La Grande Socializzazione (2)

Dal cooperativismo socialdemocratico al corporativismo fascista, dal comunismo oggettivo della fabbrica alla comunità soggettiva del padrone illuminato: la borghesia alla ricerca di un governo globale e l'emergere di un piano di vita per la specie nonostante le sue forme negate.

SECONDA PARTE

Tecnocrazia e programmazione

La seconda parte di questo lavoro approfondisce l'importante tema delle anticipazioni di futuro presenti nel capitalismo e le capitolazioni ideologiche della borghesia di fronte al comunismo. Se nella prima parte ci siamo occupati delle varie manifestazioni di interventismo statale a cavallo tra le due guerre, di seguito analizzeremo le varie correnti che avevano e hanno come obiettivo la realizzazione di una programmazione economico-sociale.

Come ammette lo storico Alfredo Salsano, si tratta di un

"quadro di riferimento non solo italiano, in cui riformismo sindacale, mediazione politica socialista e neosocialista, taylorismo sociale del grande padronato per tutti gli anni venti tendevano a convergere, e comunque erano in rapporto di scambio effettivo e intenso all'insegna dell'americanismo e del fordismo, intesi come progetto sociale." (L'altro corporativismo. Tecnocrazia e managerialismo tra le due guerre)

Già all'interno delle prime manifatture era presente un piano di produzione, e quindi una qualche forma di pianificazione, emanazione del singolo capitalista; ma nel corso del Novecento, con il moderno sistema di macchine, aumentando i volumi della produzione e la composizione organica del capitale sociale impiegato per la produzione delle merci, fu necessario passare a una organizzazione scientifica della produzione.

Suggestioni tecnocratiche, oltre che negli Stati Uniti, si manifestarono anche in Francia, Italia e nella Russia dei piani quinquennali. Il bisogno di programmare e pianificare l'economia è, per certi versi, un potenziale anticipato, nel senso che la società futura descrive sé stessa attraverso le sue realizzazioni in quella presente. Non riusciamo infatti a capire questa realtà se non ci proiettiamo nel futuro: per capire n bisogna proiettarsi in n+1. Solo pensando come uomini che vivono in una società fondata sui bisogni di specie e non su quelli del mercato, possiamo comprendere i limiti dell'attuale forma sociale e la necessità storica di superarla.

D'altronde, il comunismo, inteso come "movimento reale" e non come "politica", è insopprimibile perché fa parte del divenire umano, indipendentemente da qualunque forza mostri di volerlo bloccare ("Persistenze di comunismo nel corso della storia umana", n+1, n. 12). Essa, la società futura, è il contenuto maturo che romperà l'involucro capitalistico.

Come abbiamo visto nella prima parte di questo lavoro, la necessità di un piano si fa sentire con forza portando sia a

"una autolimitazione [che a] una autopianificazione del capitalismo, al fine di sostenere e disciplinare l'accumulazione progressiva con un ritmo sempre più veloce, ma anche tale da soddisfare nuove gamme di bisogni della classe che lavora" ("Meridionalismo e moralismo", 1954).

Uno dei testi che abbiamo letto per approfondire gli argomenti che stiamo trattando, è Governi tecnici e tecnici al governo, che costituisce lo sviluppo di uno studio, condotto da un gruppo di costituzionalisti dell'Università degli Studi di Perugia, nell'ambito di una ricerca di interesse nazionale su "Istituzioni democratiche e amministrazioni d'Europa: coesione e innovazione al tempo della crisi economica". Il tema è il rapporto tra tecnica e crisi della democrazia accompagnato dall'indagine sulle premesse storiche e filosofiche dalle quali è emerso il movimento tecnocratico. Dopo una panoramica sulla nascita dell'ideologia tecnocratica, vi è un capitolo sui governi tecnici in Italia: dal Governo Amato I (in cui assumevano un ruolo attivo il Capo dello Stato e una squadra composta anche da personalità esterne alla politica), alla piena maturazione della "tecnicalità" con i Governi Ciampi, Dini e Monti. Un successivo capitolo, altrettanto interessante, tratta della "deriva tecnocratica" in Italia e in Europa al tempo delle crisi.

All'inefficienza del sistema parlamentare e del personale politico in genere, la classe dominante cerca di ovviare con la costituzione di governi tecnici, e magari un domani anche tecnocratici, non arrivando però mai a risolvere i problemi che la attanagliano, risiedendo essi nell'anarchia del mercato.

Il movimento tecnocratico

La borghesia, fin dal suo nascere, ha un'impostazione "tecnocratica", e non può essere diversamente dato che la tecnica è l'ossatura del suo modo di produzione. L'Enciclopedia di Diderot e d'Alembert è un manifesto della tecnocrazia come dice il suo titolo esteso, Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers. Il termine oggi evoca soprattutto la corrente americana che teorizzò negli anni Venti una razionalizzazione tecnica, quindi a-ideologica dell'assetto capitalistico, giunto alla sua massima dissipazione di energia; ma il bisogno di razionalità è antico. Il governo scientifico della produzione introdotto da Taylor rientra nel filone tecnocratico, così come vi rientrano gli scritti di Saint-Simon e del suo allievo Comte, o le utopie di Platone (La Repubblica) e di Francis Bacon (La nuova Atlantide), entrambe basate sull'autorità della competenza. L'accezione spregiativa dei democratici odierni è semplicemente una sciocchezza, soprattutto perché scambiano per tecnocrazia l'avvento dei cosiddetti governi tecnici, cioè formati da non-eletti nominati dai politici.

L'Enciclopedia Treccani, alla voce Tecnocrazia, attribuisce a Saint-Simon e Comte, "primi nella storia delle idee occidentali", la delineazione del "quadro della società industriale pianificata e tecnocratica." Essi vivevano la piena rivoluzione industriale degli esordi, nella quale il piano di produzione si faceva sempre più necessario man mano che avveniva il passaggio dalla manifattura alla grande industria. In tale passaggio, in cui il criterio generale era l'efficienza legata al principio della realtà e non a quello della maggioranza, una società retta da ingegneri sembrava una risposta coerente con le esigenze del Capitale. Sembrava incredibile, ma all'aumento vertiginoso della produttività locale (in fabbrica), non corrispondeva un aumento altrettanto significativo della produttività generale (nella società):

"Siamo in un periodo storico non di avanzata ma di piatta decadenza e rinvilimento della scienza e della tecnica ufficiale, di basso ciarlatanismo nella dottrina e nella applicazione […] L'età capitalista è più carica di superstizioni di tutte quelle che l'hanno preceduta. La storia rivoluzionaria non la definirà età del razionale, ma età della magagna. Di tutti gli idoli che ha conosciuto l'uomo sarà quello del progresso moderno della tecnica che cadrà dagli altari col più tremendo fragore." ("Politica e costruzione", 1952)

Detto questo, sembra che il termine "tecnocrazia" sia stato coniato dall'ingegnere americano William Henry Smyth nel 1919 per descrivere "il governo del popolo reso effettivo dall'azione dei loro servi, gli scienziati e gli ingegneri" (Technocracy, University of California Press, 1920). Egli auspicava la costituzione di una moderna Industrial Democracy, un governo retto non da politici ma da un Consiglio nazionale di scienziati, che sapesse coinvolgere i lavoratori nelle scelte decisive da prendere.

Uno dei rappresentanti più conosciuti del movimento tecnocratico è sicuramente Howard Scott che nel 1919 fondò a New York la Technical Alliance. All'indomani della Crisi del 1929 si formò, presso la Columbia University, il Committee of Tecnocracy e si delineò un piano di organizzazione della società che si chiamerà Technocracy. Piano nel quale si teorizza la riduzione del numero delle industrie, la loro nazionalizzazione e la relativa gestione da parte di tecnici con l'avvio di uno scambio non monetario basato su unità energetiche, e il superamento di governi e partiti politici. Non è una storia nuova per noi, questi temi li abbiamo già trattati nel numero 31 della rivista ("La grande dissipazione energetica…"), ma è necessario approfondirli in quanto estremamente significativi di una corrente informale che stava serpeggiando nel mondo intero, coinvolgendo gli stati, i loro governi e le loro popolazioni.

Un altro importante sostenitore dell'approccio tecnocratico è Thorstein Veblen, un economista statunitense di origine norvegese, insegnante universitario, conosciuto per il saggio La teoria della classe agiata, una critica del consumismo, in cui si sostiene che i più ricchi si guardano bene dall'usare razionalmente i soldi a loro disposizione e li sciupano in "consumi onorifici" solo per differenziarsi dalla parte restante della società e competere tra di loro. Questa classe opulenta e sprecona è "assenteista", nel senso che affida la conduzione delle aziende ai tecnici e vive di pura rendita.

Da un'analisi della società risulta chiaro a Veblen che essa è opulenta e povera nello stesso tempo. In una situazione così contraddittoria la classe improduttiva non può che essere parassitaria, e non può essere trasformata mediante la riforma del sistema. Siccome è giuridicamente proprietaria dei mezzi di produzione e dei capitali che li mettono in moto, va messa nelle condizioni di non nuocere. Se i capitalisti finanziari, al contrario di coloro che sono "interni" alla produzione e che sono i veri protagonisti dell'industria moderna, sono del tutto inutili, allora i politici che li rappresentano senza neanche far parte direttamente della loro classe non solo non servono a niente ma sono addirittura dannosi. Veblen auspica una "ingegnerizzazione" della società, nell'accezione americana di engineering, cioè la disciplina che unisce il progetto alle metodologie per la sua realizzazione facendo largo impiego di conoscenze tecniche, scientifiche e organizzative connesse al campo specifico in cui si opera. In questo anticipa il movimento della Terza Cultura di John Brockman, per il quale la società deve procedere verso una visione unitaria del sapere ("Il movimento universale per l'unità della conoscenza", n+1, n. 34). Ciò che conta, per Veblen, è lo sviluppo scientifico insieme con il progresso tecnologico: essi fanno avanzare la società, portando via via alla unificazione delle conoscenze.

Nel saggio Gli ingegneri e il sistema dei prezzi (1921), egli muove una critica radicale alla società di mercato e auspica la formazione di un "soviet di tecnici auto-selezionato". Il capitolo più interessante si intitola appunto "Memorandum su un realizzabile Soviet dei tecnici", dove è descritta l'evoluzione del sistema industriale "verso un onnicomprensivo equilibrio meccanico di processi interconnessi", equilibrio che non è più possibile lasciare in mano agli uomini d'affari il cui scopo è unicamente il guadagno, ma che bisogna affidare a chi ha le competenze necessarie, tecnici, ingegneri della produzione, scienziati, che non hanno come fine il mero profitto:

"Il sistema industriale odierno differisce notevolmente, sotto più di un aspetto, da tutti quelli del passato. Esso è in modo preminente un sistema, autoequilibrato e comprensivo; un sistema di processi meccanici interconnessi, piuttosto che di abile manipolazione; ha carattere meccanico anziché manuale. È un'organizzazione di energie meccaniche e di risorse materiali, più che di abili artigiani e di arnesi, sebbene gli operai specializzati e gli arnesi formino anch'essi una componente indispensabile del suo vasto meccanismo; inoltre ha carattere impersonale, sul modello delle scienze della materia, a cui attinge costantemente."

Il nuovo sistema industriale sostituisce quello vecchio e, attraverso l'organizzazione scientifica del lavoro, elimina gli intoppi che rendono inefficiente la produzione, puntando a razionalizzare l'utilizzo degli impianti, dei semilavorati e della manodopera, abbassa il prezzo dei prodotti venendo incontro alle esigenze dei consumatori:

"Armato di questi poteri e operando in opportuna consultazione con un'adeguata struttura secondaria di centri periferici e di consigli locali, questo organismo dirigente l'industria dovrebbe esser in grado di abolire virtualmente ogni disoccupazione d'impianti e di manodopera utilizzabili, da una parte, ed ogni carestia locale o stagionale dall'altra. La principale direttrice operativa indicata dalla natura del lavoro che incombe all'organismo dirigente, che è anche la caratteristica principale delle attitudini del suo personale dirigenziale, sia esecutivo che consultivo, è quella che richiede i servizi degli ingegneri della produzione."

Nel 1925, Bordiga, in polemica con i centristi, fa scherzosamente notare che la nuova direzione del PCd'I ha occupato il partito con avvocati e professori al posto degli operai che costituivano il nerbo originario; nella società futura avvocati e professori non serviranno a niente, mentre gli ingegneri saranno ancora utili ("La natura del Partito Comunista", 1925).

Nel saggio Gli ingegneri e il sistema dei prezzi, Veblen parla dell'attuale società come quella del sabotaggio. Egli osserva che nel funzionamento del capitalismo, vi sono sabotaggi ad ogni livello: c'è quello dell'operaio che interrompe il ciclo produttivo danneggiando i macchinari oppure facendo sciopero, c'è quello dei capitalisti che sabotano la produzione con le serrate. Anche le guerre commerciali tra capitalisti provocano degli intoppi e dei rallentamenti nella produzione. La principale responsabile di questi sabotaggi è la classe assenteista dei "padroni", ma anche i tecnici sabotano la produzione quando sono asserviti a questa classe, cioè quando sono gli esecutori di scelte eterodirette. Il sabotaggio produce sprechi, sciupii e duplicazione del lavoro, è fonte di dissipazione e deve essere eliminato.

La proposta "politica" di Veblen è dunque la costituzione di un soviet di tecnici al fine di liberarsi della classe improduttiva dei capitalisti. Nei suoi elementi di fondo, l'atto politico

"avrà carattere semplicissimo e del tutto concreto, anche se senza dubbio molte complicate sistemazioni di dettaglio dovranno aver luogo. In linea di principio, esso comporta necessariamente soltanto un'espropriazione della proprietà assenteista, vale a dire la soppressione di un'istituzione che si è dimostrata, nel corso del tempo e delle trasformazioni, nociva al bene comune. Tutto il resto deriverà in modo assai semplice dall'estinzione di questo logoro e infondato diritto consolidato. Per proprietà assenteista, così come il termine si applica ai presenti fini, si deve intendere qui la proprietà di qualsiasi oggetto d'uso industriale da parte di ogni persona o gruppo di persone che non siano abitualmente occupate nell'impiego industriale di esso."

È chiaro che queste analisi non escono dalla logica borghese. In esse si invoca un'unità d'azione tra direzione tecnica aziendale e operai. Di fatto, però, si muovono sulla terra di confine tra capitalismo in coma e società futura, dimostrando che già da tempo si fa strada la necessità di passare a una diversa forma sociale, più efficiente dal punto di vista energetico.

Le idee tecnocratiche in Italia

C'è una spiegazione del perché il movimento tecnocratico americano si dissolse già agli inizi degli anni Trenta: parte delle idee che esso professava furono messe in pratica, in maniera soft, dal governo Roosevelt, e progetti così radicali di trasformazione della società vennero abbandonati. Detto questo, la scomparsa del movimento non fece venir meno le motivazioni che lo avevano fatto sorgere, da ricercare principalmente nello sviluppo della grande industria, e il dibattito intorno ai temi sollevati dai tecnocratici continuò a lungo.

Anche su riviste e quotidiani italiani si parlò con interesse di tale movimento e delle sue proposte di cambiamento sociale. Si pensi al saggio Tecnocrazia (1933), che qui ci interessa prendere in esame, scritto da Virgilio Dagnino, economista, pubblicista, dirigente d'azienda (Montecatini, ATM) e banchiere (Banca popolare di Milano, Credito lombardo), fondatore del Gruppo amici della razionalizzazione, che aveva come organo la rivista L'Ufficio moderno.

Scopo di Tecnocrazia era, come scrive l'autore, fornire una rapida esposizione dei principi che animavano la scuola tecnocratica americana e farne un esame critico.

Secondo Dagnino, i tecnocratici rappresentavano la possibilità di un superamento dello stato di cose presente, l'uscita da una crisi senza precedenti che, aggirando la lotta politica, e muovendosi su di un piano prettamente scientifico (cosa che in Europa era ed è praticamente impossibile a causa della presenza di un retroterra ideologico ingombrante) potesse rappresentare una vera alternativa. Nel Vecchio Continente – sottolineava Dagnino – la critica radicale all'organizzazione sociale esistente era appannaggio della dottrina dei grandi partiti di massa, aveva delle specifiche connotazioni politiche, quindi non poteva prescindere da elementi storici e culturali. Negli Stati Uniti invece l'approccio era diverso, era quello sperimentale dello scienziato che non parte da preconcetti ma verifica in laboratorio la giustezza delle sue tesi.

E questo permetterà ai teorici e agli ingegneri americani che si riconoscono nel movimento tecnocratico di criticare la Russia stalinista arrivando ad equipararla agli altri paesi capitalistici, perché anche nel paese del "socialismo realizzato" sono in atto le stesse dinamiche economiche borghesi: esiste la moneta, si fanno crediti, ecc. Per la scuola tecnocratica categorie quali costi, prezzi, profitti, salari e debiti, andrebbero superate a favore di una moderna organizzazione industriale basata sulla misurazione dei quantitativi di energia consumata:

"La crisi è determinata da uno squilibrio tra la capacità di produzione degli impianti e la possibilità di consumo da parte delle masse. Studiamola quindi direttamente in questi suoi elementi essenziali e l'energia prodotta o consumata sia la nuova unità di misura."

Per arrivare a ciò i tecnocratici lavorano per l'integrazione delle scienze fisiche, perché essendo la crisi di natura tecnologica può essere risolta solo da un punto di vista tecnologico. Il price system, il sistema dei prezzi, minaccia i progressi compiuti dall'industria; è necessario cambiare paradigma, mettere al centro il fattore energetico, guardare all'essenziale dell'attività economica, ovvero la produzione per il soddisfacimento dei bisogni umani.

Se le fonti di energia, prima della rivoluzione industriale, erano costituite fondamentalmente dal lavoro umano e da quello animale, al tempo di Veblen si va sempre più sostituendo ad esse l'energia derivante dall'utilizzazione di fonti accumulate nella Terra, quali il petrolio, il carbone e le sorgenti naturali, ad esempio, le cascate di acqua. Questa energia, azionando macchine sempre più efficienti e grandi, rende meno necessario il lavoro umano in rapporto alla quantità di prodotto. L'aumento delle fonti di energia e il modo di utilizzarle è al centro della moderna organizzazione industriale e rappresenta la sfida del futuro.

Per i tecnocrati – afferma Dagnino – sono da rivedere tutte le teorie economiche esistenti perché esse non hanno una base scientifica: i riformatori sociali di ogni risma e colore si ostinano a ragionare in termini di misure qualitative, un ossimoro, mentre l'economia deve diventare la scienza delle quantità e porsi al servizio dell'uomo. Il volumetto Tecnocrazia si conclude con il riepilogo del programma dei tecnocrati, che Dagnino riassume così:

1) economia programmatica collettiva in sostituzione dell'economia liberale individuale;

2) sostituzione della moneta aurea con certificati rappresentanti quantitativi di energia;

3) partecipazione adeguata delle masse ai vantaggi derivanti dalla razionalizzazione;

4) direzione dell'organismo economico affidata ai tecnici.

Si tratta di un programma anticapitalistico nella sostanza, elaborato da borghesi che si guardano bene dal dichiararsi comunisti: il certificato energetico del movimento tecnocratico è da comunismo pieno, mentre in Marx è da transizione, perché vi è ancora una relazione "economica" fra lavoro erogato e beni ricevuti sotto forma di buoni-lavoro non accumulabili. A differenza però di quanto troviamo in Critica al programma di Gotha di Marx, nel programma dei tecnocrati manca la descrizione dei mezzi e del percorso per giungere alla nuova società (elemento non certo secondario); ma per il resto sembra che faccia suoi i punti programmatici dei comunisti.

L'appello ai tecnici

Georges Valois è il fondatore del movimento francese di destra Le Faisceau (fascio, in francese), che sarà attivo tra il 1925 e il 1928 e conterà poche migliaia di aderenti. Esso si ispirò al fascismo italiano, "essenzialmente un movimento di combattenti che reagiscono contro il mercantilismo dei borghesi liberali e contro il materialismo marxista dei socialisti italiani non combattenti" (Valois, 1918, cit. in L'altro corporativismo). Secondo Valois, il fascismo italiano è superiore al bolscevismo perché invece di negare semplicemente la proprietà privata sarebbe riuscito ad inglobare i capitalisti e i proletari all'interno di una organizzazione disciplinata nazionale; e nota: "attualmente Mosca è in marcia verso il fascismo" (Valois, 1926, cit. in L'altro corporativismo).

Su quest'ultimo punto possiamo dire che la sua analisi è basata su presupposti che sarebbe difficile definire errati, visto che lo stalinismo nella sostanza non è altro che una forma di nazional-socialismo, anche se l'ideologia di riferimento, storicamente falsificata, è quella marxista.

L'aspetto tecnocratico presente nella teoria di Valois si manifesta chiaramente nel suo Appel aux techniciens (1929), in cui riprende alcuni temi dei tecnocratici statunitensi e, in particolare, del pensiero di Veblen. Nell'Appello si precisa che ciò che conta oggi:

"E' quel mondo di amministratori, di direttori, di gerenti, di capiservizio, d'ingegneri, di capomastri e (oggi) di direttori di coltivazione che costituiscono una vera classe tra la borghesia possidente e il proletariato che esegue. Classe i cui membri si stimano, si apprezzano, si giudicano non sulla base del patrimonio in loro possesso ma sulla base della funzione che assolvono e che nel complesso, invece di precipitarsi alla conquista del denaro e del godimento si dedicano al loro compito e lo concepiscono come una funzione sociale. E' classe che si scontra ovunque con la borghesia possidente, classe i cui membri concepiscono quasi tutti l'organizzazione razionale della produzione e che riconoscono che l'impresa di cui sono responsabili è soltanto la cellula di un insieme che deve avere la sua disciplina generale. E che si trovano contro i 'possidenti' delle imprese che vogliono mantenere l'individualismo economico, e che conservano le più stupide routines in nome del diritto di proprietà."

I tecnici stanno quindi maturando la consapevolezza che ogni nodo produttivo è collegato ad altri nodi, formando in questo modo un'unica rete di produzione e distribuzione. Questa struttura produttiva stimola il sorgere una coscienza di classe tecnocratica che da teorica vuole tradursi in pratica. Per Valois, che dopo il 1928 virerà a sinistra e, facendosi promotore di un progetto di "repubblica sindacale", fonderà il Parti républicain syndicaliste (partito che si limiterà prevalentemente ad un'attività di studio), bisogna arrivare a

"una collaborazione tecnica stretta dei gruppi, dei sindacati di produttori, padroni e operai, resa indispensabile dalla generalizzazione di nuovi metodi di produzione" (Georges Valois, 1918, cit. in L'altro corporativismo).

Se il capitalismo ha fatto il suo tempo anche il socialismo sovietico ha molti limiti, ribadisce Valois: serve quindi una "terza via", uno stato tecnico diretto da un'assemblea sindacale che detenga le leve del comando, un organismo corporativo che riunisca in sé il personale più competente. I nuovi metodi applicati alla produzione, dal taylorismo al fordismo, devono essere applicati anche fuori dalle aziende al fine di realizzare una economia razionalizzata.

All'inizio degli anni Trenta, sempre in Francia, viene fondato da ex studenti dell'École polytechnique (politecnico francese soprannominato anche l'"X") il gruppo X-Crise, che propugna una pianificazione di tipo tecnocratico che sostituisca il liberalismo classico, considerato una dottrina economica che ha fatto il suo tempo. Questo gruppo di tecnici, economisti e ingegneri, tra cui vi sono Jules Moch, Jean Coutrot, Louis Vallon, Raymond Abellio, Gérard Bardet, attraverso conferenze, dibattiti e pubblicazioni varie, si propone di diffondere un'idea di razionalizzazione integrale dell'attività umana in chiave socialista e corporativa.

Posizione simile è quella sostenuta dall'imprenditore inglese Dudley Docker, fondatore nel 1910 della Business League e poi della Federation of British Industry, che prospetta un corporativismo tecnocratico in cui il parlamento diventa il rappresentante degli interessi dei produttori: per ovviare alla sperimentata incompetenza dei politici in campo industriale (ma non solo), la guida di questo settore chiave dell'economia spetterebbe a chi ogni giorno dimostri di avere conoscenza e capacità dirigenziale. Restando in Inghilterra, e sempre in ambito riformista, è da ricordare il Guild Socialism di G. D. H. Cole, per il quale l'industria deve diventare di proprietà dello stato, ma gestita e controllata da una rete di gilde di lavoratori (Le culture della Terza via in Gran Bretagna di Valerio Torreggiani).

Per una storia delle associazioni professionali

Per una definizione approfondita di "corporazione", rimandiamo il lettore alla voce curata da Lorenzo Ornaghi per l'Enciclopedia delle scienze sociali (1992), dove troviamo scritto che:

"Il capostipite della famiglia a cui appartiene 'corporazione' (una famiglia ormai piuttosto numerosa, poiché ne fanno parte anche 'corporato' e 'corporativo', 'corporativismo', 'corporazionismo', e - da qualche anno - 'neocorporativismo' e 'neocorporatismo') è infatti il termine-concetto di 'corpo'. In latino dotto corporare significa 'prendere forma corporea', 'far corpo'. E il participio passato corporatus, se denota 'quel che ha preso forma corporea', ha anche il significato di 'colui che è membro di un corpo'."

C'è una notevole differenza tra le corporazioni medievali e quelle moderne formatesi tra la metà dell'Ottocento e il Novecento come sintesi di varie scuole e tendenze (in primis quella Cattolica che vede come teorici René-Charles de La Tour du Pin, Wilhelm von Ketteler, Franz Hitze e Giuseppe Toniolo), ma c'è anche un filo logico che lega precisamente esperienze remote con altre più recenti nel voler realizzare una forma sociale che si presenti come un corpo unico, ordinato in sotto-insiemi chiusi. Ricordiamo come nel filo del tempo "Corporativismo e socialismo", si metta bene in evidenza che non bisogna confondere le corporazioni medievali, dove vi è unità d'interessi tra lavoratori dello stesso mestiere, perlopiù autonomi, con le corporazioni capitalistiche che puntano all'unione di forze di classe differenti e opposte che hanno assunto un carattere impersonale.

Il volumetto Elementi di ordinamento corporativo (1933) di Nino Leonardi, nato come guida per gli studenti ma estremamente approfondito, dopo un breve sommario sulle origini della "questione sociale" nella modernità e sulle varie dottrine politiche e soluzioni tentate (partecipazione degli operai agli utili d'azienda, cooperative operaie di produzioni, "comunismo" russo), introduce il lettore alla storia plurisecolare delle associazioni professionali.

Per Leonardi la tendenza associativa fa parte della natura umana ed è alla base di tutte le manifestazioni della vita della nostra specie, da quella istintiva (la famiglia), a quella coercitiva (schiavitù), semi-coercitiva (corporazioni medievali) e a quella libera (sindacato professionale, ecc.). Quest'ultima forma è alla base della organizzazione corporativa dello stato fascista e sarebbe, secondo lo studioso, il risultato di un lungo processo di socializzazione, che egli fa partire almeno dai Babilonesi che vedevano i lavoratori riunirsi in associazioni presiedute da un capo. Anche in India, nel VIII secolo a. C., esistono distinte corporazioni basate sulle professioni. Nell'antica Grecia, si attribuisce a Solone la legge che autorizzò i diversi collegi professionali a darsi regolamenti propri, purché non contrari alle leggi dello Stato. Ma è con Roma che nascono delle associazioni di lavoratori progredite: fin dal periodo Regio i lavoratori si riuniscono nei "collegia artificum", che esercitano una certa influenza sullo Stato e sull'economia. Le corporazioni, riconosciute da Servio Tullio, furono soppresse in parte da Tarquinio il Superbo e poi riconosciute giuridicamente dalla Repubblica, ma Giulio Cesare ne decretò la definitiva abolizione, ad eccezione di quelle considerate di pubblica utilità. La "Lex Julia de collegiis et corporibus" stabiliva che ogni associazione dovesse dare garanzia di benessere, e la sua esistenza doveva essere approvata dal Senato. Durante l'Impero, le corporazioni così disciplinate crebbero in maniera fiorente, per poi dissolversi con le invasioni barbariche. Comunque, il loro spirito, sostiene Leonardi, sopravvisse e nel XII sec., si riformarono in Italia e in Francia, degenerando però ben presto a causa di scontri al loro interno: la prima scissione si ebbe tra le corporazioni delle arti maggiori (popolo grasso), e quelle delle arti minori (popolo minuto). La degenerazione prodotta da questo primo scontro di classe (vedi tumulto dei Ciompi a Firenze) le fece decadere, fino alla rovina totale con la nascita dello Stato moderno.

La borghesia rivoluzionaria abolì indistintamente tutte le corporazioni, considerandole retaggio del passato e un freno alla libera circolazione dei capitali. La necessità di associazione dei lavoratori era però più forte di qualsiasi divieto, e lo stato moderno, quello nato in seguito alla rivoluzione francese, dopo una prima fase di repressione, fu costretto a tollerare la formazione di associazioni di difesa economica dei salariati, fino a riconoscere giuridicamente i sindacati (in Italia durante il Ventennio nascono la Magistratura del Lavoro e il Ministero delle Corporazioni), al fine di arrivare alla concordia nazionale per mezzo della collaborazione delle classi. Siamo all'imperialismo, fase suprema del capitalismo, che si manifesta con l'organizzazione fascista della società. Il nuovo assetto sociale, che prevede un dialogo stabile tra rappresentanza del lavoro e rappresentanze del capitale è definito dal fascismo italiano come "organizzazione corporativa delle classi produttrici", e comprende sia l'organizzazione sindacale che l'organizzazione corporativa per la produzione. La prima vede separati datori di lavoro e lavoratori e ha carattere particolare, la seconda li riunisce in una organizzazione unitaria e ha carattere generale. A questo punto, il ciclo storico parrebbe chiudersi con la Carta del Lavoro del 1927, che innalza il lavoro a dovere sociale, costituisce il punto di partenza della nuova organizzazione sociale, vuole che sia superato l'interesse egoistico proclamando il diritto dello stato fascista a intervenire nel campo della produzione.

Sappiamo che l'organizzazione corporativa della società non è la fine della storia e non rappresenta nemmeno la raggiunta armonia universale a cui aspirerebbe nei suoi documenti (la Carta del Lavoro nega il diritto di esistenza della "lotta di classe" sostituendo ad essa il principio della "collaborazione delle forze produttive"). Il moderno corporativismo si è comunque ricavato un posto di primo piano all'interno del processo controrivoluzionario che ha scandito lo sviluppo storico del lavoro associato in epoca capitalistica, ma dovrà soccombere di fronte a nuovi e superiori rapporti sociali, che vanno oltre l'organizzazione chiusa per categorie professionali e si sviluppano su un piano generale. Già con l'Indirizzo inaugurale dell'Associazione internazionale degli operai (1864), il movimento di classe del proletariato aveva indicato con poche parole al mondo intero quali erano i suoi obiettivi politici e quale il livello organizzativo necessario per raggiungerli: "Proletari di tutti i paesi, unitevi!"

Il carattere cardine dell'economia capitalista è l'appropriazione privata: appropriazione, da parte di una classe parassitaria, dei prodotti del lavoro associato in grandi unità produttive. Il carattere della forma sociale futura sarà, grazie alla socializzazione di gran parte dell'attività economica rappresentata dall'attività industriale, l'amministrazione razionale e centralizzata di produzione e consumo, al fine di raggiungere il miglior risultato col minimo mezzo, ovvero un maggiore rendimento energetico. È la fase, quella comunista, in cui troviamo la massima efficienza nel rapporto uomo-natura (per approfondire l'argomento rimandiamo il lettore all'articolo "Capitale e teoria dello sciupio", sul n. 41 di questa rivista).

Spirito, Bottai e la scuola corporativa di Pisa

Nel 1928, a opera del rettore Armando Carlini, nasce all'interno della Regia Università di Pisa, la Scuola di Studi corporativi, che ha come intento la riforma dell'intero impianto degli studi giuridici locali. Carlini si adoperò per coinvolgere nel progetto Giovanni Gentile, che divenne commissario della Scuola Normale Superiore di Pisa dal 1928 al 1932, e direttore della medesima dal 1932 al 1943. Come scrive Fabrizio Amore Bianco nel libro Il cantiere Bottai, quello di Pisa fu

"un vero e proprio 'cantiere' di progetti educativi coincidenti solo in parte, ma tutti ascrivibili al più generale processo di fascistizzazione del mondo universitario in atto in tutto il Regno, seppur con specifiche peculiarità di adattamento e - in qualche caso - di resistenza alle direttive centrali."

Giuseppe Bottai fu nominato professore ad honorem di Diritto corporativo presso l'Ateneo pisano dal 1928 al 1929 e professore ordinario dal 1932. Oltre ad essere un discepolo di Gentile egli era un fervente sostenitore del corporativismo come principio innovatore della politica, dell'economia e della società, e con questo spirito fondò nel 1930 il periodico Archivio di studi corporativi (indirizzato allo studio della pianificazione in ambito sovietico, ma anche italiano, americano e tedesco), che voleva rappresentare una discontinuità rispetto agli studi economici e giuridici del tempo. Questo obiettivo convergeva con quello di Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli che avevano fondato la rivista Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica e andavano elaborando una teoria corporativa radicale. Ne I fondamenti ideali del corporativismo (1930), Arnaldo Volpicelli espone la seguente tesi:

"Il corporativismo non è soltanto una dottrina economica, non afferma solo il carattere statuale e politico della produzione e del lavoro, non mira solo a ricondurre e disciplinare nell'unità e del suo sistema istituzionale le categorie e le classi organizzate nei sindacati e nelle corporazioni, ma è una dottrina politica di carattere universale. Esso importa e significa: natura e rilevanza statale di tutta la vita individuale e sociale, solidarietà organica indissolubile e, quindi, carattere e responsabilità statuale di tutte le forze della vita della nazione. Stato corporativo è Stato che organizza e disciplina nel suo sistema unitario tutta la vita della società."

All'interno della scuola pisana questi giovani corporativisti avrebbero spinto alle estreme conseguenze l'attualismo gentiliano arrivando a fare delle ardite comparazioni tra fascismo e bolscevismo in nome di una comune opposizione all'individualismo liberista. Per Spirito era necessario confrontare il fascismo con il bolscevismo, senza temere di riconoscere a quest'ultimo dei meriti: non dobbiamo aver paura di "proclamare il fascismo, super bolscevismo". Bottai diede spazio a queste istanze di rinnovamento essendo convinto che i giovani dovessero essere la spina dorsale del fascismo e che, data la superiorità del fascismo, non si dovesse aver paura di studiare e magari prendere spunto da altre esperienze, come quella russa. Sul periodico di cui era direttore, Critica fascista, tra il 1930 e il 1931 comparve una serie di articoli sulla Russia. L'Archivio di studi corporativi pubblicò un saggio di Gerhard Dobbert sul bolscevismo e uno di Wassily W. Leontief dal titolo L'esecuzione del Piano quinquennale.

Tra i giovani che facevano parte della Scuola di Studi corporativi, ricordiamo anche Federico Maria Pacces, che aderiva ai principi del taylorismo e dello scientific management e propugnava la necessità di un piano economico nazionale che abbracciasse tutte le manifestazioni della vita associata. Per Pacces, che contribuì nel 1933 all'avvio di un corso di tecnica aziendale presso la suddetta Scuola, il concetto di piano presuppone un istituto di carattere pubblico, un cervello sociale, destinato a regolare in tutto o in parte l'attività dei singoli.

Giuseppe Bruguier, docente di economia corporativa a Pisa, sosteneva invece un corporativismo aziendale basato su nuclei produttivi in grado di autogovernarsi grazie ad una alleanza tra imprenditori e lavoratori, e di tracciarsi un programma economico.

Numerosi furono i lavori dell'Archivio di studi corporativi su esperienze europee, come quello fatto da Spirito sul "piano" del socialista Henri De Man (Il piano De Man e l'economia mista, 1935), leader del Partito operaio belga.

Con lo scoppio della guerra d'Etiopia nel 1935 in Italia c'è sempre meno spazio per i dibattiti accademici intorno alle realizzazioni del corporativismo: uno degli ultimi grandi appuntamenti internazionali prima dello scoppio della guerra è il Convegno italo-francese di studi corporativi, che si svolse a Roma nel maggio del 1935, al quale parteciparono vari economisti, sindacalisti, politici, italiani e francesi. Spirito vi presentò il saggio Corporativismo e libertà in cui si parla del corporativismo come di un "comunismo gerarchico", poi pubblicato nella rivista Nuovi Studi. Dopo questo congresso venne meno l'importanza che il regime dava a questa branca di studi, e la scuola corporativa di Pisa si sarebbe via via dissolta.

Il Convegno di Ferrara e la "corporazione proprietaria"

Il tema del corporativismo e dell'economia programmatica è centrale nella dialettica interna al PNF e le posizioni che si confrontano sono a volte molto diverse: Edmondo Rossoni, ad esempio, è per il "sindacalismo integrale", Alfredo Rocco per un corporativismo autoritario e statalista, Giuseppe Bottai per la "democrazia totalitaria", Sergio Panunzio per il "corporativismo istituzionale", e Ugo Spirito per quello "proprietario".

Quest'ultima concezione è quella presentata dallo stesso Spirito a Ferrara nel maggio 1932 durante il Secondo Convegno di studi sindacali e corporativi organizzato dal Ministero delle corporazioni. Spirito, come abbiamo visto, è un esponente di primo piano dell'attualismo, è stato allievo di Gentile, da giovane è di idee positiviste, diventa un idealista convinto per approdare, sull'onda della crisi del fascismo mussoliniano, al problematicismo (La vita come ricerca, 1937), un ripensamento dell'intera filosofia, a partire da quella monistica di Gentile, giungendo a concludere che è impossibile arrivare ad un sapere assoluto, certo e definitivo.

Al convegno di Ferrara presero parte alcune centinaia di persone tra studenti, sindacalisti, funzionari ministeriali, membri di Confindustria e intellettuali di altri paesi, come l'economista e sociologo tedesco Werner Sombart, interessati a conoscere quanto si teorizzava e realizzava in tema di corporativismo nel laboratorio italiano. In effetti, il fascismo ne anticipa un po' tutte le forme che si realizzeranno nel mondo, come osserva Gaetano Salvemini nel libro Sotto la scure del fascismo (1948):

"L'Italia divenne la Mecca degli scienziati politici, degli economisti, dei sociologi, che vi affluirono per osservare con i propri occhi l'organizzazione e l'attività dello Stato corporativo fascista".

Dario Padovan, nel saggio Organicismo sociologico, pianificazione e corporativismo in Italia durante il fascismo, fa notare che

"molti degli esperti coinvolti nei programmi del New Deal erano degli estimatori del corporativismo italiano, così come lo era lo stesso Roosevelt. Le recensioni dei saggi sul corporativismo pubblicati da Ugo Spirito, Arnaldo Volpicelli, Massimo Fovel, o di altri scritti meno entusiasti come quelli di Carlo Pagni e Giorgio Mortara, apparse su riviste nordamericane e inglesi, non erano solo un dovere bibliografico ma costituivano un sincero interesse scientifico e politico per la riflessione corporativista degli studiosi italiani dell'epoca."

Nella voce "Economia programmatica" curata da Ugo Spirito per la Treccani (1938), troviamo scritto:

"I primi studî sull'economia programmatica risalgono al 1932 e ancora oggi sono molto scarsi. Ciò non toglie che i risultati raggiunti [in Italia] siano più considerevoli e organici che altrove, soprattutto per l'esigenza che si è subito posta di conciliare il carattere programmatico dell'economia con quello antiburocratico, e di superare in tal guisa la critica rivolta dal liberalismo a ogni forma di statalismo."

La relazione di Spirito a Ferrara, intitolata Individuo e Stato nell'economia corporativa, venne paragonata allo scoppio di una bomba ed egli fu accusato in quella sede e nelle polemiche successive di filo-bolscevismo e comunismo, ma la relazione in realtà non faceva altro che sviluppare quanto scritto nell'art. 7 della Carta del Lavoro (1927), quello in cui si afferma che l'organizzazione privata della produzione è una funzione di interesse nazionale e pertanto il capo dell'impresa è responsabile dell'indirizzo della produzione di fronte allo Stato. La "corporazione proprietaria" si impone per motivazioni economiche, storiche e sociali, e queste sono "il progressivo allargarsi e ingigantirsi delle imprese" che porterà al "prevalere degli organismi produttivi collettivi su quelli individuali."

In Spirito è vivo l'interesse verso l'esperimento russo: il domani sarà di chi tra i due regimi, bolscevismo da una parte e fascismo dall'altra, "avrà saputo incorporare e superare l'altro in una forma sempre più alta."

Egli pensa che se quanto scritto nell'art. 7 diventasse pratica, allora si avrebbe una trasformazione nazionale di portata rivoluzionaria, con il superamento in un sol colpo del dualismo tra privato e pubblico e della divisione tra economia e politica, col risultato di dare così un colpo mortale alla concezione liberale della proprietà. Nella teoria della "corporazione proprietaria", tutti i cittadini diventano funzionari di stato e sovrani nel loro specifico ambito lavorativo. Per Spirito è sbagliato il fatto che la proprietà delle aziende sia controllata dagli azionisti (la classe assenteista di vebleniana memoria), essa deve passare alla corporazione che è composta da tecnici e lavoratori divisi gerarchicamente secondo competenza. Insomma, proprietari della corporazione devono essere i produttori in conformità dei particolari gradi gerarchici raggiunti all'interno della fabbrica (Capitalismo e corporativismo, 1934).

Questa teoria, come abbiamo detto, fu duramente contestata durante e dopo il congresso ferrarese. Bottai chiese a Spirito di dare le dimissioni come docente di economia corporativa giudicando la sua tesi su individuo e Stato non un passo verso il corporativismo ma un passo fuori del corporativismo. Spirito ebbe però l'avallo di Mussolini che, nel numero del 3 ottobre del 1933 del Popolo d'Italia, scrisse:

"Per i tipi della Casa editrice Sansoni di Firenze, e a cura della Scuola di scienze corporative dell'università di Pisa, è uscito in questi giorni, prefazionato da S.E. Bottai, un volume dedicato alla 'Crisi del capitalismo'. Il contenuto del volume appare estremamente importante, anche per la qualità degli autori, scelti nei grandi paesi capitalistici. E', quindi, un volume collettivo, dove si incontrano nomi già noti nel mondo del pensiero come il francese Pirou, il tedesco Sombart, l'inglese Durbin, l'americano Patterson, l'italiano Spirito. Quest'ultimo che dal Congresso di Ferrara in poi, è un po' la 'bestia nera' delle ostriche rimaste attaccate agli scogli ormai franati del liberalismo economico, pubblica uno studio molto acuto e logico, nel quale supera le opposte fazioni dell'economia liberale e dell'economia socialista e spiega anche il suo punto di vista circa l'identità fra individuo e Stato, tesi che non merita i 'vade retro' scandalizzati di molta gente che non comprende e quindi detesta ogni filosofico ragionare."

Di lì a pochi anni Spirito verrà mandato ad insegnare filosofia alla facoltà di Messina, sembra su ordine del gerarca De Vecchi, che lo farà sorvegliare dalla polizia; e questa volta Mussolini non lo aiuterà.

Dopo la caduta del fascismo subisce vari processi per apologia di fascismo, viene prosciolto, continuerà ad insegnare, diventerà direttore della casa editrice Sansoni e continuerà a sostenere le proprie tesi ribadendo le proprie convinzioni sul "comunismo gerarchico".

Nel 1958, nel volumetto Cristianesimo e comunismo scrive che

"una volta negata la proprietà, tutti i beni si pongono su di uno stesso piano, senza distinzione di struttura e di sovrastruttura; e tutti vivono nella spiritualità della collaborazione in funzione di cui si producono."

Nel 1963 appare Critica della democrazia, in cui la sua ricerca tende a spostarsi sul campo scientifico abbracciando, come dice Francesco Perfetti nella prefazione (ed. Rubbettino, 2008) una "concezione tecnocratica e manageriale confermata dalla presenza di suggestioni derivanti dal fordismo e dal taylorismo". Il libro svolge una critica radicale alla democrazia parlamentare proponendo la sua sostituzione con l'istituto del piano o del programma. La logica del piano - secondo Spirito - procede con ritmo inesorabile e tutti i regimi, anche quelli democratici e liberali devono fare i conti con essa:

"In un regime in cui prevale l'attività privata, vi sono tanti piani quanti sono gli individui. Ognuno programma la propria vita a suo modo e cerca di svolgerla tenendo fede alle direttive stabilite. Il regime democratico, perciò, è caratterizzato da una molteplicità indefinita di piani, costruiti secondo la volontà e la capacità dei singoli, e giustapposti l'uno all'altro […] Solo là dove i singoli piani sono nati da un accordo preventivo o sono stati modificati dall'intervento di un potere superiore, una data parte del paese o della città riesce ad acquistare una fisionomia davvero unitaria e organica."

Non bisogna però confondere il piano con l'intervento statale, - egli precisa - perché quest'ultimo il più delle volte non tiene conto dell'intero organismo sociale, ma è tutto teso a risolvere problemi particolari senza badare delle conseguenze nel lungo termine. Nemmeno la definizione di "economia programmatica" soddisfa appieno il concetto di piano, che supera la "distinzione di bene economico e bene non economico", e tende a regolare tutti gli aspetti della vita sociale grazie ad un cervello-guida che emerge dalla collaborazione del centro e della periferia. Ne consegue che essendo il piano un qualcosa di unitario, da quello nazionale si deve giungere, prima o poi, a quello internazionale. E così, con il "costituirsi del piano si esaurisce il compito storico della democrazia. La democrazia è finita."

Dopo aver visitato l'Unione Sovietica e la Cina, nel 1962 Spirito pubblicò il libro Comunismo russo e comunismo cinese, dimostrando grande interesse per il "marxismo" orientale, in particolare quello cinese, intriso di comunitarismo e patriottismo. Nel 1967, nell'articolo L'avvenire del comunismo (in "Giornale critico della filosofia italiana") Spirito riprende i temi sviluppati negli anni '30 e asserisce che "individuo e società si incontrano in modo sempre più intrinseco nel comunismo di oggi e di domani instaurato dalla scienza contemporanea." Sulla filosofia, la politica e la religione si impone l'unità organica e razionale delle scienze e delle tecniche. Egli riprende le sue considerazioni in Memorie di un incosciente (1977), dove si chiede se il comunismo sia un regime da instaurare oppure un movimento in via di realizzazione, scegliendo quest'ultima ipotesi:

"Il mondo ritrovava la sua metafisica, nell'unificazione del sapere dettata dalla scienza. Non era più il caso di determinare un ideale astratto che rappresentasse un valore superiore. Bisognava soltanto adeguarsi a un rispetto della realtà nel suo formarsi storico necessario. Non potevamo pretendere di imporre al mondo un disegno arbitrario, ma dovevamo limitarci a riconoscere quello che avveniva in una logica di carattere mondiale. Il vero comunismo era quello di una comunità come frutto dell'incontro di tutte le forze mondiali. Bastava prendere atto dello sviluppo della scienza e ad esso adeguarsi in tutte le sue forme."

L’attualismo è controrivoluzione

Abbiamo prima accennato a quella particolare forma di idealismo sviluppata da Gentile che va sotto il nome di attualismo. Dimostreremo che tale corrente filosofica influenzò sia ambienti fascisti che "comunisti" in egual misura. Tant'è che per lo storico Augusto Del Noce, ad esempio, "il pensiero gramsciano è la versione rivoluzionaria dell'attualismo" (Il suicidio della rivoluzione).

Per attualismo si intende comunemente quella corrente di pensiero che riduce tutta la realtà allo spirito, e intende quest'ultimo come atto. Non è la materia a produrre il pensiero, ma è vero il contrario. Lo spirito è pensiero, e il pensiero è attività, actus che trasforma il mondo. Gentile avversa ogni dualismo rivendicando l'unità di natura e spirito, cioè di spirito e materia nella coscienza pensante. Volendo fare un po' di ironia, potremmo dire che si tratta di tesi nuove come… l'Ideologia Tedesca, quella annientata teoricamente da Marx ed Engels verso metà Ottocento.

Ugo Spirito, allievo di Gentile, facendo propria la filosofia "pragmatista" del maestro, critica ogni forma di intellettualismo (speculazione filosofica fine sé stessa), diventando un fervente sostenitore del neoidealismo italiano ma, volendo portare alle estreme conseguenze il monismo gentiliano, ovvero la tesi dell'identità di filosofia e vita, sostiene che la filosofia vada cercata nelle varie manifestazioni dell'arte, della scienza, della politica e dell'economia. Per Spirito la distinzione tra scienza e filosofia non ha ragione d'essere in quanto il monismo comporta il mettere sullo stesso piano tutte le scienze empiriche negando il primato conoscitivo della filosofia. Ludovico Geymonat nella Storia del pensiero filosofico e scientifico, riconosce che

"mentre Croce e Gentile avevano negato valore alla ricerca scientifica, Ugo Spirito è stato il primo idealista italiano che abbia sostenuto […] la sostanziale identità di scienza e filosofia."

E allora dall'astratta teoria bisogna passare all'esperienza concreta, per ritrovare la vera filosofia nella politica, nella pedagogia, nel diritto, nell'economia. Di qui la nascita della rivista Nuovi Studi.

Lo sviluppo logico del ragionamento di Spirito è il seguente: l'attualismo per realizzarsi deve diventare "costruttore", in modo che la filosofia diventi tutt'uno con le scienze economiche e sociali. Partendo dall'attualismo gentiliano e sviluppando logicamente le sue premesse, Spirito opera, idealisticamente, la fusione di filosofia, scienza e vita, "negando definitivamente le categorie filosofiche e affermando l'unità-infinità delle categorie." (Scienza e filosofia, 1950)

In quest'ottica, la partecipazione attiva al dibattito intorno al tema del corporativismo lo porta a sostenere, come abbiamo visto, l'identità di individuo e Stato, proponendo una collaborazione organica tra i produttori all'interno dell'azienda e vedendo nella "corporazione proprietaria" la soluzione dialettica dell'antinomia tra economia privata e pubblica, tra capitale e lavoro. Il corporativismo sarebbe allo stesso tempo liberalismo assoluto e socialismo assoluto. Per Spirito, dagli organismi produttivi corporativi e dalla loro collaborazione dovrà nascere un'economia programmatica diretta da una mente collettiva espressa dagli organismi stessi.

Questo corporativismo integrale, sostiene Antonio Russo nel saggio Ugo Spirito. Dal positivismo all'antiscienza (1999),

"presenta significative consonanze con le posizioni espresse quasi in quegli stessi anni da un autore, in apparenza ben lontano dal progetto sostenuto da Spirito, come Antonio Gramsci."

In effetti, Gramsci in alcuni articoli apparsi sull'Ordine Nuovo (ad esempio in "Democrazia operaia" del giugno 1919), sostiene che lo "Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata." E, parlando di questi organismi, intende le fabbriche con le loro commissioni interne:

"Collegare tra di loro questi istituti, coordinarli e subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri, accentrarli fortemente, pur rispettando le necessarie autonomie e articolazioni, significa creare già fin d'ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione efficiente ed attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d'ora a sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni essenziali di gestione e di dominio del patrimonio nazionale."

In "Sindacalismo e Consigli" (L'Ordine Nuovo, novembre 1919), si ribadisce con maggiore convinzione:

"L'operaio può concepire sé stesso come produttore, solo se concepisce sé stesso come parte inscindibile di tutto il sistema di lavoro che si riassume nell'oggetto fabbricato, solo se vive l'unità del processo industriale che domanda la collaborazione del manovale, del qualificato, dell'impiegato di amministrazione, dell'ingegnere, del direttore tecnico."

L'esaltazione della figura del produttore, ingranaggio elementare della grande macchina industriale e, più in grande, di quella statale, è tipicamente fascista, ma viene anticipata, come si può evincere dalle citazioni sopra riportate, dai consigliaristi torinesi. Nell'articolo "L'operaio di fabbrica" (L'Ordine Nuovo, febbraio 1920), denunciando l'assenteismo della borghesia dalla produzione (ritorna qui la teoria della classe assenteista di vebleniana memoria), la si bolla come classe dedita all'ozio e alla speculazione, arrivando a sostenere che "la classe operaia è rimasta sola ad amare il lavoro, ad amare la macchina"; e quindi del tutto conseguentemente "il proletariato aumenterà la produzione per il comunismo, per attuare la sua concezione del mondo, per rendere storia la sua 'filosofia'."

A questo si riduce dunque la "filosofia della prassi" di Gramsci (termine preso a prestito dal saggio La filosofia di Marx di Gentile), a un culto del lavoro di fabbrica. Temi che riprenderà Gentile in Genesi e struttura della società, scritto tra l'agosto e il settembre del 1943, in cui viene celebrato l'Umanesimo del Lavoro, superamento positivo del vecchio umanesimo della cultura:

"La creazione della grande industria e l'avanzata del lavoratore, nella scena della grande storia, ha modificato profondamente il concetto moderno di cultura. Che era cultura dell'intelligenza soprattutto artistica e letteraria, e trascurava quella vasta zona dell'umanità, che non s'affaccia al più libero orizzonte dell'alta cultura, ma lavora alle fondamenta della cultura umana, là dove l'uomo è a contatto della natura, e lavora."

Per Gentile si tratta di rendersi conto che "lavora il contadino, lavora l'artigiano, e il maestro d'arte, lavora l’artista, il letterato, il filosofo", quando ciascuno di essi "lavora da uomo, con la coscienza di quel che fa, ossia con la coscienza di sé e del mondo in cui egli s'incorpora".

Il liberale Piero Gobetti, amico ed estimatore di Gramsci, aveva ben compreso lo spirito che animava la proposta politica dell'Ordine Nuovo e lo riassume in Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale (La Rivoluzione Liberale, 2-4-1922) analizzando il movimento torinese dei consigli di fabbrica:

"Il sindacato è organo di resistenza; non di iniziativa, tende a dare all'operaio la sua coscienza di salariato, non di produttore: lo accetta nella sua condizione di schiavo e lavora per elevarlo senza rinnovarlo, in un campo puramente riformistico di utilitarismo. Nel Consiglio l'operaio sente la sua dignità e indispensabilità di elemento della vita moderna, si mette in comunicazione coi tecnici, cogli intellettuali, con gli intraprenditori, colloca al centro delle sue aspirazioni non il pensiero del proprio utile, ma un ideale di progresso tecnico, che gli permetta di realizzare sempre meglio le sue capacità, e l'esigenza di un'organizzazione pratica che gli dia il potere."

Gramsci e Spirito, seppur partendo da posizioni politiche differenti, hanno una matrice teorico-filosofica comune: essi pensano che sia possibile la nascita di una forma economica comunista prima o senza la conquista politica del potere da parte della classe operaia e del suo partito, che la soluzione sia nel passaggio della proprietà dal "padrone" a gruppi di produttori associati. Ma, ricordiamo con Bordiga, il cambiamento della titolarità dei mezzi di produzione non distrugge la base del capitalismo, e cioè l'azienda. In regime borghese, anche se la fabbrica diventa una cooperativa socialista non si pone con ciò fine allo sfruttamento, semplicemente gli operai si auto-sfruttano. Diceva infatti la nostra corrente nel 1957 ("I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina e nella storia della lotta proletaria internazionale"):

"L'immediatista ha sempre bisogno di disegnare il nuovo su una passiva fotografia del vecchio. Il suo immediatismo Antonio lo chiamò concretismo, e prese la parola da attitudini di intellettuali borghesi nemici della rivoluzione: non avvertì, o poco noi potemmo avvertirlo, che ogni concretismo è controrivoluzione […] La bestia è l'azienda, non il fatto che abbia un padrone."

Il produttivismo, nero, bianco o rosso che sia, inteso come orientamento economico e come teoria politica, non esce dunque dall'economia capitalistica, mira anzi a rafforzarla, e fa parte a pieno titolo della grande socializzazione corporativa del XX secolo. Colpisce quindi che soggetti che si definiscono comunisti continuino a indicare come modello di riferimento la partecipazione dei lavoratori nell'organizzazione economica aziendale, caldeggiando ad esempio l'esperienza di autogestione delle fabbriche in Argentina nel 2007.

Rivista n. 47