dell'integrazione del sindacato è una peculiarità della Sinistra Comunista "italiana", ma è interessante notare come alcuni storici arrivino a conclusioni simili, capitolando ideologicamente di fronte alla teoria rivoluzionaria. Ecco cosa scrive Alessio Gagliardi nel saggio Il corporativismo fascista:
"La […] costruzione del nuovo sistema sindacale [dopo la Seconda Guerra Mondiale] fu influenzata da residue eredità corporative: l'impossibilità di riproporre un sistema come quello costruito nei primi due decenni del secolo, basato sulla reciproca autonomia di Stato e organizzazioni di rappresentanza sociale, e, nel contempo, il riconoscimento istituzionale delle nuove organizzazioni sindacali, garantito da una legislazione che ne regolamentava la funzione e dall'inserimento nei processi di formazione delle decisioni in materia economica e sociale, rendevano inevitabile il delicato confronto con l'esperienza fascista."
Non si può far girare all'indietro la ruota della storia, impossibile riproporre l'esperienza dei primi del Novecento in cui, rispetto allo stato, le organizzazioni dei lavoratori avevano ancora una certa autonomia. Dall'inserimento dei sindacati nei processi di formazione delle decisioni in materia economica e politica non si torna al passato remoto. Non a caso, la Sinistra in Tendenze e socialismo (1947), afferma provocatoriamente che chi voglia essere progressista deve essere fascista: la successione infatti non è "fascismo, democrazia, socialismo – essa è invece: democrazia, fascismo, dittatura del proletariato ."