La Grande Socializzazione (1)

Dal cooperativismo socialdemocratico al corporativismo fascista, dal comunismo oggettivo della fabbrica alla comunità soggettiva del padrone illuminato: la borghesia alla ricerca di un governo globale e l'emergere di un piano di vita per la specie nonostante le sue forme negate.

"Il capitalismo degli ultimi decenni ha presentato caratteristiche ben note, inquadrate ne L'Imperialismo di Lenin. Queste nuove forme economiche di collegamento, di monopolio e di pianificazione lo hanno condotto a nuove forme sociali e politiche. La borghesia si è organizzata come classe sociale oltre che come classe politica; ha inoltre divisato di organizzare essa stessa il movimento proletario inserendolo nel suo Stato, e nei suoi piani, e come contropartita ha messo nei suoi programmi la gamma delle riforme tanto a lungo invocate dai capi gradualisti del proletariato." ("Tendenze e socialismo", Prometeo n. 5 del gennaio 1947)

"Il comunismo marxista si presenta nelle enunciazioni di principio come una critica e una negazione della democrazia […] È anche teoricamente importante dimostrare come per approfondire il solco tra socialismo e democrazia borghese, per ridare alla dottrina della rivoluzione proletaria il suo contenuto potentemente rivoluzionario smarrito nelle adulterazioni dei fornicatori con la democrazia borghese, non sia affatto necessario fondarsi su una revisione dei principi in senso idealista o neo-idealista, ma occorra semplicemente rifarsi alla posizione presa dai maestri del marxismo dinanzi all'inganno delle dottrine liberali e della filosofia borghese materialista." ("Il principio democratico", Rassegna Comunista n. 18 del 28 febbraio 1922)

"Il capitalismo di Stato cerca di lottare contro l'anarchia della produzione, ma poiché produce merci e si preoccupa di costi di produzione, non può farlo che esasperando il dispotismo aziendale sul salariato." ("Nel vortice della mercantile anarchia", Battaglia comunista n. 9 del 1952)

PRIMA PARTE

Il piano di produzione

Questa che segue è la continuazione del lavoro iniziato con l'articolo "La socializzazione fascista e il comunismo", pubblicato sul n. 42 della rivista, ed è frutto di più riunioni redazionali tenutesi a partire dal 2016. Dopo aver sviscerato il tema del sindacalismo fascista, dalla sua nascita dopo il primo dopoguerra fino alla legge sindacale del 1926 (che aboliva scioperi e serrate e riconosceva solo i sindacati fascisti) e allo "sbloccamento" della Confederazione fascista dei sindacati nel novembre del 1928 (sostituita da confederazioni e unioni provinciali autonome le une dalle altre), abbiamo ritenuto utile e necessario ampliare la nostra analisi studiando l'esperienza corporativa italiana lungo tutto il Ventennio e anche successivamente, allargando l'orizzonte ad altri paesi, per notare infine che si trattava di un fenomeno internazionale nel quale si intrecciavano molteplici correnti quali la tecnocrazia, il taylorismo, il fordismo, il planismo e l'economia programmata (o: a programma).

Se la prima rivoluzione industriale, descritta da Marx nel primo libro de Il Capitale, è quella del macchinismo, dell'automa meccanico, la successiva si caratterizza per la scienza dell'organizzazione, come nota Frederick Winslow Taylor nel suo The Principles of Scientific Management del 1911.

Nel corso del nostro studio abbiamo avuto modo di analizzare le esperienze corporative affermatesi dopo il Secondo dopoguerra, le moderne forme di corporation e azionariato diffuso, l'esperimento politico di Comunità di Adriano Olivetti e le proposte di Aurelio Peccei sui governi tecnici e, infine, l’importante studio del Club di Roma sui limiti dello sviluppo.

Negli articoli già comparsi sulla rivista, come "Operaio parziale e piano di produzione" (numero 1 di n+1), analizzando il succedersi delle forme sociali eravamo arrivati alla conclusione che la negazione della società attuale e l'affermazione di quella futura devono già essere inscritte nella società presente, indipendentemente dal grado di consapevolezza che gli uomini possano averne, esattamente com'è successo in tutta la storia dell'uomo da quando ha iniziato a produrre manufatti e a distinguersi così dal resto del regno animale. D'altronde, come dice Marx nei Grundrisse,

"se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società - così com'è - le condizioni materiali di produzione e di relazioni fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco".

È compito quindi dei comunisti, soprattutto in una fase controrivoluzionaria come quella che stiamo attraversando, scorgere all'interno del capitalismo così com'è, "i saggi di organizzazione futura comunistica" (Proprietà e Capitale, cap. XV). E mettere in luce tali manifestazioni perché esse dimostrano come da un modo di produzione moribondo si enuclei e si sviluppi in maniera del tutto naturale un nuovo modo di produzione.

All'interno del processo di produzione capitalistico, tra gli operai non vi sono scambi di valore ma solo passaggi di semilavorati. L'operaio parziale non produce alcuna merce, solo l'operaio complessivo produce merci. La produzione all'interno di una fabbrica capitalistica non soggiace alla legge del valore, la nega, avviene cioè senza passaggi di denaro, il quale serve fuori della fabbrica, dove il salario dell'operaio viene consumato per riprodurre la propria forza lavoro; e il profitto capitalistico, al netto del reddito del borghese, viene reinvestito per l'avvio di nuovi cicli di valorizzazione. La formula che riassume questi passaggi è quella classica marxista: denaro (D) - merce (M) – più denaro (D').

In forza della crescente socializzazione del lavoro, come nota Lenin nell'Imperialismo, i cartelli, i trust e i monopoli prendono il sopravvento sulle vecchie forme privatistiche e familistiche di conduzione dell'azienda. Arrivati a questo punto, il capitalismo è un involucro che non corrisponde più al suo contenuto. Esso deve saltare perché rappresenta un freno all'ulteriore sviluppo della forza produttiva sociale. Il XX secolo, con la grande socializzazione fascista, rappresenta da una parte un ostacolo all'avvento della società futura ma, allo stesso tempo, una trasformazione del capitalismo e l'avvio di un processo di superamento della proprietà privata individuale con la sostituzione dei vecchi capitani d'industria con funzionari stipendiati. Tema su cui la nostra corrente ritornerà in innumerevoli articoli nel Secondo dopoguerra, a cominciare da "Il ciclo storico dell'economia capitalistica" (Prometeo n. 5 del 1947):

"Il borghese non ha più la classica figura del capitano d'industria organizzatore e suscitatore di energie nuove in base a risorse e segreti della nuova tecnica, ad intelligente abilità organizzativa delle moderne forme di lavoro associato. Dio nella sua fabbrica, come nell'antico regime lo era il feudatario nelle sue terre, romantico creatore della fusione di energie tra il meccanismo di cui possiede il segreto ed i lavoratori che, prima del padrone devono in lui riconoscere il capo. Il direttore di fabbrica moderna è anche lui un salariato, più o meno cointeressato ai guadagni, un servo dorato, ma sempre un servo."

Il piano di produzione, che prima era chiuso nella singola unità produttiva, oggi tende a diventare universalmente valido grazie alla standardizzazione dei metodi, delle lavorazioni e dei processi lavorativi, per cui i collegamenti tra azienda e azienda sono sempre più fitti, come quelli tra gli individui all'interno della società, tanto che qualcuno ha osservato che si può considerare il dato di fatto dei sei gradi di separazione (Mark Buchanan, Nexus; Steven Strogatz, Sincronia) come se fosse una legge di natura. I presupposti materiali per passare a una superiore forma sociale ci sono tutti, quella che manca ovviamente è la rottura politica.

La tesi che cercheremo di dimostrare, basandoci sui lavori della Sinistra Comunista "italiana", ma anche su materiali bibliografici "esterni" alla corrente (in alcuni casi vere e proprie capitolazioni ideologiche della borghesia di fronte al marxismo), è la seguente: nel corso del Novecento tutto è stato già sperimentato in termini di salvaguardia del capitalismo, e una socializzazione ulteriore dopo quella fascista non può che essere quella comunista. La successione storica, come andiamo ripentendo da decenni, non è "fascismo, democrazia, socialismo bensì: democrazia, fascismo, dittatura del proletariato." ("Tendenze e socialismo", 1947)

C'è stato un unico New Deal

Ormai sono molti gli storici ad ammettere che il New Deal ("nuovo corso") non fu una particolarità degli Stati Uniti, un tipo di politica economica eccezionale, ma una strada che dovettero imboccare tutti i paesi più importanti, in Europa come in America Latina e in Asia, per contrastare gli effetti della Crisi del 1929. In quegli anni di profondo cambiamento, ogni paese prese spunto dalle misure cui ricorrevano gli altri, e si stabilì un dialogo internazionale su temi quali il taylorismo, il fordismo e la programmazione economica. Ovunque si reagì alla grande depressione con un'imponente mobilitazione dello Stato tesa alla razionalizzazione dell'economia, e, più in generale, della società, al fine di salvare il capitalismo da sé stesso. L'America svolse un ruolo di primo piano nel cercare di proporre delle soluzioni, anche perché era il paese imperialista emergente, e tra consumismo e nuove invenzioni tecniche stava per imporre a tutto il mondo il suo stile di vita, l'American way of life.

Si trattò comunque di un processo globale unico, come abbiamo messo in evidenza nella relazione "C'è stato un unico New Deal" durante un nostro incontro redazionale, e come hanno notato anche attenti studiosi borghesi, ad esempio Wolfgang Schivelbusch nel saggio Tre New Deal. Parallelismi fra gli Stati Uniti di Roosevelt, l'Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. 1933-1939, arrivando a conclusioni che ricordano quelle dell'articolo della nostra corrente "Il New Deal, o l'interventismo statale in difesa del grande capitale" (Prometeo, II serie, luglio 1952), dove è scritto che,

"nonostante le diversità di forma politica, il regime capitalista reagisce alle proprie crisi interne in modo unitario, con metodi di politica economica che accomunano democrazia e fascismo. Interventismo, dirigismo, gestione statale - queste che sono d'altra parte le classiche ricette di 'risanamento economico e sociale' del riformismo - sono aspetti comuni di ogni regime politico borghese nella fase di massima esasperazione dei suoi contrasti interni, espressioni convergenti sul piano internazionale della politica di conservazione capitalistica."

Al di là del fatto che un regime borghese si presenti in veste democratica oppure in camicia nera, il capitalismo, raggiunta una certa fase di sviluppo delle forze produttive, adotta inevitabilmente metodi di governo politico ed economico simili.

Per fare scienza in ambito sociale è fondamentale saper cogliere invarianza e trasformazione tra i vari modi di produzione e all'interno degli stessi ("Struttura frattale delle rivoluzioni", n+1, n. 26). La natura stessa che ci circonda non sarebbe altrimenti neppure conoscibile. Con un approccio differente ogni discorso sul comunismo sarebbe puro esercizio filosofico, ideologia ("Leggi d'invarianza", n+1, n. 0). Così come lo è, ad esempio, l'antitesi fascismo/antifascismo se non vi si ravvisa e si mette in luce lo scontro imperialistico tra il blocco italo-tedesco e lo schieramento avversario anglo-americano. Se questo non si capisce, si rischia di schierarsi di fatto con una parte della società vecchia invece di combattere per una società nuova. Scriveva la nostra corrente:

"… il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l'antifascismo quale oggi lo vediamo, così può dirsi che la stessa caduta del fascismo, il 25 luglio '43, coprì nel medesimo tempo di vergogna il fascismo stesso, che non trovò nei suoi milioni di moschetti un proiettile pronto ad essere sparato per la difesa del Duce, ed il movimento antifascista nelle sue varie sfumature, che nulla aveva osato dieci minuti prima del crollo, nemmeno quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il merito." ("La classe dominante italiana e il suo stato nazionale", Prometeo n. 2 del 1946)

La grande crisi e le sue conseguenze

Alla fine della Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti sono la prima potenza economica. Usciti vincitori dalla guerra avevano raggiunto i livelli di ricchezza più alti al mondo. Negli Usa, nel corso degli anni Venti, l'investimento in borsa cresceva a livelli mai visti prima, diventando un fenomeno di massa, anche perché il prezzo delle azioni tendeva a salire sempre più e il meccanismo si auto-amplificava. Dal 1927 al 1929 il prezzo delle azioni era quasi raddoppiato, spingendo alla corsa all'investimento in borsa; ma la crescita dei valori borsistici non poteva durare all'infinito:

"Sembra indiscusso, modificando un famoso luogo comune, che nel 1929 l'economia era fondamentalmente malsana. […] L'economia si era infiacchita all'inizio dell'estate molto prima del tracollo. […] La produzione industriale, per il momento aveva superato la domanda dei beni di consumo e d'investimento." (J. K. Galbraith, Il Grande crollo, 1991)

E mentre i profitti dei capitalisti calavano per le vendite mancate o sottocosto, lo spostamento dei capitali dalla produzione alla speculazione faceva crescere il prezzo delle azioni. Questo saliva spinto dalla certezza di ulteriori rialzi, fino a che la bolla speculativa non si gonfiò oltre misura e infine scoppiò. Il 24 ottobre del 1929 fu il famoso giovedì nero in cui si verificò il crollo di Wall Street e l'inizio di quella che fu chiamata la Grande Depressione. Di fronte a questo tracollo, finanziario, borsistico ed economico, la sovrastruttura politica borghese americana si trovò del tutto impreparata a gestire una situazione divenuta tragica e che sembrava protrarsi senza sbocco.

Le elezioni del 1932 portarono alla vittoria il candidato democratico Franklin Delano Roosevelt, il quale aveva impostato tutta la sua campagna elettorale sul cosiddetto New Deal, proponendo, di fronte a una emergenza di carattere sociale, un nuovo indirizzo economico, e cioè un piano di interventi statali per risollevare il paese, accompagnato da un protezionismo commerciale volto alla salvaguarda delle aziende americane.

La legge bancaria del 1933, nota come Glass-Steagall Act, che portò alla costituzione della Federal Deposit Insurance Corporation, cominciò con il garantire i depositi in modo da prevenire corse allo sportello, e introdusse la separazione tra attività bancaria commerciale e d'affari al fine di controllare il fenomeno della speculazione finanziaria.

In merito al nuovo corso inaugurato dal presidente Roosevelt, che ancora oggi molti sinistri prendono come esempio e vorrebbero riproporre (si pensi al Green New Deal proposto dalla sinistra del partito democratico Usa), l'articolo di Prometeo del '52 è molto chiaro:

"Se progresso c'è, o teorici dell'intermedismo, è solo nelle armi di difesa del capitalismo, nella teoria e nella pratica della controrivoluzione. Quanto alle diversità di sovrastruttura politica, che danno una parvenza di giustificazione all'antitesi democrazia-fascismo con tutte le sue conseguenze sul terreno politico e militare, esse hanno radice unicamente in diversi rapporti di forza fra le classi."

Ritornando al saggio Tre New Deal, secondo Schivelbusch ci sono voluti alcuni decenni dopo il secondo conflitto mondiale perché gli storici potessero incominciare ad analizzare liberamente l'argomento giungendo a fare dei parallelismi tra i vari paesi e a rilevare le sincronie. L'antifascismo ha rappresentato un ostacolo alla ricerca comparativa sulla programmazione economica negli anni Trenta e ancora oggi c'è chi crede che il fascismo sia stato "reazione agraria" e non invece espressione moderna del capitale monopolistico. Niente di cui stupirsi, se è per questo oggi ci sono pure i "terrapiattisti", che sono profondamente convinti della forma bidimensionale della Terra.

Invarianze 1

Negli anni Settanta e Ottanta alcuni storici incominciano ad analizzare gli elementi di socializzazione presenti nel fascismo (nel quale la nostra corrente vedeva materialisticamente il realizzatore dialettico delle istanze riformiste del socialismo) ed escono studi interessanti, come L'estetica della politica. Europa e America negli anni Trenta di Maurizio Vaudagna e L'America, Mussolini e il fascismo di John Patrick Diggins. Nel clima democratico resistenziale lavori come questi subiscono un certo oscuramento, eppure negli anni Venti e Trenta, prima dell'invasione italiana dell'Etiopia e del coinvolgimento italo-tedesco nella guerra civile spagnola, era normale per i giornalisti e gli osservatori politici fare dei parallelismi tra i vari dirigismi statali, quello europeo, quello americano e quello russo.

Con la Seconda guerra mondiale entra in gioco la mistificante ideologia antifascista e Schivelbusch nel saggio Tre New Deal nota che,

"il ricor­do delle comuni radici dei vari New Deal venne rimosso e l'America del dopoguerra poté liberamente approfitta­re del mito di una Immacolata Concezione riguardo alla nascita del­lo stato sociale. Quel sincronismo ebbe fine con l'ingresso americano in guerra e con la vittoria degli Alleati sul fascismo e il nazismo. Il nome di Roosevelt non fu più accostato a quelli di Hitler, Mussolini e Stalin, ed egli fu a posteriori considerato il santo patrono della democrazia liberale, nella sua lotta trionfante contro le forze del male."

C'è molta ideologia nel voler contrapporre la Germania e l'Italia degli anni Trenta agli Stati Uniti, si pensi alla recensione che Mussolini scrisse al libro Guardando nel futuro di Roosevelt, pubblicata sul Popolo d'Italia del 7 luglio 1933:

"L'appello alla risolutezza e alla sobrietà virile della gioventù nazionale, con cui Roosevelt esorta qui alla lotta i suoi elettori, ricorda i modi e i mezzi con cui il fascismo ha ridestato il popolo italiano."

Il Duce esprimeva viva ammirazione per come Roosevelt si fosse liberato dai dogmi del liberalismo economico, anteponendo l'interesse nazionale agli interessi particolari dei gruppi e degli individui, e riceveva reciproca stima da parte della stampa americana:

"Scorrendo i giudizi apparsi in più organi di stampa (dal New York Times al Wall Street Journal, dal Chicago Tribune al New York Herald, dal Daily News all'Herald Tribune), raccolti all'inizio degli anni Trenta da Eugenio Coselschi in un libro intitolato Universalità del fascismo, si riceve l'impressione di un consenso e di un'ammirazione diffusa, unanime e addirittura crescente negli anni del New Deal" ("Il sogno a stelle e strisce di Mussolini", in L'estetica della politica di Vaudagna).

La contrapposizione è da ricercarsi dunque non tanto, a livello ideologico sovrastrutturale, in un presunto scontro di natura etica tra totalitarismo e democrazia quanto nello scontro fra interessi imperialistici. Gli stati capitalisti, compresa la Russia di Stalin, erano stati spinti dalla struttura materiale della produzione a procedere verso una specie di auto-pianificazione. Anche in Sud America, annota lo storico Kiran Klaus Patel, vi furono tentativi di pianificazione economica, come in Messico nel 1934, a Cuba e in Brasile nel 1937, in Cile e in Venezuela nel 1938.

In quanto vincitori del secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti riuscirono a riscrivere la storia, imponendo ai vinti il predominio della bandiera a stelle e strisce (aiutati dalla presenza di 725 installazioni militari nel mondo oltre alle 4.000 sul proprio territorio), e inaugurando il Secondo dopoguerra con un tentativo extra-nazionale di pianificazione, il Marshall Plan. Piano che, presentato pubblicamente come un aiuto all'Europa, era in realtà un'apertura di credito in dollari in modo che i paesi vinti potessero continuare ad acquistare manufatti e materie prime americane.

Il 1933 è un anno importante: Roosevelt e Hitler sono al governo, in Italia Mussolini fonda i CAUR, acronimo di Comitati d'Azione per l'Universalità di Roma, che hanno lo scopo dichiarato di formare una rete fascista internazionale. La prima conferenza mondiale dei CAUR è convocata a Montreux il 16 dicembre 1934 e vi partecipano rappresentanti di organizzazioni fasciste di 13 paesi europei.

Negli Usa, il Congresso dà tutti i poteri a Roosevelt, come se il paese fosse in guerra. In effetti, quella che si stava combattendo era una vera e propria guerra per la salvaguardia del sistema capitalistico. Il Congresso degli Stati Uniti abdicava alla propria funzione legislativa, e l'unico strumento di controllo sul potere esecutivo restava la Corte Suprema, che sarebbe entrata in conflitto con l'amministrazione Roosevelt, dichiarando, nel 1935, incostituzionale il National Industrial Recovery Act, la legge che mirava alla limitazione della concorrenza attraverso il metodo dei cartelli industriali (la fissazione di prezzi minimi e il contingentamento della produzione). Il braccio di ferro tra l'amministrazione Roosevelt e la Corte Suprema fu vinto dalla prima che riuscì a limitare significativamente il potere dei giudici. Nello stesso anno venne emanato il Social Security Act, un moderno sistema di assistenza sociale che prevedeva l'erogazione delle indennità di disoccupazione e di vecchiaia, in linea con analoghi progetti attuati in Europa e in America Latina. Il Welfare State cambiò nel profondo la società americana riconoscendo ai cittadini dei nuovi diritti, e con ciò stabilendo dei nuovi doveri, verso lo Stato. Si trattò di un'esigenza terapeutica per il sistema capitalistico malato, e infatti si diffuse in tutto il mondo, perfezionandosi.

Invarianze 2

Il rapporto tra fascismo e "bolscevismo" è contraddittorio e non certo lineare: se da una parte Roma vuole dare un'immagine di sé diversa da quella di Mosca, dall'altra le missioni italiane in Russia sono molte e frequenti, finalizzate perlopiù a stabilire rapporti diplomatici e commerciali: è il tema che affronta Pier Luigi Bassignana nel saggio Fascisti nel paese dei soviet, analizzando tutta una serie di articoli scritti da giornalisti, ingegneri e politici fascisti (come Corrado Alvaro, Curzio Malaparte, Luigi Barzini, Arnaldo Cipolla, Gaetano Ciocca e Italo Balbo), sull'Unione Sovietica tra la fine degli anni Venti e la metà dei Trenta. Non mancano certo le critiche verso quella che i corporativisti italiani chiamano l'astratta programmazione di derivazione marxista, che trovava forma nel piano quinquennale, ma è spesso implicita l'ammirazione per il coinvolgimento della popolazione e lo spirito di sacrificio dimostrato dai cittadini russi.

L'Italia fu uno dei primi paesi a riconoscere l'Unione Sovietica, già dal 1924. Gaetano Ciocca, ingegnere e saggista italiano, nel suo Giudizio sul bolscevismo, frutto dei suoi viaggi in Russia, scrisse:

"L'Italia è forse l'unica nazione alla quale in URSS è dato un posto a parte. Più di una volta ho udito persone molto in alto nella politica, a quattr'occhi, esprimere una sconfinata ammirazione per Mussolini, che è riconosciuto come il sostenitore dello spiritualismo contro l'imperversare del materialismo. Non ho visto mai nei cortei, almeno dopo il 1930, una caricatura di Mussolini o uno sfregio all'Italia. I più presi di mira sono l'alta finanza e la socialdemocrazia, alla pari."

Se alcuni teorici di primo piano del corporativismo come Giuseppe Bottai e Ugo Spirito videro delle forti similitudini tra l'esperimento russo e quello italiano per quanto riguarda il superamento del laissez-faire, anche gli scrittori e i giornalisti italiani che visitarono lo "stato comunista" riportarono notizie positive sull'andamento dell'economia e sugli sviluppi dell'industrialismo. Interessante, ad esempio, il libro del fascista Renzo Bertoni, Russia: trionfo del fascismo, pubblicato in Italia nel 1933, dopo un anno trascorso in quel paese, e in cui scrive:

"La propaganda fascista nel mondo non deve solo limitarsi a dire ciò che è il Fascismo, e quali sono le deficienze della vecchia società; oggi il Fascismo può condurre una propaganda offensiva anche nei riguardi del Comunismo; deve far risaltare la sua netta vittoria su di esso, quali sono i punti antitetici delle due rivoluzioni. Perché il Kremlino abbandona a poco a poco i suoi dogmi e si orienta sempre più verso il Fascismo, pur dichiarandosi ancora 'comunista', si deve impedire che Mosca con la sua formidabile propaganda riesca a far chiamare 'Comunista' o 'Leninista' o 'Stalinista' quello che è sostanzialmente, inconfondibilmente 'Fascista'."

La gigantesca mobilitazione di forze umane (militarizzazione del lavoro) e tecniche finalizzata alla realizzazione del primo piano quinquennale destava curiosità un po' ovunque. Il gerarca Italo Balbo fu in Russia nel 1929, al fine di stabilire contatti di natura commerciale, e ne rimase favorevolmente colpito, riscontrandovi una certa popolarità del capo del governo italiano e una mancanza di avversione nei confronti del fascismo. Stesso discorso vale per Curzio Malaparte (direttore del quotidiano La Stampa) che, nello stesso anno, visitò la "patria del socialismo" e arrivò alla conclusione che bisognava studiare con attenzione quanto lì si stava facendo, soprattutto per quanto riguardava l'ordine, la disciplina e la gerarchia, che tenevano le masse operaie unite al loro governo.

Per Malaparte, il potere bolscevico rispondeva alle caratteristiche specifiche del popolo russo, come il fascismo rispondeva a quelle del popolo italiano, ma entrambe le forme di governo avevano molto in comune. E infatti dal 1929 al 1931 il giornale La Stampa (controllato dal gruppo Fiat) dava ampio spazio alle notizie provenienti dall'Unione Sovietica, preparando il terreno per la stipulazione di proficui accordi di natura commerciale. Alla Russia servivano manufatti e semilavorati per l'industrializzazione a tappe forzate del paese, all'Italia andava bene penetrare in un mercato emergente per esportare i propri capitali e le proprie merci. Proprio a Mosca, nel 1932, viene terminata la costruzione del primo stabilimento russo di cuscinetti a sfera per opera dell'azienda RIV (acronimo di Roberto Incerti & C. - Villar Perosa), controllata della famiglia Agnelli, intitolato alla figura di uno dei più stretti collaboratori di Stalin, Lazar’ Moiseevič Kaganovič. Gli accordi commerciali tra Italia e Russia riguardavano anche l'addestramento di decine di tecnici russi in Italia.

Gaetano Ciocca, che aveva presieduto i lavori per la costruzione dello stabilimento RIV, nel suo libro Giudizio sul bolscevismo, critica nel governo russo l'ammirazione eccessiva per la macchina e l'americanismo, l'eccessiva rigidità e lo schematismo ideologico, ma ha parole di viva ammirazione per il sacrificio delle masse russe in vista di un avvenire migliore.

Forse la figura più significativa del legame tra fascismo e "bolscevismo" è quella di Nicola Bombacci, uno dei fondatori del PCd'I nel 1921, espulso dal partito e avvicinatosi al fascismo, il quale voleva unire le due rivoluzioni in una prospettiva anticapitalista. Egli si adoperò in prima persona per l'avvio di rapporti politici e commerciali tra Mosca e Roma, prima delle iniziative di Agnelli e Balbo, e lavorò per gettare un ponte politico tra Est ed Ovest. Nella rivista di Bombacci, La Verità, Walter Mocchi, un suo collaboratore, il 13 ottobre 1940 scriveva:

"Eppure giorno verrà, in cui il soviet, permeandosi di spirito gerarchico, e la corporazione di risoluta anima rivoluzionaria, si incontreranno sopra un terreno di redenzione sociale."

Invarianze 3

Studiando la materia da più angolazioni, se riusciamo a deporre le lenti dell'ideologia, balzano subito agli occhi, oltre alle invarianze politiche ed economiche, altre invarianze. È significativo confrontare per esempio, le diverse espressioni nazionali dal punto di vista stilistico/estetico (foto 15, 16, 23, 25, 26, 27, 28, 29). In architettura, nel corso degli anni Trenta nasce l'International Style (che prende il nome da una mostra al Museum of Modern Art di New York del 1932), si afferma il modernismo, e si impone il gusto per la monumentalità neoclassica che, a vari gradi di intensità, interessa la Germania, la Francia, gli Stati Uniti, l'Italia e vari altri paesi.

Foto 15. Commerce Court North, TorontoFoto 15. Commerce Court North, Toronto
Foto 16. City Hall, BuffaloFoto 16. City Hall, Buffalo
Foto 23. Hotel Mosca, MoscaFoto 23. Hotel Mosca, Mosca
Foto 25. Accademia militare, MoscaFoto 25. Accademia militare, Mosca
Foto 26. Casa Bianca, MoscaFoto 26. Casa Bianca, Mosca
Foto 27. Hotel Ucraina, MoscaFoto 27. Hotel Ucraina, Mosca
Foto 28. Casa dei Soviet, San PietroburgoFoto 28. Casa dei Soviet, San Pietroburgo
Foto 29. Ministero degli esteri, MoscaFoto 29. Ministero degli esteri, Mosca

Storici come il citato Schivelbusch, approfondendo l'argomento, sono arrivati a conclusioni interessanti, notando che in architettura si possono rilevare almeno due tipi di fascismo: uno con spiccati elementi di modernità, in connessione con il Movimento Moderno che seguiva i principi del funzionalismo e del razionalismo, e uno più conservatore ispirato allo stile classico, e decisamente monumentale. Le due forme procedevano parallelamente ed erano l'espressione del vecchio che non voleva morire e del nuovo che faticava a nascere. Di qui il sovrapporsi, in alcuni progetti e realizzazioni pratiche, di uno stile moderno-razionale (che celebrava l'universalità della tecnica capitalistica) e di uno classico-monumentale (con cui ogni paese esaltava le proprie aspirazioni nazionalistiche).

Volendo ricordare alcuni esempi di monumentalismo "concorrenziale" pensiamo al neoclassico Palais de Chaillot (foto 8, 9). Il vecchio Trocadéro del 1878 fu fatto demolire dal governo della Terza Repubblica e al suo posto venne costruito per l'Esposizione universale a Parigi del 1937 il nuovo Palais, vicino al quale sorgeva il padiglione dell'Unione Sovietica (edificio alto oltre 30 metri, sormontato da una colossale statua alta 25, rappresentante un operaio e una contadina che reggono la falce e il martello); e quello altrettanto imponente della Germania nazista (altissimo parallelepipedo di marmo bianco, alla cui sommità svettavano una grande aquila e una svastica), progettato dall'architetto Albert Speer.

Foto 8. Palais de Chaillot, ParigiFoto 8. Palais de Chaillot, Parigi
Foto 9. Palais de Chaillot, ParigiFoto 9. Palais de Chaillot, Parigi

Spostandoci negli Usa, osserviamo le forme degli edifici della Federal Triangle di Washington, uno dei più grandi progetti mai intrapresi negli anni Trenta, oppure quelle del palazzo della Federal Reserve (1937) o della National Gallery (1941).

Tali costruzioni (foto 17, 18, 19) volevano rappresentare la potenza dello Stato come fattore di ordine politico ed economico. Secondo lo storico Kiran Klaus Patel (Il New Deal: una storia globale), durante gli anni Trenta,

"nel tentativo di trovare il modo migliore per superare la crisi della democrazia e del capitalismo, sistemi politici fondamentalmente diversi fecero consapevole ricorso al medesimo gergo architettonico: per usare altri termini, era impossibile dedurre il contenuto a partire dalla forma."

Ci permettiamo di dissentire su quest'ultima affermazione: la forma rispecchiava esattamente il contenuto! Che nella sostanza è per noi definibile con lo stesso termine: fascismo. Ogni paese "copiava" l'altro e, nello stesso tempo, con esso era in competizione, in una gara manifesta di potere.

Foto 17. Federal Reserve, WashingtonFoto 17. Federal Reserve, Washington
Foto 18. Lincoln Memorial, WashingtonFoto 18. Lincoln Memorial, Washington
Foto 19. United States Capitol, WashingtonFoto 19. United States Capitol, Washington

Ricordiamo ancora il progetto - mai realizzato - del palazzo dei Soviet (foto 24), che avrebbe dovuto raggiungere i 400 metri di altezza e sarebbe stato completato da un'imponente statua di Lenin sulla sommità della struttura. Come mole avrebbe gareggiato con il Palazzo del Popolo (Volkshalle, foto 10), che prendeva a modello il Pantheon di Roma, e che avrebbe dovuto essere costruito a Berlino da Albert Speer (curiosamente, tale edificio, che nella realtà non venne mai costruito, compare invece, ricostruito al computer, nella serie televisiva L'uomo nell'alto castello, tratta dal romanzo ucronico La svastica sul sole di Philip K. Dick, in cui tedeschi e giapponesi hanno vinto la Seconda guerra mondiale e dominano il mondo!). Le strutture monumentali pubbliche diventano scenografie per l'ostentazione del potere, come il Campo Zeppelin a Norimberga, ispirato all'altare di Pergamo (foto 11).

Foto 10. Volkshalle, BerlinoFoto 10. Volkshalle, Berlino
Foto 24. Progetto del palazzo dei SovietFoto 24. Progetto del palazzo dei Soviet
Foto 11. Campo Zeppelin a NorimbergaFoto 11. Campo Zeppelin a Norimberga

Se l'architettura tedesca "ufficiale" del periodo è perlopiù neoclassica e monumentale, e rispecchia fedelmente lo stile di governo nazista, in Italia invece spuntano qua e là esperimenti avanzati di modernismo, che riflettono, come vedremo, la particolarità dell'esperimento politico mussoliniano. Nel Belpaese sono presenti architetture in stile neoclassico e monumentale, ma si incontrano esempi di razionalismo che hanno molti punti in comune con il Bauhaus e con le avanguardie internazionali, come dimostrano ad esempio i progetti del "Gruppo dei 7" (Figini, Frette, Larco, Libera, Pollini, Rava, Terragni), secondo le cui convinzioni la nuova architettura doveva risultare da una stretta aderenza alla logica e alla razionalità. Tesi sostenuta per la prima volta a Roma nel 1928 al palazzo delle Esposizioni di via Nazionale con la I Esposizione di Architettura Razionale organizzata da Adalberto Libera e Gaetano Minnucci.

Questa mostra è la prima tappa di un percorso che porterà alla fondazione del MIAR, il Movimento Italiano per l'Architettura Razionale. Il quale, però, ebbe vita breve: venne sciolto nel 1931 in seguito alle critiche di cui fu oggetto dopo la II Esposizione Italiana di Architettura Razionale (dove fu presentata la "tavola degli orrori", collage di fotografie che metteva in ridicolo i maggiori esponenti dell'accademia romana, tra cui Piacentini), e in conseguenza del passaggio degli architetti Larco e Rava al RAMI (Raggruppamento Architetti Moderni Italiani), nato in contrapposizione al primo e più in linea con il regime. Successivamente a questi fatti, l'architettura razionalista cedette il posto all'architettura neoclassica, e l'opera di Piacentini rappresenterà una specie di sintesi tra le spinte moderniste e lo stile monumentale, che in Italia prenderà il nome di stile littorio.

Il palazzo di giustizia di Milano (foto 4) progettato da Piacentini ricorda quello della Federal Reserve americana. Il Centro congressi dell'EUR di Roma, di Libera (foto 3), ha aspetti monumentali che si sovrappongono a marcati aspetti razionalisti. Torino Esposizioni, di Sottsass e Nervi e La Casa del Fascio di Como, di Giuseppe Terragni (foto 1), sono esempi di quanto fosse avanzato il razionalismo italiano.

Questa serie di architetture presenta senza alcun dubbio una compenetrazione di passato e futuro, assorbendo i differenti stili che si andavano affermando a livello internazionale. Il Novocomum, un complesso condominiale di Como, sempre di Terragni (foto 2), confessa l'influenza di modelli stilistici che provengono dall'avanguardia europea, ma anche dal costruttivismo sovietico.

Foto 4. Palazzo di Giustizia, MilanoFoto 4. Palazzo di Giustizia, Milano
Foto 3. Centro congressi dell'EUR, RomaFoto 3. Centro congressi dell'EUR, Roma
Foto 1. La Casa del Fascio, ComoFoto 1. La Casa del Fascio, Como
Foto 2. Novocomum, ComoFoto 2. Novocomum, Como

Gli architetti Figini e Pollini che facevano parte del Gruppo dei 7, progettarono la Casa elettrica per la IV Esposizione Triennale Internazionale delle Arti Decorative ed Industriali (1930), che ricorda più i progetti di Le Corbusier o Gropius che non quelli neoclassici: spazi aperti, grandi vetrate, compenetrazione con il territorio, giochi di luci tra interno ed esterno, un design veramente avveniristico.

Mosca o Chicago?

La mancanza di alternative di sistema coerenti spinge masse di uomini dal socialismo al fascismo con una certa facilità. Sembra addirittura che tra i due poli non ci siano grosse differenze, e che per entrambi conti più costruire uno stato forte attento agli interessi del "popolo" che non difendere gli interessi degli speculatori. Berto Ricci, ad esempio, esponente di una sinistra fascista che si definiva "realista" (Manifesto Realista, 1933), in antitesi all'idealismo accademico di Giovanni Gentile, che egli accusava di avere connotati piccolo-borghesi, guarda con vivo interesse all'esperimento rivoluzionario russo.

Nato a Firenze nel 1905, laureato in matematica a 21 anni, anarchico in gioventù, Ricci aderisce al fascismo credendo che sia il mezzo per arrivare alla formazione dell'uomo nuovo. Sostenitore di un fascismo "anticapitalista", si avvicina alla Scuola di mistica fascista, che vede i suoi maggiori dirigenti partire volontari per il fronte di guerra. Ricci morirà nel '41 in Libia, sotto il fuoco di un aereo inglese.

Nel corso della sua militanza fascista, fu accusato da Roberto Farinacci di filo-bolscevismo perché, scagliandosi nei suoi discorsi contro la borghesia ricca e oziosa, sosteneva che la Russia con la rivoluzione comunista aveva fatto del bene a sé stessa, così com'era successo all'Italia con la rivoluzione fascista, che si era liberata del vecchio liberalismo e aveva dato un calcio al socialismo riformista e democratoide:

"Noi italiani, che siamo anche noi una rivoluzione – e la maggiore – non possiamo sentirci più vicini a Londra parlamentare e conservatrice, a Parigi democratica e conservatrice che a Mosca comunista […] l'Anti-Roma c'è ma non è Mosca. Contro Roma, città dell'anima, sta Chicago, capitale del maiale". ("Roba da chiodi", Il Selvaggio, 15 dicembre 1927)

Il suo odio per la vecchia classe dirigente borghese lo spinse dunque a guardare con interesse all'esperienza bolscevica, e a giudicare del tutto negativa quella consumistica e materialista americana. Ricci continuò a sostenere una "rivoluzione perpetua" contro gli arrivisti e i trasformisti che si erano annidati all'interno del regime fascista, anche in posti di comando, inquinando il movimento, a suo dire, con valori, stili di vita e atteggiamenti che fascisti non erano, ma che ricordavano quelli borghesi e classisti. In uno dei suoi "Avvisi" su L'Universale del 10 febbraio 1935, scriveva:

"Finché il controllore ferroviario avrà un tono coi viaggiatori di prima classe, e un altro tono, leggermente diverso, con quelli di terza; finché l'usciere ministeriale si lascerà impressionare dal tipo 'commendatore' e passerà di corsa sotto il naso del tipo a 'povero diavolo', magari dicendo torno subito; finché l'agente municipale sarà cortesissimo e indulgentissimo con l'auto privata, un po' meno col taxi e quasi punto con quella marmaglia come noi, che osa ancora andare coi suoi piedi; finché il garbo nel chiedere i documenti sarà inversamente proporzionale alla miseria del vestiario; eccetera eccetera eccetera; finché insomma in Italia ci sarà del classismo, anche se fatto di sfumature spesso insensibili agli stessi interessati per lungo allenamento di generazioni; e finché il principale criterio nello stabilire la gerarchia sociale degli individui sarà il denaro o l'apparenza del denaro, secondo l'uso delle società nate dalla rivoluzione borghese, delle società mercantili, apolitiche ed antiguerriere; potremo dire e ripetere che c'è molto da fare per il Fascismo. Il che poi non è male. Non è male, a patto che lo si sappia bene."

Ricci, il "fascista eretico", ambiva a mantenere vivo lo spirito iniziale del fascismo, quello di San Sepolcro, del sindacalismo rivoluzionario, di Proudhon, di Sorel e della dannunziana Carta del Carnaro, ma per quanto realista volesse essere risultò anch'egli un idealista: invece di essere antiborghese, il movimento che aveva sostenuto e per cui era morto, era stato lo strumento

"con cui la borghesia italiana sia delle città che delle campagne organizzò la risposta alla situazione del primo dopoguerra, quando lo schieramento autonomo proletario apparve poter divenire da teorico anche di azione, non per ritogliere i vantaggi economici e assistenziali a carico della classe abbiente, che anzi estese e consolidò, ma per tagliare la strada all'organizzazione del proletariato in partito diretto ad attaccare e rovesciare l'ordine statale." (A. Bordiga, "Meridionalismo e moralismo", Programma comunista, 1954)

Mosca o Roma?

La comparazione tra Russia bolscevica e Italia fascista è il tema sviluppato in un articolo de Il Lavoratore del 17 gennaio 1923, "Mosca e Roma", a firma Amadeo Bordiga, in risposta a un articolo di Mussolini apparso sulla rivista Gerarchia. La domanda che viene posta nell'articolo de Il Lavoratore è la seguente:

"Il bolscevismo è un saggio di una politica che il proletariato tende ad attuare in tutti i paesi; può altrettanto dirsi del fascismo come metodo della classe borghese?"

L'abisso che separa il bolscevismo dal fascismo sta visibilmente nel loro rapporto nei confronti dello Stato: se il primo ha spezzato la vecchia macchina statale e vi ha sostituito il potere sovietico, il secondo, pur parlando di rivoluzione, non ha fatto altro che prendere il potere per riparare la macchina statale borghese, lasciandone formalmente intatti i meccanismi. Il fascismo non ha abolito il parlamento e la legge formale democratica, non ha proposto nulla di originale dal punto di vista teorico, ha mirato esclusivamente a potenziare la difesa del vecchio regime borghese.

Se in Russia la macchina statale è diretta da un partito che rappresenta la classe proletaria nella sua totalità, in Italia il fascismo unifica le sparpagliate forze della borghesia nazionale con una salda organizzazione di partito che si è fatta governo:

"Il fascismo adunque […] è il partito unitario, ad organizzazione centralizzata e fortemente disciplinata, della borghesia e delle classi che gravitano nell'orbita di questa. È lo Stato democratico-borghese, completato da una organizzazione dei cittadini. Come lo Stato di tutti ha benissimo servito alla amministrazione degli interessi dei pochi, così vi servirà un partito di massa. E per trarre questo partito dagli effettivi tentennamenti di tutti i vecchi partiti o semipartiti borghesi, i metodi della violenza reazionaria sono senza contrasto combinati alla demagogia democratica." ("Mosca e Roma")

Il partito unitario della classe dominante deve garantire la difesa dell'economia capitalistica. Ma è estremamente contraddittorio voler mettere insieme il piano con la disorganizzazione, l'ordine con il caos. La fine dei dualismi (anima e corpo, pensiero e materia, discreto e continuo, umanesimo e scienza, ecc.), la si ottiene solo con il superamento del capitalismo e del suo stato, ogni altro monismo è puro idealismo. E comunque, per arrivare ad una società finalmente organica, per passare dalla forma n a n+1, deve essersi formato nella presente società dualistica, un organismo politico che abbia assimilato la teoria unitaria della conoscenza, come ben spiegato nella riunione del PCInt., registrata a Firenze il 20 marzo 1960 ("Dal mito originario alla scienza unificata del domani"):

"Il comunismo è il risolto enigma della storia e si considera come tale soluzione. Ciò è estremamente importante. Perché, se il comunismo è il risolto enigma della storia, l'umanità, per avere dinanzi ai suoi occhi questi enigmi già risolti, dovrebbe aspettare di essere nel comunismo, nella società comunista. Ma la società comunista per noi esiste fin da ora, essa è anticipata nel partito storico che ne possiede la dottrina. Non la possiede in quel modo completo, in quel modo elaborato [che sarà caratteristico della società futura], la possiede in modo approssimato. Il partito comunista è il solo ente che può possederla e il solo che può definirsi soggetto della rivoluzione. Non può essere che la possieda la classe e tantomeno il sindacato. Non resta che il partito, quindi, [a rappresentare il cammino cosciente della specie]."

Inflazione dello Stato

Il New Deal americano non è meno totalitario dei fascismi europei. Lo è di più semmai, visto che in Europa il fenomeno della "sussunzione reale del lavoro al Capitale" non era così avanzato come negli Stati Uniti, dove con il taylorismo avevano introdotto nell'industria lo scientific management aumentando notevolmente la produttività del lavoro (per mezzo dell'estrazione di plusvalore relativo oltre che assoluto). In America come in Europa lo Stato ingigantiva la propria presenza nella società per dirigere un'economia che aveva raggiunto livelli di maturità per cui i singoli capitalisti non bastavano più a dirigere e controllare i grandi organismi produttivi. Su Battaglia Comunista n. 38 del 1949, troviamo scritto:

"Lo Stato capitalistico, sotto i nostri occhi di generazione straziata da tre paci borghesi a cavallo di due guerre universali imperialistiche, spaventosamente si gonfia, assume le proporzioni del Moloch divoratore di immolate vittime, del Leviathan col ventre gonfio di tesori stritolante miliardi di viventi. Se veramente si potessero come nelle esercitazioni della filosofica speculazione personalizzare l'Individuo, la Società, l'Umanità, tutto l'orizzonte dei sonni di questi esseri innocenti sarebbe coperto dall'Incubo statalista." ("Inflazione dello Stato")

Ma è il Capitale che domina lo Stato, non viceversa; e si illude il liberista Herbert Hoover quando, criticando la politica dirigistica e interventista di Roosevelt (suo successore alla presidenza dell'America), pensa che con uno sforzo di tipo volontaristico si possa far tornare indietro la ruota della storia:

"Dobbiamo batterci per un governo che ritrovi le sue basi nelle libertà e nelle opportunità individuali, che erano le basi stesse della visione americana. Se perdessimo, continueremmo lungo la strada del New Deal che ci porta a un governo di tipo personale basato su teorie collettiviste. Con idee del genere il nostro può trasformarsi in uno Stato d'impianto fascista". (cit. in Tre New Deal)

Su un punto però Hoover aveva una visione chiara, quando notava che la dinamica in corso avrebbe portato alla formazione di uno stato di tipo fascista. Ci pensa Roosevelt nel suo discorso di insediamento (Washington, 4 marzo 1933), a chiarire di che tipo di processo egli si stia facendo strumento:

"Se vogliamo avanzare, dobbiamo muoverci come un esercito ben addestrato e ubbidiente, per il bene di una disciplina comune. Io so che siamo pronti e disposti a sottomettere la nostra esistenza e le nostre proprietà a tale disciplina, perché ciò renderà possibile a chi sta alla guida di puntare a un bene più alto."

Il neopresidente americano non si ferma a queste enunciazioni d'intenti (che avrebbero potuto benissimo essere state fatte da Mussolini, Hitler o da Stalin), dichiara che se sarà necessario assumerà ampi poteri esecutivi, pronto a tutto per sconfiggere la crisi. Del resto, come nota Kiran Klaus Patel, in quegli anni non furono pochi i paesi che sentirono il bisogno di rafforzare i poteri degli esecutivi

"sulla scia della Depressione, e lo fecero sia promulgando nuove leggi e creando nuove istituzioni, con modifiche apportate alla Costituzione, sia avvalendosi di metodi più drastici, come nel caso di dittature – si pensi alla Germania di Hitler o all'Unione Sovietica di Stalin, ma anche a varianti meno estreme della dittatura come il Brasile di Vargas, la Persia di Reza Shah Pahlavi e l'Estonia di Konstantin Päts. Negli Stati Uniti il cambiamento si produsse senza modificare o cambiare la Costituzione, mentre il Brasile o l'Estonia introdussero nuove costituzioni nel 1934 – e il Brasile, addirittura, la riscrisse ancora una volta solo tre anni dopo. Oltre agli Stati Uniti, altre democrazie come la Cecoslovacchia, la Finlandia e l'Irlanda rafforzarono i poteri dell'esecutivo." (Il New Deal. Una storia globale)

Il rafforzamento del potere esecutivo da parte dell'amministrazione Roosevelt va di pari passo con l'assunzione di una estetica che segna una linea di demarcazione con il passato. L'immaginario bellico è d'ora in poi presente in tutta l'azione politica inaugurata con il New Deal: il vessillo della National Recovery Administration (NRA), il Blue Eagle (un'aquila blu che con un artiglio tiene stretta una ruota, che rappresenta l'industria e con l'altro un fulmine, il simbolo del potere) viene esposto nelle vetrine dei negozi e riprodotto in una spilla, esibito sulle giacche a dimostrare l'accettazione e il rispetto dei "codici" di comportamento, dal salario minimo, al riconoscimento dei sindacati, alla limitazione dei prezzi dei prodotti, ecc. Nel logo della NRA appariva la scritta "Noi facciamo la nostra parte". I cittadini erano invitati a comprare solo nei negozi che recavano il simbolo patriottico e a boicottare gli altri. Il governo si prefiggeva dunque di controllare e disciplinare non solo la macroeconomia ma anche gli aspetti della vita che prima erano considerati privati, in un progetto di "ingegnerizzazione" sociale. Per vigilare che i datori di lavoro rispettassero i "codici" furono mobilitati anche i sindacati. Questi processi di regolamentazione suscitarono l'opposizione di alcune componenti sociali: la Camera di Commercio degli Stati Uniti, per esempio, contrastò la politica di Roosevelt e criticò radicalmente il New Deal. Anche la riforma fiscale, che puntava a tassare i redditi più alti, non venne certo bene accolta dalle classi abbienti.

Il programma di assistenza statale, con la creazione del Civilian Conservation Corps (CCC), inaugurato nel 1933, era palesemente coercitivo anche se il governo ne negava il carattere totalitario. Esso mantenne la sua funzione fino al 1942 e diede lavoro a centinaia di migliaia di disoccupati (si stima complessivamente a 3 milioni di persone): lo stato americano attraverso il CCC forniva ai giovani senza lavoro un riparo, vestiti, cibo e un salario, da passare in parte alle famiglie. L'inquadramento di questi lavoratori era di tipo militare, erano soldati di un esercito nazionale, finalizzato alla conservazione del patrimonio naturale (parchi, boschi, ecc.), e come tali sfilavano per le strade in occasione di parate o di celebrazioni nazionali. Modelli come la NRA e il CCC erano mutuati dal War Industries Board (WIB) costituito durante la Prima guerra mondiale, quando il governo entrò d'autorità nell'industria, anche quella privata, per indirizzare la produzione in favore delle esigenze belliche.

La NRA per il suo apparato di controllo sviluppò un'imponente burocrazia, fino alla costituzione di un'agenzia nazionale per la pianificazione, il National Planning Board (NPB). Ma non era l'apparato statale che si prendeva una rivincita rispetto al capitalismo, era il contrario: il modo di produzione capitalistico potenziava lo Stato per regolare sé stesso. Come scritto in Proprietà e Capitale nel cap. XIII (L'interventismo e il dirigismo economico):

"L'insieme di innumerevoli moderne manifestazioni con cui lo Stato mostra di disciplinare fatti ed attività di natura economica nella produzione, lo scambio, il consumo, è erroneamente considerato come una riduzione ed un contenimento dei caratteri capitalistici della società attuale […] Ogni misura economico-sociale dello Stato, anche quando arriva ad imporre in modo effettivo prezzi di derrate o merci, livello dei salari, oneri al datore di lavoro per 'previdenza sociale' ecc., risponde ad una meccanica in cui il capitale fa da motore e lo Stato da macchina 'operatrice'."

Sincretismo politico

Nel suo libro, Schivelbusch si dilunga un po' troppo sui risvolti psicologici della propaganda rooseveltiana, tipo le famose chiacchierate del presidente alla radio di fronte al caminetto di casa, che puntavano a stabilire un rapporto diretto con i cittadini, bypassando i canali istituzionali e quelli della stampa; a noi basti dire che il battilocchio Roosevelt era più moderno rispetto ai suoi colleghi europei nelle tecniche di imbonimento della popolazione, quantomeno a livello tecnologico. Dietro il paravento della libertà di espressione in un regime democratico-liberale come quello americano, si nascondeva la necessità dell'imperialismo di intruppare e disciplinare la popolazione. Il "dominio reale" del Capitale sulla società americana stava diventato una vera e propria "ingegneria del consenso" ("Informazione e potere", n+1 n. 37), mentre in Europa venivano utilizzati mezzi più spicci per controllare la popolazione, anche se comunque efficaci. L'americanizzazione dell'Europa dopo la Seconda guerra mondiale, a colpi di Coca-Cola, cinema e blue jeans, sta a dimostrare che quello era il tipo di capitalismo vincente.

Dal punto di vista dei simboli, vi sono degli aspetti sincretici tra destra e sinistra. Nell'articolo "Necessarie dissoluzioni" (n+1 n. 36), abbiamo visto come all'interno del Partito Socialdemocratico di Germania (SPD), una minoranza di giovani militanti arrivò alla conclusione che i nazisti andavano combattuti con i loro stessi mezzi, facendo leva sugli aspetti irrazionali, sollecitando i compagni a smetterla di contrastare le emozioni, le fantasie, le paure, le sofferenze reali delle masse con argomentazioni scientifiche. Non neghiamo certo l'importanza delle "emozioni" nella lotta di classe, e proprio per questo abbiamo sostenuto la necessità dell'assimilazione del programma comunista all'interno di un ambiente "di classe", ferocemente anticapitalista. All'opposto, le scorciatoie attivistiche, che poi sono manifestazioni del modo di pensare idealistico, allontanano i militanti da questo ambiente spingendoli nelle braccia della società borghese ("Un programma: l'ambiente", 1913).

I ribelli della SPD battezzarono il proprio movimento "Fronte di ferro", ed esso giunse a contare un numero enorme di aderenti. Il suo simbolo, tre frecce inclinate verso il basso, fu disegnato da Sergei Chakhotin, membro dell'SPD. Le frecce significherebbero i tre nemici da colpire: la monarchia, il nazismo e il comunismo. Oggi tale simbolo è ripreso da alcune culture metropolitane come i Redskin e gli Anarcoskin che si richiamano all'antifascismo militante. Il RASH (Red Anarchist SkinHeads) ha ripreso come simbolo le tre frecce nel cerchio, ma, dichiara, mutandone il significato, che esse starebbero a rappresentare i principi di solidarietà, uguaglianza e libertà (tipici della rivoluzione borghese), per i quali bisognerebbe battersi ancora oggi.

Negli anni Trenta, la socialdemocrazia tedesca, per stare al passo con i tempi e non perdere troppi consensi, si fascistizzava. Il sincretismo sovrastrutturale è sicuramente il riflesso di un sincretismo più profondo, e infatti il programma dei socialdemocratici e quello dei nazisti rispondeva di fatto alla medesima necessità: la salvaguardia del capitalismo. Restando sul piano dei simboli è da segnalare il libro La nazionalizzazione delle masse di George L. Mosse, in cui si presenta il nuovo ordine nazista come basato "sull'autorappresentazione nazionale mediata dalla liturgia di una religione civile", una sorta di irrazionalismo di massa fatto di miti, culti e riti, condito con un po' di esoterismo (non presente nel fascismo italiano).

L'impossibilità di una soluzione di tipo rivoluzionario, nel corso degli anni Venti, spinse verso una riforma radicale del capitalismo masse di uomini, che appoggiarono chi di questo cambiamento si faceva portavoce. Si impose una "rivoluzione conservatrice", che si presentò con una veste autarchica: le grandi opere infrastrutturali che venivano intraprese possono essere definite una colonizzazione che si estendeva entro i confini nazionali, volta ad ammodernare una serie di aree ritenute poco sviluppate. Sia in Germania che altrove fu evidente l'incapacità dei singoli capitalisti di portare avanti progetti di grandi dimensioni: solo lo Stato aveva la possibilità di intervenire muovendo le masse di uomini e il capitale necessari.

Con il Social Security Act (1935) l'America affrontava la cosiddetta questione sociale con le stesse misure escogitate in Italia con la Carta del Lavoro (1927) e in Germania con lo Deutsche Arbeitsfront (1934): lo Stato strappava ai sindacati l'arma della rivendicazione salariale e si faceva carico di alcune misure sociali e rivendicazioni del movimento operaio. L'avvio delle grandi opere pubbliche si basava sulla retorica del suolo, sulla necessità di ritornare alla terra, ai beni materiali. La finanza - individuata come la causa della Grande Depressione – era descritta come una forma malata dell'economia, e quindi si doveva ritornare all'economia reale, all'agricoltura, alla manifattura, alla produzione industriale. Il materiale e il solido, contro l'astratto e il vacillante.

Con il 1924, anno che decreta la fine dell'internazionalismo proletario e la vittoria della parola d'ordine del socialismo in un solo paese, in Russia si era prodotto un ripiegamento verso l'interno volto alla costruzione del capitalismo, che da allora venne comunque etichettato come socialismo. Non potendo ormai svilupparsi la rivoluzione in ambito internazionale, bisognava sviluppare un'economia che fosse all'altezza delle sfide poste dai paesi capitalisti: di qui lo stakanovismo, il mito russo della produttività. Le grandi purghe in Russia risposero alla necessità di individuare un nemico interno su cui scaricare la colpa dello scoppio della crisi. In Germania furono gli ebrei, gli zingari e gli omosessuali, negli Stati Uniti gli speculatori finanziari, artefici della Grande Crisi, in Russia, appunto, i supposti sabotatori della rivoluzione.

Grandi opere pubbliche

I fascismi sono una forma di asiatizzazione del capitalismo, una ricerca degli stati moderni di omeostatizzare il fatto economico e sociale. In più di un'occasione abbiamo fatto presente che l'assolutizzazione del concetto ne stravolge il significato; in realtà le forme sociali tendono ad asiatizzarsi quando bloccano il corso rivoluzionario: così Roma si omeostatizza con l'Impero d'Oriente, la Cina si omeostatizza con un centro onnipotente, il capitalismo si omeostatizza con l'ultima sua fase. In genere si ha la forma cosiddetta asiatica quando la società si dà strutture il cui compito è impedire ogni disequilibrio del sistema. Questo è il vero invariante (non il carattere "idraulico" o altro). Il fascismo ha certo degli aspetti asiatici moderni, in quanto interviene economicamente e politicamente al fine di rallentare la corsa sfrenata del capitalismo verso la catastrofe. Il periodo fascista è un tentativo del capitalismo di auto-regolarsi, di ritardare la propria morte con il controllo del fatto economico da parte dell'autorità centrale. Come il dispotismo orientale si caratterizza per la costruzione di grandi opere di utilità sociale; così, insita nel fenomeno fascista c'è appunto l'esigenza del "lavoro pubblico", in qualsiasi sua accezione, per garantire la riproduzione allargata del capitale.

Abbiamo visto che negli anni Trenta per dare lavoro a masse di disoccupati gli Stati vararono misure per un ritorno alla terra costruendo insediamenti rurali, spostando i disoccupati dalle città alla campagna, dando loro un'abitazione e un pezzo di terra, e per lavorarla degli strumenti che, molte volte, venivano utilizzati collettivamente dai membri delle colonie rurali. Invece di concentrare grandi masse di persone in poche metropoli, il governo americano le spostò in piccole cittadine e in comunità a "misura d'uomo", almeno così il governo mistificava la schizoide provincia americana, promuovendo anche delle cooperative di consumo, su ispirazione di quelle europee. Si trattava di riorganizzare l'agricoltura in modo da permettere ai disoccupati di non morire di fame e quindi evitare lo scoppio di rivolte. Nel 1933 venne varata la Agricultural Adjustment Act (AAA), la legge sull'adeguamento delle campagne, che prevedeva per gli agricoltori una retribuzione in cambio della limitazione della produzione. I prezzi dei prodotti agricoli non erano più determinati dagli alti e bassi del mercato, ma diventavano politici.

In Inghilterra nacquero le garden city, le città-giardino, in Italia si avviarono le bonifiche dell'Agro pontino (ma anche la costruzione di città rurali in Libia, foto 33), in Russia sorsero i Colcos (proprietà agricole collettive). La nostra corrente, analizzando il fenomeno, definì "colcosianesimo industriale" ogni coinvolgimento della classe operaia nella salvaguardia del capitalismo, specie in queste forme sociali retrograde. La ricercata sintesi tra città e campagna era finalizzata a trovare una soluzione al caotico inurbamento metropolitano: la ruralizzazione delle masse e il decentramento produttivo dovevano essere l'inizio di una nuova era all'insegna di una ritrovata armonia sociale.

In fondo alla rivista si possono vedere alcune immagini di grandi opere che vennero realizzate in Oriente e in Occidente negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

Il primo grande progetto del piano quinquennale russo fu la diga sul fiume Dnepr (foto 30) e la costruzione di una gigantesca centrale idroelettrica nel 1927 (la più importante d'Europa) che doveva rendere possibile l'elettrificazione dei territori limitrofi. Alla progettazione e all'esecuzione dell'opera – i lavori terminarono nel 1932 - parteciparono ingegneri tedeschi e americani. Il giornalista Pietro Maria Bardi, nel libro Un fascista al paese dei Soviet (1933), così descrive la visione della diga:

"Eccomi sul Dnper sbarrato dalla più grande diga d'Europa, che per mezzo della centrale più potente del mondo darà elettricità fra breve alla zona più ricca della Russia, realizzando nuovo socialismo: perché 'elettrificazione + soviet = socialismo', come mi attestano abbia detto Lenin […] Qui hanno lavorato gli Americani. La diga ha del fantastico, dell'americano."

Foto 30. Diga sul fiume DneprFoto 30. Diga sul fiume Dnepr
Foto 33. Città rurali, LibiaFoto 33. Città rurali, Libia

Pochi anni prima, nel 1924, Mussolini aveva dato il via alla bonifica integrale dell'Agro pontino, una regione del Lazio. Nessuno era mai riuscito a prendere di petto la questione delle paludi pontine. "Dopo la caduta dell'Impero Romano diverse autorità, pontificie e laiche, avevano cercato di bonificarle, ma senza alcun successo" (Tre New Deal). Si trattava di prosciugare le acque su un'area enorme, di circa 100mila ettari.

La "bonifica integrale" non era un semplice intervento agrario ma un intervento di pianificazione territoriale che comportava una migrazione interna diretta dall'alto (il romanzo Canale Mussolini di Antonio Pennacchi narra dell'insediamento in quelle zone di migliaia di contadini poveri arrivati dal nord Italia), da concludersi con la costruzione di tremila tra poderi e case coloniche nell'Agro pontino (foto 5, 6).

Foto 5. Draga nell'Agro PontinoFoto 5. Draga nell'Agro Pontino
Foto 6. Poderi e case coloniche nell'Agro PontinoFoto 6. Poderi e case coloniche nell'Agro Pontino

A gestire l'insediamento fu l'Opera Nazionale Combattenti, cui era affidato il progetto di bonifica, e furono impiegati più di 100.000 lavoratori. Per quanto riguarda le città di fondazione (foto 34) esse dovevano essere delle "anticittà", e rispecchiare gli ideali fascisti di proporzione, armonia e controllo del territorio. Il regime italiano si proponeva quindi di creare una nuova civiltà urbano-rurale (foto 7) organizzata militarmente. Nell'articolo "Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione" di Vincenzo Civico (Critica Fascista, 15 maggio 1942), si ricorda come con la rivoluzione industriale intorno alle grandi città si fossero formate spontaneamente attività industriali e commerciali, negli anni sviluppatesi sempre più, attirando dalla campagna un sempre maggior numero di persone. Essendo questo processo di concentramento di uomini e mezzi di produzione cresciuto del tutto caoticamente, nelle periferie proliferarono le baraccopoli, assai difficili da gestire. Poiché la causa del gigantismo metropolitano è lo spostamento di uomini alla ricerca di lavoro e di opportunità, il fascismo, secondo Civico, doveva rovesciare questa prassi e distribuire il lavoro sul territorio per distribuire razionalmente la popolazione:

"Abbiamo recentemente affermato che l'unità urbanistica non è più oggi la città, ma la nazione; e che pertanto uno dei compiti essenziali dell'urbanistica è quello di realizzare la organica distribuzione della popolazione su tutto il territorio nazionale. Lo strumento tecnico urbanistico è da tempo forgiato e non richiede che di essere usato: il piano territoriale."

Foto 34. Città di fondazione, ApriliaFoto 34. Città di fondazione, Aprilia
Foto 7. Civiltà urbano-rurale (Mussolini)Foto 7. Civiltà urbano-rurale (Mussolini)

Per contrastare la crescita tentacolare delle metropoli bisognava dunque pianificare la distribuzione degli uomini e delle industrie sul territorio nazionale. Naturalmente, il fascismo non riuscì a portare a termine un tale ambizioso progetto, dato che in un'economia di mercato una miriade di progetti confliggono tra loro impedendo o limitando fortemente un'azione centrale di pianificazione. Ed infatti, sosteniamo noi, senza il superamento di tutte le categorie politiche ed economiche capitalistiche nessun metabolismo di specie è possibile. Come ricorda la nostra corrente:

"Nella società futura, già all'inizio, non saranno più i lavoratori a migrare verso le aree industriali: al contrario, saranno i mezzi di lavoro liberati a distribuirsi secondo gli insediamenti dell'uomo sulla superficie terrestre" (cfr. punto "e" del Programma rivoluzionario immediato, Forlì, 28 dicembre 1952).

Il presidente Roosevelt firmò nel maggio del 1933 il Tennessee Valley Authority Act, creando la TVA, una public corporation che aveva il compito di assumere il controllo dello sviluppo di alcune aree di Tennessee, Alabama, Mississippi e Kentucky, Georgia, Carolina del Nord e Virginia (foto 20, 21, 22). Il progetto, uno dei più importanti del New Deal, aveva come fine uno sviluppo territoriale integrato, comprensivo della produzione di elettricità, del controllo delle piene e dello sviluppo agricolo. Tenendo conto che il bacino idrografico del fiume Tennessee e i suoi affluenti coprono una superficie di più di centomila chilometri quadrati, si può comprendere l'imponenza del progetto. Questa mega opera "trasformava mediante ciclopici investimenti una vallata di piccoli coltivatori e pastori nel più grande serbatoio di energia elettrica degli Stati Uniti" ("Il New Deal, o l'interventismo statale…"). Essa diventava, a parere del governo americano, il simbolo di una nuova epoca, quella in cui la società, per mezzo dello Stato, si appropriava del capitale e lo utilizzava per lo sviluppo del bene pubblico.

Foto 20. Tennessee Valley AuthorityFoto 20. Tennessee Valley Authority
Foto 21. Tennessee Valley AuthorityFoto 21. Tennessee Valley Authority
Foto 22. Tennessee Valley Authority ActFoto 22. Tennessee Valley Authority Act

La TVA negli Usa e la bonifica dell'Agro pontino in Italia, come pure la diga sul Dnepr in Russia, stavano a dimostrare l'inefficienza del laissez-faire, e la necessità di un centralismo statale regolamentatore. A proposito di capitalismo di Stato, sempre ne "Il New Deal, o l'interventismo statale…", se ne sottolineano le caratteristiche: la macchina statale

"non si limita più a difendere e incoraggiare l'iniziativa autonoma delle categorie industriali, finanziarie, agricole: lo Stato interviene a creare industrie nuove e a promuovere opere pubbliche; lo Stato investe nella misura in cui il privato non è in grado di farlo, o non ha l'attrezzatura per riuscirvi."

Altro importante esempio di interventismo statale fu la costruzione della rete autostradale tedesca: il progetto dell'Autobahn, oltre alla necessità di modernizzare le infrastrutture del paese per rilanciare l'economia nazionale, aveva quella di dare lavoro a migliaia di disoccupati e così conquistarli al regime. I nazisti realizzarono un progetto che era stato discusso per la prima volta negli anni Venti dalla Repubblica di Weimar e misero al lavoro più di 100.000 operai. Secondo l'economista John Kenneth Galbraith, la politica economica del regime nazista era basata su

"prestiti su larga scala per la spesa pubblica, all'inizio principalmente per opere civili: ferrovie, canali e le Autobahnen. Il risultato fu un attacco alla disoccupazione che si rivelò molto più efficace che in qualsiasi altro paese industrializzato." (Money, 1975)

La rete autostradale aveva bisogno che ci fossero delle automobili che vi circolassero, ecco allora la necessità di produrre una vettura del popolo, la Volkswagen (foto 12, 13, 14). L'idea di una automobile che fosse accessibile a tutti venne affidata dal Führer all'ingegnere Ferdinand Porsche. Attraverso la nuova rete autostradale e le automobili del popolo, lo stato rendeva possibile ai cittadini tedeschi la scoperta delle bellezze naturali della terra natia, che venivano curate e protette dal governo nazionalsocialista. C'è un estremo contrasto fra il tecnocapitalismo dei nazisti e il loro attaccamento allo Heimatstyle, da heimat, parola che non ha un equivalente in altre lingue (terra natia, appunto, oppure patria, focolare, ecc.). Nei discorsi di propaganda i gerarchi nazionalsocialisti mettevano sovente in parallelo la potenza della grande industria tedesca e il Blut und Boden (sangue e suolo). Anche in Italia l'interesse per la cura della natura, della terra e del paesaggio veniva posto al centro degli interessi del legislatore: il primo piano paesaggistico è del 1939 ed è opera di Bottai.

Foto 12. VolkswagenFoto 12. Volkswagen
Foto 13. Rete autostradale tedescaFoto 13. Rete autostradale tedesca
Foto 14. Rete autostradale tedescaFoto 14. Rete autostradale tedesca

Il fascismo non ha un programma

Per quanto imponente sia stata l'opera controrivoluzionaria svolta dal fascismo italiano e nonostante l'influenza che ebbe sulla nascita del nazismo, neghiamo che questa forma del dominio borghese si possa definire originale dal punto di vista teorico. nell'articolo "Il programma fascista" (Il Comunista del 27 novembre 1921) Amadeo Bordiga nota come dietro al "mobilismo" di Mussolini per il quale il fascismo superava gli schemi ideologici e i canoni dottrinali abbracciando la teoria della relatività (Albert Einstein), si nasconda in realtà un assolutismo: il mito della Nazione.

I fascismi nascono tutti dall'esigenza di inquadrare in un supremo sforzo borghese le forze frammentate della classe dominante, comprese le mezze classi e gli strati piccolo-borghesi, in un fronte di lotta contro l'avanzata del proletariato rivoluzionario, l'unico ad avere elaborato, a partire dal Manifesto del partito comunista, una visione organica del futuro della specie umana.

Il fascismo non è quindi un relativismo, ma uno "storicismo negativo" (ammette un'evoluzione storica, ma la vuole bloccare), potrebbe essere scambiato (e lo fu) per una via di mezzo tra capitalismo e comunismo, ma non è altro che l'ultima trincea in cui si rifugia la borghesia:

"Esso si presenta non come apportatore di un nuovo programma, ma come l'organizzazione che lotta per un programma da tempo esistente: quello del liberalismo borghese tradizionale."

La sua ragion d'essere è l'ammissione implicita che serve una barriera di ferro contro l'avvento della società futura e che il miglior antidoto insieme al manganello e all'olio di ricino, è la realizzazione, seppur mistificata, di alcuni elementi di futuro, dalla centralizzazione in economia e nel governo, all'antipolitica e all'antiparlamentarismo (tanto sbandierati, ma poi non attuati). Da questo punto di vista è curioso quanto sostiene Gianpasquale Santomassimo nella premessa al saggio La terza via fascista. Il mito del corporativismo, dove parla del fascismo come di "un totalitarismo incompiuto, interrotto bruscamente nel suo farsi dal disastro bellico"; e sostiene che

"il fenomeno fascista, nella molteplicità di facce che lo hanno caratterizzato, si è configurato negli anni tra le due guerre come una 'terza via', distinta e contrapposta rispetto a sistemi, culture, ideologie, pratiche politiche e istituzionali che si richiamavano ai principi del liberalismo e della democrazia, da una parte, della tradizione socialista e della nuova realtà sovietica, dall'altra."

Tesi da rigettare, ovviamente, in quanto il fascismo non è stato una "terza via", ma un'evoluzione dell'unica via borghese, la stessa che ha visto camminare a braccetto socialdemocratici, cattolici e fascisti (le tre forme parallele del riformismo in Italia individuate nel filo del tempo "Meridionalismo e moralismo" del 1954), e che si è evoluta fino ai nostri giorni attraverso programmi liberaldemocratici fuori tempo massimo. Si pensi al saggio La terza via (1998) del sociologo Anthony Giddens che, oltre ad aver ispirato il premier laburista Tony Blair, influenzò il pensiero di partiti post-socialisti di altri paesi, come i PD americano e italiano. I contenuti del libro, un fabianesimo in salsa liberale, sono la solita illusoria convinzione: la possibilità di una alternativa riformista sia alle diseguaglianze prodotte dal capitalismo che alle rigidità del vecchio socialismo. Nel 1999 il movimento per la terza via promosse un vertice a Firenze sul "Riformismo nel XXI secolo", che seguiva quello di New York dell'anno prima. A distanza di vent'anni dalla pubblicazione del libro di Giddens ognuno può toccare con mano i risultati della sua proposta. Egli stesso manifestò pochi anni dopo averlo scritto dei dubbi sulla validità dell'opera vista la bancarotta politica di quasi tutti i partiti che ad essa si sono inspirati.

Ritornando al Ventennio italiano, il "mobilismo" tattico invocato dal Duce in più occasioni, fu in realtà "l'immobilismo della disciplina" con cui il regime teneva avvinti più strati sociali nello stato borghese. Tutte le spinte avveniristiche che erano presenti all'interno del fascismo, furono ricondotte all'interno dell'ambito dei rapporti sociali borghesi senza che questi fossero mai messi veramente in discussione. Il capitalismo aveva ancora delle risorse da spendere e una forza organizzativa in grado di inglobare la propria antitesi, il comunismo.

Da questo punto di vista è curioso quanto scriveva Giuseppe Bottai nella rivista Critica fascista, dove proclamava che il fascismo per avere vita lunga avrebbe dovuto essere una rivoluzione permanente: chi si ferma è perduto! Bisognava continuare a marciare per realizzare il principio d'una nuova vita. Difficile pensare che il compito di realizzare una nuova vita spetti alla borghesia, classe decrepita priva ormai di vitalità.

Prime conclusioni

A differenza di quello che fanno Schivelbusch e Patel, Wittfogel nella sua opera sulle società asiatiche (Il dispotismo orientale) non riesce a operare i giusti paralleli: vede l'asiatizzazione della Russia zarista-stalinista (con i suoi campi di lavoro forzato, foto 31) ma non vede quella in atto nell'Occidente. Le "società idrauliche", di cui parla nel suo libro, grazie all'esistenza di un'autorità centrale riuscivano a compiere grandi opere collettive; ma lo stesso faranno i mostri statali nel corso del Novecento potenziando al massimo gli esecutivi e inquadrando ideologicamente e militarmente la società.

Foto 31. Russia stalinista, campi di lavoro forzatoFoto 31. Russia stalinista, campi di lavoro forzato

L'accumulazione sotto l'egida dello Stato, che fu caratteristica del capitalismo al suo sorgere, era diventata sua caratteristica anche nella decadenza. L'Italia si confermò un laboratorio politico: se il fascismo fu l'esperimento pilota, il nazismo fu il suo "perfezionamento" teutonico, il New Deal fu la versione democratica e il keynesismo la sintesi teoretica di tutto questo processo.

Anche uno scrittore democratico come Antonio Scurati, autore del romanzo storico M. Il figlio del secolo, nel giorno in cui il movimento fascista compie un secolo, il 23 marzo 2019, afferma in un articolo apparso sulle pagine di Repubblica, che

"il fascismo è stato una delle potenti invenzioni (o innovazioni, se preferite) italiane del Ventesimo secolo, che dall'Italia si è propagata in Europa e nel mondo."

Poche righe più avanti sostiene che non bisogna preoccuparsi, il fascismo non si ripeterà. Certo, precisiamo noi, ma perché in realtà non è mai sparito. Per la Sinistra Comunista "italiana", esso ha vinto politicamente anche se ha perso la guerra sul campo di battaglia. La differenza netta tra fase prefascista, fascista e postfascista è del tutto arbitraria, si limita agli aspetti sovrastrutturali (fez, camicia nera, ecc.) e alla modalità delle azioni repressive. Del resto, storici attenti riconoscono una continuità che riguarda gli istituti, le strategie economiche e politiche perpetuate dal Ventennio fino ad oggi. Un capitolo del libro Lo Stato fascista del giudice Sabino Cassese si intitola appunto "La continuità Stato liberale-Stato fascista-Stato democratico". La Carta del Lavoro (1927), uno dei documenti più significativi del fascismo, è la madre di articoli importanti della Costituzione italiana, come l'art. 39, che riconosce personalità giuridica ai sindacati. Ad integrare il dettato costituzionale concorre inoltre lo Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970), uno strumento statale di controllo dell'iniziativa di lotta degli operai.

Anche Sergio Romano, ex ambasciatore italiano, sostiene che c'è una sostanziale continuità tra fascismo e post-fascismo in ambito non solo italiano ma internazionale:

"La rappresentanza dei 'lavoratori intellettuali e manuali' alla 'fase decisionale' diventa la 'partecipazione' dei gollisti, il consiglio di fabbrica italiano, e la 'mitbestimmung' del 'capitalismo renano'. Il parlamento professionale diventa la Camera delle Corporazioni nella variante fascista o salazariana, la 'National Recovery Administration' di Roosevelt (una 'authority' per la regolamentazione del mercato che la Corte Suprema, nel 1935, dichiarò incostituzionale), il 'Commissariat au plan' del dopoguerra francese o la formula italiana del 'Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro'. Anche quando fioriscono in sistemi politici diversi molti programmi economici dirigisti e interventisti sono legati da vincoli di cuginanza ideale. La distinzione tra fascismo e antifascismo diventa in queste materie irrilevante. Mussolini non aveva del tutto torto quando scrisse nel 'Popolo d'Italia' che il New Deal era parente del fascismo […] L'idea di una sede in cui industriali e sindacati dovrebbe trovare un'intesa nazionale… (oggi) si chiama 'concertazione' (ed è) lontana nipote di quella 'Camera delle corporazioni' che piacque, fra le due guerre, a tanti intellettuali europei." (cit. nell'articolo "Obama come Roosevelt e/o Mussolini?" di Luigi Copertino, 2008)

Fascismo, nazismo, New Deal e stalinismo (foto 32) sono, tutti, dei tentativi di blindatura corporativa della società, per impedirne la disgregazione. Le diversità nella sovrastruttura politica, che ad una visione superficiale possono ad esempio avallare una differenza tra fascismo e antifascismo, hanno la loro radice unicamente nei diversi rapporti di forza fra le classi all'interno dei rispettivi paesi. Il fascismo in Italia "nacque", così come il nazismo in Germania, anche come risposta ad una minaccia diretta del proletariato, e quindi potenziò al massimo gli apparati repressivi statali, cominciando la sua attività controrivoluzionaria prima di tutto con l'attacco e la distruzione delle sedi operaie, poi cercando di trasformare i vecchi istituti liberali della borghesia per introdurne al loro posto dei nuovi, di carattere espressamente corporativo.

Foto 32. Conferenza di Yalta, 1945Foto 32. Conferenza di Yalta, 1945

Il New Deal rooseveltiano invece, dice la nostra corrente,

"nasce come risposta non ad una pressione rivoluzionaria diretta del proletariato, ma all'immediato cataclisma di una crisi economica senza precedenti: ai fini della risoluzione di questa crisi, mentre la terapia economica si svolgerà sul binario classico dell'interventismo fascista, il mantenimento delle forme politiche democratiche e la conservazione degli organismi sindacali operai non solo non costituiva una remora, ma permetteva manovre di conservazione più elastiche e ramificate, che sventavano i possibili contraccolpi sociali e politici della crisi con metodi, anziché di coazione, di corruzione, la classica corruzione democratica." ("Il New Deal, o l'interventismo statale…")

Sul quotidiano Avvenire è stato pubblicato qualche anno (9 agosto 2016) fa un articolo mistificatorio intitolato "Bordiga, il leninista che sperava nell'Asse" a firma di Roberto Festorazzi, in cui si riporta la testimonianza di una spia della polizia fascista che sosteneva che il comunista napoletano avrebbe dichiarato di simpatizzare per Hitler e per l'Asse. In realtà, Amadeo Bordiga si augurava la sconfitta del paese imperialista più forte in quanto la vittoria di quelli più deboli avrebbe dato al proletariato internazionale più chance di vittoria. Il contrario di quanto auspicavano gli antifascisti nostrani che aprirono le porte e collaborarono con il fascismo a stelle e strisce, tema ampiamente trattato in "Le prospettive del dopoguerra in relazione alla piattaforma del partito" (1946). Per Bordiga poteva avere delle conseguenze rivoluzionarie il crollo – valutato comunque come improbabile – della potenza americana, l'importante era rifiutare l'appoggio politico e militare a ogni schieramento borghese (in un'atmosfera da guerra santa) e mantenere autonomo il partito proletario. Chi nella Seconda Guerra Mondiale ha combattuto nei ranghi degli imperialisti Alleati contro gli imperialisti dell'Asse ha, consapevolmente o meno, aiutato il fascismo più potente, quello americano, che per decenni avrebbe dominato il mondo capitalistico. Ancora nell'articolo sopra citato:

"Chi ha pagato e paga questa organizzazione multilaterale di difesa dell'oligarchia dominante americana? L'ha pagata e la paga tutto il mondo […] Il New Deal, progressista e interventista, democratico nelle forme politiche come fascista nella politica economica, è stata la premessa necessaria della più grande macchina di sfruttamento della forza-lavoro (americana e mondiale) che la storia del capitalismo abbia mai conosciuta: l'impero 'non colonialista' di Wall Street."

L'imperialismo d'oggi è un'evoluzione del New Deal, basti pensare che il programma di riarmo per combattere nella Seconda guerra mondiale (coordinato dalla potente agenzia governativa War Production Board ) fu, per quantità di capitali messi in moto, uno dei più vasti piani che lo stato americano attuò (secondo Kiran Klaus Patel, l'impresa bellica tra il 1941 e il 1945 fece raddoppiare il PIL americano), e la conseguente proiezione di potenza ai quattro angoli del globo terraqueo stabilì per i decenni a venire l'egemonia del capitalismo americano. Il tutto, naturalmente, fu accompagnato da fiumi di retorica, come lo slogan "Libertà di espressione, libertà di culto, diritto ad un livello di vita sufficiente, libertà dalla paura" lanciato da Roosevelt nel Discorso sullo stato dell'Unione del 1941, poggiante sui presupposti "non colonialisti" del nuovo ordine mondiale stabiliti nella Carta Atlantica con le firme di Roosevelt e Churchill.

Oggi il capitalismo, globalizzato alla massima potenza, avrebbe bisogno di un fascismo mondiale, nel senso di un controllo centralizzato dell'economia e della politica. Un passo avanti in questa direzione fu fatto con l'esportazione manu militari dei principi del New Deal, con il Piano Marshall e la costituzione (in seguito all'accordo di Bretton Woods) di organismi sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Ma un governo unico mondiale il capitalismo non lo può realizzare: la sua rappresentanza politica e militare è ancora radicata nelle borghesie nazionali, concorrenti e nemiche tra loro. I capitali in giro per il mondo hanno ancora dei proprietari in carne ed ossa e questi reclamano i propri "diritti" individuali, fregandosene di quelli altrui. Il risultato è quello che abbiamo visto durante il crack finanziario del 2008: ognuno per sé e speriamo che la crisi passi.

Rivista n. 47