La dottrina sociale della Chiesa (1)
"La formazione della concezione marxista presenta alcune analogie con la formazione di quella cristiana, sia per le cause che l'hanno prodotta sia per il suo evolversi fino a divenire una spiegazione generale dei fenomeni dell'universo. Ma il contenuto delle due concezioni non è solo diverso, è antitetico [...] La concezione marxista, sorta in periodo di vastissimo sviluppo delle conoscenze, che, nella fase di investigazione e di quella di divulgazione, escludono il ricorso all'intervento di forze sovrannaturali, è chiamata ad accompagnare quell'azione rivoluzionaria del proletariato che deve condurre a distruggere proprio la società che il cristianesimo ha contribuito a formare."
("Cristianesimo e marxismo", Prometeo n. 12, 1949)
Un invariante metodo di analisi
La peculiarità della nostra corrente è l'aver saputo inquadrare i problemi posti dalle rivoluzioni in generale, e da quella comunista in particolare (esplosa e fallita nel primo quarto del '900), in un percorso storico in cui si presentano, insieme, sia invarianze che dinamiche di trasformazione. Ciò le ha permesso di fondare la propria attività su di una concezione scientifica del cambiamento sociale e di evitare quello che Lenin chiamava concretismo, cioè la valutazione del momento storico secondo un'ottica contingente.
Uno degli errori più gravi di chi rappresenta il lato soggettivo della rivoluzione, cioè l'insieme che dovrebbe formare il partito del cambiamento, è quello di considerare il cambiamento stesso come frutto dell'azione cosciente dei protagonisti, mentre nella realtà è il contrario che accade: la coscienza si forma in relazione al cambiamento materiale. Le rivoluzioni sono processi della natura e l'uomo fa parte di questa natura. Può "rovesciare la prassi", cioè far valere la propria volontà soltanto se sintonizza la propria azione con il decorso naturale degli eventi.
Una volta costituitasi l'Internazionale Comunista, nel 1919, la nostra corrente fu l'unica a vedere in anticipo il potenziale distruttivo dell'immediatismo (1920), a lanciare l'allarme, e soprattutto a non farsi coinvolgere nella generale catastrofe della degenerazione teoretica (1925), secondo la quale i contenuti politici che condussero alla sconfitta (fronte unico, governo operaio, parlamentarismo) avrebbero dovuto essere elementi di vittoria se solo fossero stati applicati correttamente.
Vinse, come sappiamo, la controrivoluzione, che in Italia assunse le sembianze del fascismo in camicia nera, il quale inglobò il movimento operaio nello Stato mettendo in atto una dura repressione per fiaccare qualsiasi resistenza. Vennero poi la seconda grande guerra e la caduta del regime mussoliniano, e si aprì una nuova fase politica con la sbornia di retorica inneggiante al trionfo della democrazia e della libertà.
Al congresso costitutivo del Partito Comunista Internazionalista, che si tenne a Firenze nel maggio del 1948 con l'intento di continuare il lavoro della Sinistra Comunista "italiana" sulla base del suo corpo dottrinale in netta contrapposizione allo stalinismo del PCI, Amadeo Bordiga non partecipa e scrive una lettera critica a una ristretta cerchia di compagni in cui affronta, tra le varie questioni (come si chiamavano all'epoca), quella sindacale. A questo proposito, il programma del partito rivoluzionario, dice, non può essere basato unicamente sulla negazione: la dinamica storica ha un futuro e il percorso per arrivarci è affermazione, non rinuncia; l'indifferenza non si proclama e chi è indifferente semplicemente tace. Il riferimento è alle indicazioni emerse dal congresso di non lavorare nel sindacato, di non fondarne un altro scissionista e di non intraprendere la demolizione di quello esistente. La fretta nel voler fondare il partito si accompagnava con l'indifferentismo, in quel caso con la sottovalutazione della lotta sindacale.
Si era di fronte a un curioso esempio di attivismo che rifiuta il lavoro sindacale e accusa di attendismo chi invece vi si dedica. Contro questa contraddizione Bordiga suggerisce di studiare la dinamica storica che ha portato al successo numerico degli opportunisti. Piuttosto che dare indicazioni scorrette in ambito sindacale, era il caso di "spiegare il rapporto economico mutato e la nuova meccanica, non più fondi per la resistenza, non più quote che l'operaio paga sottraendole al salario, in quanto la quota è tolta sulla paga, sicché non ha più senso stare o non stare nel sindacato e nei suoi ruoli". Voler scendere sul terreno della prassi, come si era fatto al congresso, avendo male interpretato la situazione storica, era deleterio e fonte di innumerevoli errori di valutazione e di indirizzo politico.
Era preminente per Bordiga una profonda riflessione su quanto era avvenuto a livello mondiale, per trarre insegnamento dagli "errori" commessi dall'Internazionale e per capire come si erano evoluti il capitalismo e le strutture ad esso corrispondenti, cosa che d'altronde aveva cominciato a fare con la pubblicazione delle Tesi del dopoguerra.
A distanza di settant'anni riprendiamo questi argomenti non tanto per conservare un passato che pure è pieno di insegnamenti, quanto per proiettare i risultati teorici di quella corrente nel nostro futuro come essa li ha proiettati su di noi. Le "questioni" che erano al centro di faticosi dibattiti negli anni '20 del secolo scorso, avevano un retroterra storico che non era bene in evidenza. Si parlava di opportunismo, di rapporto fra Chiesa e Stato, di fascismo, ma non si era definito un ampio panorama storico che rappresentasse una continuità fra questi tre grandi fenomeni. Eppure, è evidentissimo che prima di quella che abbiamo chiamato Grande Socializzazione Storica, caratteristica peculiare di quest'epoca fosse proprio la ricerca da parte della borghesia di soluzioni per salvaguardare il proprio sistema economico-politico. Con la seconda metà del secolo scorso si chiude anche il tentativo social-demo-keynesiano di alleggerimento della questione sociale allo scopo di prendere tempo rispetto a ciò che si intravede nel futuro del capitalismo, oggi indagato dalla stessa borghesia con metodi scientifici che, come in tutti casi analoghi, si comportano come tavole della verità.
Una volta nato, represso, tollerato, adoperato, il sindacato, con tutte le sue propaggini nella tradizione, si presenta sulla scena storica ad offrire un compromesso salvifico per i meccanismi di sfruttamento e accumulazione. Però questa volta l'incarnazione dell'ideologia si manifesta in modo esplicito: il fascismo, congeniale alla grande socializzazione, lancia la sua sfida sul piano materiale. Trasformata tutta la società in una immensa corporazione, alimenta di cibo e merci varie la popolazione, accettando il più pesante compromesso che sia dato da escogitare ai suoi avversari: la distribuzione sociale del reddito senza corrispettivo in denaro. È infatti noto fin da quando Marx scrisse il Capitale, che è la maturazione stessa del capitale a produrre la propria antitesi, fino a rendere inoperante la legge del valore. Guai a quella società che invece di sfruttare i propri schiavi è costretta a mantenerli.
Una situazione del genere è pericolosissima per il sistema capitalistico che si vede così costretto ad adottare misure tali da non essere più sé stesso. E per sfruttare ogni minima possibilità dà il via, da un secolo a questa parte, alla più immane mistificazione che i modi di produzione succedutisi finora abbiano mai visto: l'unificazione del corporativismo, in ordine cronologico, della Chiesa, della socialdemocrazia e del fascismo.
Questo lavoro, presentato durante il 74° incontro redazionale (giugno 2019), è il proseguimento dello studio sulla grande socializzazione, pubblicato sul n. 47 di questa rivista, il quale a sua volta continuava quello sul sindacalismo fascista nel primo dopoguerra ("La socializzazione fascista e il comunismo", n. 42). Esso ha lo scopo di mettere in luce le molteplici armi ideologiche e materiali che il vecchio mondo adopera contro l'emergere del nuovo, giungendo a conclusioni che si spingono oltre il tema originario, arrivando a trattare il problema religioso, i rapporti tra Chiesa e fede, tra individuo e ragione, tra classe e teoria.
La corporazione cristiana
Indagando intorno alle origini storiche del corporativismo fascista, ovvero il tentativo di fare blocco, alleanza stabile, tra classi antagoniste, emerge con chiarezza che esso affonda le radici nella dottrina elaborata in seno alla Chiesa Cattolica verso la metà dell'Ottocento. Tale dottrina nasce principalmente in funzione antisocialista, ma anche in contrapposizione all'atea borghesia del tempo che minava l'ordine sociale e il potere temporale della Chiesa, la quale per secoli aveva svolto in Europa le funzioni di uno Stato. Il "nuovo" insieme di principi si presenta come alternativa al comunismo e al capitalismo, anche se la Chiesa cattolica, come vedremo, più che condannare il capitalismo in quanto tale, ne stigmatizzava i "difetti".
Sono quindi due le forme classiche assunte dal corporativismo nell'epoca capitalistica: quella cattolica e quella fascista (intendendo quest'ultima come la realizzatrice dialettica delle istanze riformiste del socialismo). La prima, che trae ispirazione dalle corporazioni medievali, anticipa di alcuni decenni la seconda, che si manifesta solo dopo la Prima Guerra Mondiale, ufficialmente il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano, e si sviluppa nel corso del Novecento in vari paesi europei e oltre. Ci sono delle cause storiche che spingono la Chiesa a svolgere un ruolo di avanguardia nella controrivoluzione: il cristianesimo nasce al culmine della potenza di Roma e si sviluppa nella sua fase decadente, rappresentando le aspirazioni delle classi oppresse che si rivoltano contro il modo di produzione schiavistico, ma anche dei cittadini abbienti che voltano le spalle alla società antica. Esso si afferma perché rende più tollerabile la vita in un mondo che si sta disgregando, e proietta una visione del futuro piena di speranza.
Tale religione, con la sua spinta antischiavista (tutti sono uguali di fronte a Dio), contribuisce alla dissoluzione dei vecchi rapporti di produzione e alla generalizzazione del sistema del lavoro salariato. Dopo la vittoria politica della borghesia sul regime feudale, la Chiesa "nella sua secolare codificazione, ben si adattava a sancire la sottomissione inesorabile delle classi oppresse, la nuova schiavitù del lavoro salariato" ("Cristianesimo e marxismo").
Il corporativismo cattolico trova la sua sistemazione dottrinaria nell'enciclica Rerum Novarum ("Delle cose nuove") di Leone XIII, pubblicata nel 1891, e preceduta da altre lettere "sociali" quali la Qui pluribus del novembre 1846, nella quale si mettono in guardia i cattolici dalla "nefanda dottrina del Comunismo", e la Nostis nobiscum del dicembre 1849, che si scagliava contro "gli esiziali principi del Socialismo e del Comunismo".
Con la Rerum Novarum, Leone XIII denuncia i mali prodotti dalle ideologie atee e socialiste, ma non si limita solo a questo. Egli invita i cristiani a promuovere, oltre alle opere di carità, l'organizzazione di "corporazioni di arti e mestieri", costituite da soli operai oppure "miste di operai e padroni", al fine di "unire le due classi tra loro". Delinea dunque un ideale corporativo che punti a tenere insieme le forze antagoniste che il capitalismo ha generato, stemperando il più possibile i conflitti di classe, e contrastando da una parte l'ipotesi comunista e, dall'altra, l'ingerenza dello Stato nel governo degli organismi intermedi (famiglie, parrocchie, cooperative, ecc.), i quali devono invece mantenere una propria autonomia. Secondo il pontefice, la classe operaia non deve dar sfogo alla propria rabbia attraverso idee rivoluzionarie e di odio verso i capitalisti, e allo stesso tempo i capitalisti devono avere un atteggiamento caritatevole verso i lavoratori, badando a "non danneggiare i piccoli risparmi dell'operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste". Solo così potrà stabilirsi un'armonia duratura che permetta di "riavvicinare il più possibile le due classi" e di "renderle amiche". Il corporativismo è una specie di involucro con cui si vuole contenere la lotta di classe, mantenendola all'interno di determinati limiti che non disturbino troppo l'assetto sociale vigente.
La dottrina corporativa cattolica troverà negli anni seguenti una solida continuità, che arriva fino ai giorni nostri. Per celebrare il quarantennale della Rerum Novarum, papa Pio XI nel 1931 scriverà l'enciclica Quadragesimo Anno, nella quale farà intendere, senza troppi giri di parole, che alcune norme di natura politico-sociale introdotte dai governi erano attinte dalla dottrina inaugurata da Leone XIII nel 1891, e ne rivendicherà l'originalità e il primato:
"Dopo l'immane guerra, quando i governanti delle nazioni principali, al fine di reintegrare una vera e stabile pace con un totale riassetto delle condizioni sociali, ebbero sancito fra le altre norme allora stabilite quelle che dovevano regolare secondo equità e giustizia il lavoro degli operai, tra quelle norme non ne ammisero forse molte, così concordanti coi principi e i moniti Leoniani, da sembrare di proposito dedotte da quelli?"
In effetti anche la teoria del salario corporativo, che avrà un notevole sviluppo durante il Ventennio, è anticipata nella Quadragesimo Anno, laddove si afferma che "la quantità del salario deve contemperarsi col pubblico bene economico", e va regolamentata poiché essa "può giovare là dove è mantenuta tra giusti limiti, così alla sua volta può nuocere se li eccede". Attraverso un collegamento stabile tra padroni e operai è dunque possibile ottenere una concordia cristiana, presupposto affinché le parti sociali si percepiscano non come parti in lotta ma come membra di un unico corpo sociale. Si tratta della dottrina del giusto mezzo: sì allo sfruttamento ma in misura consona, sì ai profitti ma venga dato spazio anche alla carità, sì agli aumenti salariali ma compatibilmente con il benessere delle altre classi.
Assertore del principio corporativo cattolico, inteso come superamento positivo dello statalismo centralista e autoritario, è l'economista austriaco Joseph Schumpeter, che in una conferenza tenuta a Montréal nel 1945, intitolata L'avenir de l'enterprise privée devant les tendances socialistes modernes, rileggerà l'enciclica Quadragesimo Anno evidenziandone il portato di un principio organizzatore cristiano che si oppone ad ogni sistema sociale a tendenza centralizzatrice e inquadramento burocratico:
"Ora, il corporativismo associativo non è una cosa meccanica. Non può essere imposto o creato dal potere legislativo. Non tende a realizzarsi da solo. Può nascere soltanto dall'azione degli uomini liberi e da una fede che li ispiri. Per fondarlo e garantirne il successo ci vogliono volontà, energia, un senso nuovo di responsabilità sociale. Dovrà lottare contro ostacoli formidabili e questo in un mondo la maggior parte del quale è già dominata da un dittatore bolscevico. Ma il suo problema fondamentale, nonché la sua gloria, si riassume nel fatto che, più ancora che una riforma economica e sociale, esso implica una riforma morale."
Secondo Schumpeter, il corporativismo cattolico delineato da Pio XI si sviluppa, differentemente dai modelli sociali verticistici visti in Occidente e in Oriente, in maniera orizzontale dalla cooperazione interclassista e autonoma dei corpi sociali. E comunque, ci tiene a sottolineare l'economista, una nuova forma economico-sociale, alternativa sia al liberalismo che allo statalismo, potrà essere realizzata solo grazie ad un fattore extra-economico, la fede.
Il riformismo, un grande moto storico
All'inizio della sua storia, il movimento socialista è rivoluzionario nella sua totalità e perciò combattuto e maledetto dalla borghesia. Non ha connotati marcatamente sindacali o marcatamente politici ma è un tutt'uno, e nelle Camere del Lavoro si discute indistintamente di politica e della situazione nei luoghi di lavoro, e si organizza la lotta per ottenere migliori condizioni di vita.
Ma con il passare del tempo le cose si complicano, il capitalismo reagisce all'emergere dell'antiforma, si difende, cerca di neutralizzare il proprio nemico, e pone le basi per la nascita di quel moto storico che tanti danni provocherà al proletariato: il riformismo. Il filo del tempo "Meridionalismo e moralismo" individua le tre forme storiche che esso assume in Italia: la forma socialdemocratica; la forma "secolare", facente capo alla Chiesa di Roma; la forma fascista.
Il movimento socialista compare sull'onda dello sviluppo della grande industria, dell'urbanizzazione di ampi strati di popolazione e della loro proletarizzazione, ed è ritenuto pericoloso per l'ordine costituito perché predica l'avvento di una società nuova e, allo stesso tempo, denuncia e combatte le ristrettezze e le miserie della vita operaia.
Inizialmente la borghesia ha un atteggiamento di pura repressione verso qualsiasi forma di organizzazione del proletariato, vista come un antistorico ritorno alle corporazioni medievali (cfr. Legge Le Chapelier del 1791); ma ben presto comprende che esiste una "questione sociale" e che la propria azione non può limitarsi a sedare gli scioperi e le manifestazioni operaie. Fermare l'unionismo proletario è impossibile ed essa comincia a tollerare l'esistenza dei sindacati, fino a giungere al loro riconoscimento legale e alla ricerca della collaborazione con i suoi dirigenti. Come scrive Bordiga in "Partito e classe":
"La borghesia stessa ha modernamente una simpatia ed una tendenza tutt'altro che illogica per le manifestazioni sindacali della classe operaia, nel senso che andrebbe con piacere – nella sua parte più intelligente – incontro a riforme del suo apparato statale e rappresentativo che facesse largo posto ai sindacati 'apolitici', ed anche alle stesse loro richieste di esercitare un loro controllo sul sistema produttivo. La borghesia sente che, finché si può tenere il proletariato sul terreno di esigenze immediate ed economiche che lo interessano categoria per categoria, si fa opera conservatrice evitando la formazione di quella pericolosa coscienza 'politica' che è la sola rivoluzionaria, perché mira al punto vulnerabile dell'avversario: il possesso del potere."
Nel corso del Novecento, per evitare il dilagare di movimenti rivoluzionari, la borghesia è dunque costretta un po' ovunque ad attuare misure sociali riformiste, che vadano incontro alle richieste delle masse operaie e le allontanino dal "demone" del comunismo. Viene introdotto il Welfare State, lo stato assistenziale, tramite il quale capitalisti e governanti provano a distogliere i proletari dalla lotta per una società diversa, in cui non esista più lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Nasce così all'interno dello stesso capitalismo l'esigenza di incanalare ampi strati di salariati verso la richiesta di un miglioramento della società da ottenersi per via graduale, sindacale e parlamentare. Si tratta di un movimento, quello riformista, in grado di ritardare per decenni lo scoppio rivoluzionario, snaturando la teoria del proletariato e trasformandola in una melassa interclassista. Non si è trattato di un espediente puramente propagandistico o ideologico ma del varo di misure assistenziali, assicurazioni sociali e programmi politici volto a mantenere unite le classi, cioè a fare accettare ai proletari il lavoro salariato quale sistema naturale.
Prima di entrare nel vivo dell'argomento, ci preme però sottolineare che le tre forme di riformismo elencate non hanno combattuto tra loro una lotta irriducibile di ideali e programmi, ma si sono divise il lavoro in una logica successione dei tempi, hanno marciato divise per colpire unite.
L'importanza storica della Rerum Novarum
Per capire il contesto storico da cui ha origine l'enciclica Rerum Novarum, la prima ad affrontare approfonditamente la questione operaia, è utile una breve biografia del suo estensore, papa Leone XIII.
Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci nasce nel 1810 a Carpineto Romano da una famiglia di piccola nobiltà rurale. Compie gli studi presso il collegio dei gesuiti di Viterbo, quindi si trasferisce a Roma, viene ordinato sacerdote e, dopo aver svolto incarichi importanti per la Santa Sede, nel 1843 è inviato come nunzio apostolico in Belgio, dove viene a contatto con una realtà europea molto inquieta, densa di lotte operaie, conflitti sociali e politici. Nel 1846 rientra in Italia e assume la carica di arcivescovo di Perugia, città in cui resta per circa trent'anni. Nel 1878 sale al soglio pontificio, dando inizio ad uno dei pontificati più lunghi nella storia della Chiesa (morirà all'età di 93 anni), durante il quale si troverà a gestire una complicata fase politica: sia per quanto riguarda i rapporti tra Chiesa e Stato e le tensioni derivanti dalla "questione romana" (Roma, sede del papato, era diventata capitale d'Italia), sia per la crescita delle lotte operaie.
Per non cadere in quella concezione idealistica secondo la quale sono gli individui a fare la storia e non viceversa, bisogna ricordare che alla formulazione della Rerum Novarum collaborano con i fatti e con le parole importanti figure del mondo cattolico europeo e americano. La dottrina sociale della Chiesa è un prodotto internazionale e collettivo anche se è la Chiesa di Roma con a capo il suo pontefice ad operare una sintesi. L'enciclica, come tutte le ideologie, le dottrine politiche e i programmi è l'espressione di una data epoca sociale, di determinati rapporti di produzione, e stabilisce regole di comportamento e indirizzi d'azione.
Un importante contributo teorico proviene dai gesuiti Matteo Liberatore, Luigi Taparelli d'Azeglio (colui che inventò la locuzione "giustizia sociale"), e Carlo Maria Curci, sostenitore dell'azionariato operaio attraverso la promozione di cooperative di produzione e consumo.
Sarà altrettanto significativa la figura del vescovo tedesco Wilhelm Emmanuel von Ketteler che nel 1848, l'anno dei grandi sconvolgimenti europei in cui viene pubblicato Il Manifesto del partito comunista, tiene nella cattedrale di Magonza sei discorsi sulle grandi questioni sociali nei quali si scaglia contro la spietata concorrenza tra lavoratori, determinata dal libero mercato, e teorizza la fondazione di cooperative cristiane di produzione e distribuzione, nonché la necessità della partecipazione dei cattolici alle lotte sindacali in corso.
Tra gli esponenti del cattolicesimo sociale c'è anche il cardinale Henry Edward Manning che, in Inghilterra, si adopera per la formazione di organizzazioni operaie cattoliche. Nel 1889 interviene in uno sciopero al porto di Londra che coinvolge decine di migliaia di dockers, e con la sua azione mediatrice riesce a trovare una risoluzione alla vertenza; all'accusa di fare socialismo risponderà che ciò che fa è cristianesimo.
Negli Stati Uniti spicca la figura del cardinale James Gibbons, soprattutto per la difesa dell'associazione operaia dei Knights of Labor, "Cavalieri del Lavoro", messi all'indice dalla Chiesa perché ritenuti massoni. Egli, insieme al cardinale Manning, lavora affinché questa organizzazione sia legittimata dal Sant'Uffizio, cosa che infine avverrà.
Anche il cardinale svizzero Gaspard Mermillod è un animatore della corrente sociale del cattolicesimo. Nelle conferenze che tiene presso i circoli operai predica la necessità di andare verso il popolo per allontanarlo dai falsi profeti. Nel 1884 fonda l'Unione cattolica di studi sociali ed economici di Friburgo, tra i centri studi che contribuiranno alla stesura della Rerum Novarum.
Non va dimenticato che il contesto in cui viene alla luce la Rerum Novarum è quello di un ribollire di lotte operaie e scioperi. Leone XIII risponde alle istanze emerse da questo ambiente e inaugura un nuovo rapporto tra cattolici, società borghese e mondo operaio.
La sua enciclica si divide in tre parti: un'introduzione, in cui è spiegato il motivo per il quale è stata scritta (la questione operaia); una parte che tratta del socialismo, individuato come falso rimedio ai mali del presente; e una parte in cui rivela la giusta strada da seguire, quella della concordia sociale, resa possibile non dal liberalismo bensì dalla dimensione etica del cristianesimo.
All'inizio del testo il pontefice indica quali siano le cause dello scoppio della lotta di classe:
"L'ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall'ordine politico passare nell'ordine simile dell'economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell'industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l'essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l'unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l'aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto."
La Rerum Novarum è un'enciclica di denuncia, nella quale la ricchezza dei pochi e la miseria dei molti vengono additate come i mali del mondo. Papa Leone XIII, ponendosi in concorrenza con i socialisti, giudica foriero di conflitto proprio il fatto che "un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all'infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile". Sono parole che fanno venire in mente gli slogan di Occupy Wall Street, il movimento nato negli Stati Uniti nel settembre del 2011, a pochi anni dallo scoppio della crisi dei mutui subprime, contro il sistema dell'1%, colpevole di affamare e impoverire il restante 99%. Ovviamente il movimento, a differenza dell'alto prelato, nelle sue parole d'ordine non mira all'unione delle classi ma all'eliminazione dell'impero globale di Wall Street. Ad ogni modo, conseguentemente, a nemmeno un mese dalla sua nascita il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace redige e pubblica, in vista della riunione dei capi di stato e di governo del G20, un documento incentrato sul tema della disuguaglianza intitolato Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un'autorità pubblica a competenza universale, in cui sostiene la necessità di un ente mondiale che si prenda cura dei bisogni dell'umanità:
"La concezione di una nuova società, la costruzione di nuove istituzioni dalla vocazione e competenza universali, sono una prerogativa e un dovere per tutti, senza distinzione alcuna. È in gioco il bene comune dell'umanità e il futuro stesso. […] In un mondo in via di rapida globalizzazione, il riferimento ad un'Autorità mondiale diviene l'unico orizzonte compatibile con le nuove realtà del nostro tempo e con i bisogni della specie umana. Non va, però, dimenticato che questo passaggio, data la natura ferita degli uomini, non avviene senza angosce e senza sofferenze."
Nel testo viene dato un colpo al cerchio e uno alla botte: il processo di globalizzazione è alla base del grande sviluppo dell'economia mondiale del XX secolo, ma con esso non è aumentata allo stesso tempo la distribuzione dei beni prodotti. Ma qual è la causa della progressiva polarizzazione della ricchezza a un polo della società e della povertà all'altro?
"Anzitutto un liberismo economico senza regole e senza controlli. Si tratta di una ideologia, di una forma di 'apriorismo economico', che pretende di prendere dalla teoria le leggi di funzionamento del mercato e le cosiddette leggi dello sviluppo capitalistico esasperandone alcuni aspetti. Un'ideologia economica che stabilisca a priori le leggi del funzionamento del mercato e dello sviluppo economico, senza confrontarsi con la realtà, rischia di diventare uno strumento subordinato agli interessi dei Paesi che godono di fatto di una posizione di vantaggio economico e finanziario."
La miseria crescente, per il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, non è quindi connaturata all'evolversi del modo di produzione capitalistico, che sviluppandosi esaspera i conflitti di classe, ma sarebbe causata da una precisa ideologia, quella del liberismo economico, messa da parte la quale la società potrebbe passare ad uno "sviluppo sostenibile", a un capitalismo che non abbia più i difetti dello stesso.
I settori più a destra della Chiesa nordamericana accusarono il documento di essere troppo piegato alle esigenze del movimento anticapitalista americano; altri prelati invece lo inserirono a ragione nel filone sociale della Chiesa. Non ci sono dubbi che l'oggetto storico e sociale dell'attenzione ecclesiastica è sempre lo stesso: il proletariato. Esso rimane un punto focale seppur storicamente trasformato dai tempi della Rerum Novarum. Essendo la classe che produce tutta la ricchezza esistente, e che negando sé stessa negherà tutte le classi con le loro sovrastrutture ideologiche e religiose, si capisce bene come la Chiesa non possa rinunciare a questa attenzione.
La sacralizzazione della proprietà e del lavoro
Le tre forme assunte dal riformismo hanno tutte un tratto in comune: non vogliono abolire la proprietà in quanto tale bensì renderla "sociale". Nel caso della Chiesa, la proprietà deve essere preservata perché, dice la Rerum Novarum, è un "diritto naturale", è "sancita dalle leggi umane e divine".
Il cristianesimo svolse un ruolo fondamentale nella nascita del lavoro salariato e continua a difenderlo e a sacralizzarlo, collegandolo alla famiglia, organo funzionale alla difesa della proprietà e quindi della forma sociale basata sulla proprietà.
Al contrario, i marxisti intendono la proprietà come una questione di classe, dato che parlare delle forme da essa assunte è come parlare dei rapporti di produzione: il lavoro estraniato è la causa immediata della proprietà privata. Nel Manifesto del partito comunista si afferma che l'avanguardia del "movimento reale", i comunisti, mettono davanti a tutto il tema della proprietà dato che esso è il problema fondamentale che deve affrontare il proletariato nel suo processo di liberazione. I rapporti di proprietà non sono assoluti o divini, ma soggetti a continui cambiamenti storici; la forma borghese sarà l'ultima forma possibile di proprietà: poi ci sarà solo un organico metabolismo sociale, dato che non vi sarà né salario, né merce, né famiglia né, tantomeno, Stato.
La socializzazione delle proprietà industriali e agricole è invece il cardine attorno a cui ruotano le varie proposte di riforma cattoliche, socialdemocratiche e fasciste, a partire proprio dalla Carta del Lavoro del 1927, dal Manifesto di Verona del 1943, e infine dal Decreto Legge sulla Socializzazione delle imprese del 1944, nel quale si tratta espressamente di "amministrazione delle imprese di proprietà privata aventi forma di società", "poteri del consiglio di gestione" e "responsabilità del capo dell'impresa". Il tema è affrontato dalla nostra corrente nell'articolo "Socializzazione o socialismo?" :
"Poco importa che i fascisti vantino un primo esperimento concreto di socializzazione e i democratici lo demoliscano in quanto demagogico e viziato all'origine dall'assenza di garanzia di libertà; poco importa che gli uni disputino agli altri la qualifica di 'veri socialisti' giacché, attuata dai regimi fascisti o dai regimi democratici, la socializzazione non solo non rappresenta una deviazione dal sistema capitalistico, ma ne è anzi il potenziamento estremo; non solo non è il socialismo, ma è l'estremo espediente della classe dominante per sbarrare la via alla rivoluzione proletaria."
La Rerum Novarum anticipa, nelle sue linee di fondo, il richiamo alla primaria importanza del produttore nella società fatta propria dal fascismo, e afferma "che il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale". La collaborazione all'interno di ogni azienda tra padroni e operai per l'equa ripartizione degli utili, l'equa fissazione dei salari, il diritto all'associazione sindacale, sono i punti di riferimento, gli invarianti, che guidano l'azione di ogni riformista.
Ne è chiaro esempio Amintore Fanfani, convinto assertore del corporativismo durante il Ventennio e uomo della Democrazia Cristiana negli anni successivi, che si occupa di redigere la prima parte dell'art. 1 della Costituzione italiana, dove si enuncia che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. L'articolo verrà più tardi completato dallo Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), che ha come fine dichiarato quello di "portare la Costituzione nelle fabbriche", ovvero incorporare le rivendicazioni e le azioni operaie all'interno dei meccanismi del diritto borghese, quindi in definitiva inibendole. Esso è stato sbandierato da tutti i sinistri come una delle "vittorie" ottenute con gli scioperi dell'Autunno caldo, in quanto grazie ad esso la democrazia entrava nelle fabbriche, con il diritto di assemblea, i consigli di fabbrica, e la trattenuta sindacale sulla busta paga. Per l'approvazione della legge 300 si era speso molto (insieme al giuslavorista socialista Gino Giugni) un politico di primo piano della DC, Carlo Donat-Cattin, che si era formato nella CISL torinese, e nel partito aveva guidato la corrente di sinistra Forze Nuove.
Nell'articolo "La socializzazione fascista e il comunismo" abbiamo avuto modo di sottolineare la continuità di fondo tra regime fascista e regime post-fascista, dimostrando come lo stato corporativo si fondi sul culto del lavoro. La Repubblica Sociale Italiana lo definisce in ogni sua manifestazione come la base dello Stato. Ma lo stato borghese non si basa su un generico lavoro, bensì su quello che produce plusvalore, unica fonte di reddito delle classi parassitarie, dalla grande alla piccola borghesia.
Non è solo la riforma protestante, con la sua etica calvinista del lavoro, ad averlo sacralizzato; anche la Chiesa cattolica lo venera, e al suo proprio interno ha prodotto organismi specializzati in materia come, per esempio, le scuole professionali di ogni ordine e grado dei fratelli di La Salle.
Negli anni del secondo dopoguerra, in Francia, il teologo domenicano Marie Dominique Chenu aveva sentito la necessità di scrivere una teologia del lavoro, per contribuire a creare le basi di una civiltà cristiana del lavoro. Per Chenu, il lavoro, se inserito in "un'economia umano-cristiana", può essere un "elemento primario della costruzione del mondo, e religiosamente parlando, del governo divino".
Per il fondatore dell'Opus Dei, lo spagnolo Josemaría Escrivá de Balaguer (canonizzato nel 2002 da papa Giovanni Paolo II), l'attività lavorativa non è una punizione divina comminata in seguito al peccato originale, ma un comandamento di Dio: l'uomo è stato creato per lavorare; e il lavoro fatto bene, con dedizione, cura e amore per servire gli altri, è santo, in quanto pari ad una preghiera, ad un'orazione.
I fedeli possono aspirare alla santità anche operando nelle strutture temporali, portando con rassegnazione la dura croce quotidiana. Non solo si deve santificare la professione lavorativa, ma questa deve essere considerata di per sé essa stessa santificante. In questo mondo il proletariato deve lavorare e sacrificarsi… avrà tempo nell'aldilà per l'eterno riposo.
Il tema della santificazione del lavoro è stato trattato recentemente anche da Papa Francesco nell'omelia del primo maggio del 2020, letta nella cappella di Santa Marta a Roma, intitolata "Il lavoro è la vocazione dell'uomo":
"Il lavoro umano è la vocazione dell'uomo ricevuta da Dio alla fine della creazione dell'universo. E il lavoro è quello che rende l'uomo simile a Dio, perché con il lavoro l'uomo è creatore, è capace di creare, di creare tante cose; anche di creare una famiglia per andare avanti. L'uomo è un creatore e crea con il lavoro. Questa è la vocazione."
Peccato che il lavoro, quando viene eliminato in massa dal moderno sistema di macchine, non sia né sacro né divino, ma semplicemente superfluo. E dal nostro punto di vista (che è quello dell'uomo futuro) è del tutto positivo che le attività lavorative un tempo svolte da uomini siano già da adesso eseguite da robot e computer: il processo che conduce al tempo di lavoro eliminato è irreversibile e diventa tempo di vita guadagnato. Questo tempo potrà essere impiegato, una volta superato il sistema del lavoro salariato, in attività utili alla nostra specie o semplicemente divertenti e piacevoli . In questa società la mancanza di lavoro è invece una condanna infernale che provoca frustrazione e mortificazione.
Fronteggiare la minaccia socialista
Il periodo in cui la Chiesa lavora alla stesura della Rerum Novarum è costellato dalla nascita di numerosi partiti e associazioni borghesi e operaie (nel 1889 a Parigi viene fondata la Seconda Internazionale). Si rende perciò obbligatoria per i cattolici una presa di posizione in merito alle grandi trasformazioni sociali, per esempio quelle che seguirono all'ingresso dell'esercito italiano a Roma attraverso la breccia di Porta Pia nel 1870.
Lo Stato della Chiesa, per la sua collocazione geografica, rappresenta un ostacolo all'unificazione dell'Italia, che non si considererebbe realizzata se Roma non dovesse esserne la capitale. Come aveva annunciato Cavour alla Camera dei deputati il 25 marzo 1861, il problema si può risolvere solo con un'azione di tipo politico-militare poiché di natura schiettamente territoriale. Già nel 1848 il Regno di Sardegna aveva decretato la soppressione degli ordini religiosi e la confisca dei loro beni, e nel 1850 le leggi Siccardi abolirono i privilegi di cui godeva il clero cattolico. Negli anni seguenti le misure legislative contro il potere della Chiesa non faranno che inasprirsi fino all'avvento del Regno d'Italia e alla promulgazione delle leggi del 1866 e del 1867 che disponevano la soppressione degli ordini, delle corporazioni e delle congregazioni religiose e la confisca dei beni degli enti religiosi.
L'8 dicembre 1864 Pio IX aveva pubblicato il Sillabo, un elenco contenente i principali errori del tempo, comunismo, liberalismo e ateismo, condannati in blocco in quanto contrari alla dottrina cattolica. Il filo del tempo "Ossature giubilari teoretiche" individua in sillabi e scomuniche armi di battaglia nelle mani della Chiesa, volte a "fermare il demone delle rivoluzioni antifeudali" che punta al sovvertimento dell'ordine divino. Per affermarsi, il nuovo stato italiano intraprende un duro scontro con la Chiesa, sottoponendola ad espropri ed anche persecuzioni, ma essa non è da meno e risponde con il non expedit (1868), l'invito ai cattolici ad astenersi dal partecipare alla vita politica del Regno d'Italia e il divieto di recarsi a votare.
Cavour tenterà una mediazione con l'autorità vaticana, lanciando la formula "libera Chiesa in libero Stato", che contemplava la separazione del potere spirituale da quello temporale con la piena autonomia delle due sfere, ma Pio IX rifiuta ogni compromesso, e il 15 maggio 1871 pubblica l'enciclica Ubi nos con la quale disconosce l'esistenza del Regno d'Italia definito un "potere ostile".
Nel giugno del 1873 Vittorio Emanuele II firma una legge che estende alla Provincia di Roma le leggi sulle corporazioni religiose e sulla conversione dei beni immobili degli enti morali ecclesiastici. Il Colosseo viene sconsacrato e convertito in un monumento pubblico di proprietà statale. In Italia vengono espulsi i religiosi dai conventi, che vengono confiscati a centinaia e destinati ad altro uso; vengono soppresse le facoltà di teologia nelle università, i seminari passano sotto il controllo del governo e i preti sono costretti a prestare il servizio di leva.
L'insieme di leggi e iniziative dello stato italiano contro la Chiesa di Roma sono mosse più che da motivazioni ideologiche, soprattutto dalla spinta reale che proviene dal prorompere del modo di produzione capitalistico, il quale preme per spezzare i vecchi assetti sociali, per fondare un mercato nazionale. Lo Stato moderno non accetta più investiture dalle gerarchie religiose e toglie ai preti il controllo della scuola e dell'istruzione.
In questo difficile periodo storico, all'interno della Chiesa cattolica si formano due tendenze: quella degli intransigenti, che muove una critica radicale al mondo moderno rifiutando in toto sia il liberalismo che il socialismo; e quella dei transigenti o conciliatoristi i quali, pur criticando alcuni aspetti del nuovo assetto politico, cercano un confronto con le forze politiche esistenti. Il non expedit non preclude la partecipazione alle lotte sociali, e difatti sarà questa la strada su cui i cattolici sociali muoveranno i primi passi per riconquistare il terreno conteso dagli altri attori in campo.
Con il passare degli anni si stabilirà un modus vivendi tra Chiesa e Regno d'Italia, quanto meno perché entrambi minacciati da un nemico comune che si sta espandendo a livello internazionale: quello socialista. Il Vaticano, come avremo modo di vedere nel corso del presente studio, scenderà a patti con il nuovo regime politico, e la borghesia riconoscerà la religione come una risorsa preziosa da usare per la difesa del proprio dominio di classe. Già la Rivoluzione francese, atea e materialista all'inizio, aveva finito per firmare, per mano di Napoleone, il Concordato del 1801 con la Santa Sede.
Santi Sociali contro la dottrina della lotta di classe
Il nemico principale della Chiesa resta dunque il socialismo, e la risposta dei religiosi non tarda ad arrivare. Il cuore del movimento operaio cattolico italiano è il Piemonte e in particolare la sua capitale, Torino, anche se importanti centri di organizzazione sono, in Liguria e in Lombardia, Genova e Milano. Si tratta del famoso triangolo industriale, l'area manifatturiera più importante d'Italia, dove nel corso del XIX secolo si erano formate grandi concentrazioni operaie, e dove germogliavano le prime organizzazioni di classe del proletariato, le società operaie e di mutuo soccorso che contavano migliaia di soci.
Il torinese Leonardo Murialdo, divenuto sacerdote nel 1851, comprende che nella sua città, a forte vocazione industriale, il proletariato può essere una forza decisiva del domani e che, lasciato a sé stesso, senza una guida spirituale, potrebbe diventare molto pericoloso. Ritiene perciò che i cattolici debbano farsi promotori di nuove iniziative sociali, capaci di andare oltre il piano della carità cristiana. I tempi stanno cambiando velocemente e il mondo cattolico non può farsi trovare impreparato di fronte alle sfide poste dalla modernità capitalistica.
Nel 1871 fonda quindi, nel capoluogo piemontese, l'Unione Operaia Cattolica, finalizzata al mutuo soccorso, all'istruzione professionale e all'educazione dei proletari (con la pubblicazione, a partire dal 1876 del giornale La Voce dell'Operaio), e si adopera affinché in ogni parrocchia si formi una sezione dell'Unione. Nel 1866 istituisce il Collegio degli Artigianelli, destinato a togliere dalla strada i giovani dei quartieri poveri e ad insegnargli un mestiere, e nel 1873 crea la Congregazione di San Giuseppe, dedicata all'assistenza e all'educazione della gioventù operaia. Nel 1896 sostiene la fondazione del Circolo Popolare di Studi Sociali e promuove la pubblicazione del giornale La Democrazia Cristiana.
Murialdo è un uomo di pensiero ma soprattutto di azione, è un grande organizzatore, e in una serie di conferenze tenute nel corso del 1897 sulla dottrina sociale cattolica invita a non perdere tempo in sterili dibattiti e a realizzare quanto scritto nella Rerum Novarum:
"Ci si indugia troppo, tra i cattolici, a discutere di associazioni composte da padroni ed operai, o di associazioni formate da soli operai. Ed intanto non si mette mano né alle une né alle altre. Mentre il socialismo incalza [...] necessita far sorgere, senza indugi ed altre attese, una organizzazione sociale cristiana, operaia e contadina, qualunque sia la sua forma [...] purché escluda l'esiziale dottrina della lotta di classe."
A cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo la città di Torino vede nascere quel peculiare fenomeno che sarà chiamato dei Santi Sociali: un gruppo di laici e religiosi che si impegnano attivamente per "l'elevazione morale ed economica" degli strati più poveri della popolazione, dagli ammalati ai carcerati, in linea con gli insegnamenti "sociali" della Chiesa. Tra di essi possiamo annoverare, oltre a Murialdo, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Francesco Faà di Bruno, Giuseppe Marello, Giuseppe Allamano, Pier Giorgio Frassati, figure ancora oggi molto note.
Anche nel resto d'Italia gli ambienti cattolici cominciano a muoversi nella direzione di un maggiore contatto con la popolazione lavoratrice, in ottemperanza ai voleri papali e in opposizione alle organizzazioni politiche socialiste. Nel 1874 viene fondata a Venezia l'Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici, un istituto suddiviso in cinque sezioni (azione e organizzazione cattolica, economia sociale cristiana, educazione ed istruzione, stampa periodica e non periodica, arte cristiana), votato a coordinare le opere di carità e a riunire le associazioni cattoliche in difesa della cristianità. La struttura organizzata è di tipo piramidale ed è composta da comitati regionali, diocesani e parrocchiali.
L'Opera ha una funzione principalmente antisocialista e al suo sesto congresso, che si tiene a Napoli nel 1883, sancisce che "per fronteggiare il socialismo occorre incrementare il movimento cattolico nelle campagne e nel proletariato urbano", bisogna "migliorare l'organizzazione mutualistica e assistenziale" cattolica così da "entrare in concorrenza diretta con le organizzazioni anarchiche e operaiste" e conquistare terreno tra le masse.
Dietro lo scontro tra ideologie ce n'è uno più importante tra modi produzione: da una parte una forma sociale a più alto rendimento energetico (n+1) che spinge per affermarsi, dall'altra quella vecchia (n) che lotta con tutti i mezzi a disposizione per non morire.
Il fascismo ha dimostrato una notevole capacità di inquadramento del proletariato; così ha fatto la socialdemocrazia, e prima ancora la Chiesa di Roma, organismo con alle spalle una storia millenaria di battaglie, lotte e guerre. Tutte queste forze hanno cooperato, consapevolmente o meno, affinché il proletariato, invece di costituirsi in classe per sé (con una propria organizzazione e un proprio programma), restasse classe controllata da altri. Come abbiamo detto poc'anzi, quando parliamo dell'azione sociale cattolica non intendiamo solo la lotta ideologica contro le teorie socialiste, ma anche le realizzazioni pratiche: costruzione di enti caritatevoli, mense, dormitori, orfanotrofi, scuole e ospedali, fondazione di sindacati, mutue e cooperative, volte ad attirare a sé i proletari.
Giuseppe Toniolo e le scienze sociali
La costruzione di strutture sindacali e mutualistiche richiede una dottrina che ne spieghi gli obiettivi e che operi da collante ideologico per i cattolici impegnati sul campo. Da questa necessità emergono nuovi teorici che in ambito economico e sociologico lavorano alla formazione della dottrina sociale della Chiesa. Tra questi, in Italia, il più importante è Giuseppe Toniolo, il quale partecipa fin dall'inizio all'Opera dei Congressi.
Toniolo nasce a Treviso nel 1845, svolge gli studi superiori a Venezia, e si laurea in giurisprudenza a Padova nel giugno del 1867. Presso l'ateneo patavino tiene nel 1873 la prolusione al corso di economia politica, Dell'elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche, in cui sostiene che l'interesse personale esercita sì una rilevante funzione nella vita individuale e collettiva, ma che serve altro all'economia per prosperare e fare del bene alla comunità: sono necessari i "più nobili impulsi del cuore".
Dopo aver insegnato economia politica presso l'Università di Padova, passa a quella di Modena per stabilirsi infine a Pisa dove è guida per molti studenti, alcuni dei quali in futuro elaboreranno teorie economiche pianiste e corporative. Ricordiamo in particolare Giuseppe Bruguier (1894-1955), uno dei teorici della Scuola di studi corporativi di Pisa, e Werner Sombart (1863-1941), influente teorico tedesco dell'economia a programma.
Toniolo rimane sempre fedele alla Santa Sede e dialoga con papi e cardinali. Muovendosi con molta cautela, cerca di attualizzare gli insegnamenti della Chiesa utilizzando le scienze sociali per dare sostanza "materialistica" al messaggio evangelico, portato così nel vivo delle contraddizioni sociali del suo tempo.
Nel 1889 istituisce l'Unione cattolica per gli studi sociali, una società di studi e di promozione sociale che vuole utilizzare il metodo scientifico per dare forza e struttura alla idea sociale del cristianesimo. Toniolo pensa che la dottrina cattolica possa concorrere a pieno titolo con il liberalismo e il socialismo, svolgendo un ruolo di primo piano nella società contemporanea, integrando branche della conoscenza come la sociologia, l'economia e la storia. A tal riguardo fonda a Pisa nel 1893 la Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie, che ha lo scopo di offrire un valido contributo a una ricostruzione "armonica e organica" dell'intera società.
Una delle sue opere più importanti è Dei remoti fattori della potenza economica di Firenze nel Medio Evo (1882), una ricerca di carattere geo-storico che, partendo dall'analisi dalle componenti naturali, dalla geografia del territorio, deriva le caratteristiche etniche e civili dei popoli che hanno vissuto in Toscana. Si tratta di uno studio a tutto tondo, che idealizza il modello di vita della Firenze medievale, la cui grandezza sarebbe il prodotto della armoniosa convergenza tra tradizione cristiana, sviluppo commerciale e dispiegamento della vita spirituale:
"Il valore spirituale interiore dell'uomo, imperando sopra tutte le estrinsecazioni dell'intelletto e del volere, genera e misura il valore stesso economico della società. È questa una verità alla cui illustrazione la storia di Firenze apporta validissimo contributo."
La centralità del capoluogo toscano nel periodo preso in esame, quello preumanistico, il suo rigoglioso sviluppo economico, commerciale, artistico, civile e culturale, è per Toniolo il prodotto di un'organicità di fondo, poiché nessuna componente sociale ed economica ha il predominio sull'altra, e gli organismi intermedi (le corporazioni) cooperano per il bene comune e lo sviluppo delle arti. Tracce di un pensiero economico cattolico che concepisce l'attività economica come subordinata all'ideale di vita cristiano, si trovano anche nelle opere di alcuni santi della Chiesa medievale, da Sant'Antonino da Firenze a San Bernardino da Siena, fino al beato Bernardino da Feltre, che per eliminare l'usura che strangolava commercianti e artigiani si era fatto promotore di istituzioni economiche-assistenziali come i Monti di Pietà.
Secondo Toniolo, l'economia lasciata a sé stessa, senza più vincoli morali, è diventata autoreferenziale, disgregando i fondamenti stessi della civiltà cristiana, con grave danno per la società nel suo insieme; bisogna pertanto ritornare a un modo di vivere e a una economia vincolati ad un'etica, in cui tutte le componenti sociali ritrovino un giusto equilibrio, e la persona umana sia rimessa al centro. La storia è orientata, e il fine del divenire umano, e quindi anche dello sviluppo economico, è il raggiungimento di un'armonica civitas cristiana.
Nella sua analisi troviamo dunque, più che una condanna del capitalismo, una critica al suo aspetto sregolato e liberistico, e un invito a portare l'economia a una dimensione sociale di mercato. Lo schema marxista, che pone la struttura economica alla base della sovrastruttura politica e ideologica, viene rovesciato: da buon idealista, lo studioso trevigiano è convinto che sia il fattore spirituale, composto dalle virtù civili, etiche e morali di un popolo, a poter rendere la società armoniosa. Il difetto maggiore della civiltà contemporanea, quella borghese, è la sua natura materialista e utilitaristica: le teorie dell'utile economico hanno preso il sopravvento, minando il quieto vivere e innescando conflitti di classe.
Non bisogna però confondere l'ideale "antiborghese" di Toniolo con quello dei cattolici conservatori e intransigenti, che aspirano ad un ritorno integrale alle corporazioni medievali (vedi il corporativismo monarchico-cristiano di René de La Tour du Pin o quello neofeudale di Karl von Vogelsang).
Toniolo riprende piuttosto alcuni modelli del passato per proporli aggiornati nel presente. Nello scritto "Provvedimenti sociali popolari. Studi storici e criteri direttivi a proposito delle odierne agitazioni sociali in Italia" , ripercorrendo la parabola storica delle istituzioni corporative dal Medioevo, egli ravvisa un processo di disgregazione delle vecchie corporazioni e di formazione di quelle nuove, una sorta di simmetria per cui il vecchio si dissolve e il nuovo emerge nella veste delle moderne organizzazioni mutualistiche e sindacali, impregnate di nuova "coscienza di classe".
No alla lotta di classe, sì alla compartecipazione
La Chiesa di fine Ottocento si convince dunque che l'azione dei cattolici tra gli operai è fondamentale per riportarli sulla retta via, per educare cristianamente il popolo lavoratore. Toniolo pensa sia di primaria importanza la ricomposizione del proletariato in classe lavoratrice autonoma, e per tal motivo i cattolici, anziché ostacolarle, devono assecondare e guidare la formazione di organizzazioni sindacali. Nell'articolo "Problemi, discussioni, proposte intorno alla costituzione corporativa delle classi lavoratrici" descrive i sindacati quali strutture emerse da necessità sociali maturate nei decenni precedenti in seguito al processo di proletarizzazione che l'avvento della grande industria aveva comportato: processo che i cattolici individuano per tempo ponendo la corporazione, nella forma dell'unione professionale, categoriale, mista o di classe, come centro della moderna organizzazione del lavoro nella società capitalistica.
Nessuna opposizione quindi all'esigenza operaia di organizzarsi per la tutela delle condizioni di lavoro e di vita. I cattolici devono anzi sostenere il processo di formazione e di crescita dell'autonomia di classe e spingerlo oltre il piano puramente rivendicazionista. La classe
"risulta da un più intimo ravvicinamento d'idee, di sentimenti, di mutui servigi, di comuni finalità, dipendente da affinità di educazione, di professione, d'interessi civili, di consuetudini di vita […] la vocazione odierna del popolo verso una propria autonomia di classe non si palesa soltanto con la tendenza a stringersi in unioni semplici, ma ancora con l'aspirazione di rinvenire in esse una somma di energie e un campo di esercizio per reggersi da sé, indipendentemente dalle classi superiori." ("Problemi, discussioni, proposte…")
Nel passo citato, spiccano le somiglianze con i programmi del "socialismo ghildista" inglese di G. D. H. Cole (1889-1959), secondo il quale i proletari invece di limitarsi alla lotta contro i padroni per rivendicare aumenti salariali e migliori condizioni lavorative, devono organizzarsi da sé, in cooperative, formando strutture economico-associative alternative a quelle borghesi. Per Toniolo autonomia di classe significava auto-governo operaio fondato sulla conquista collettiva di diritti privati e pubblici, e sull'assunzione di un carattere non solo di difesa economica delle organizzazioni operaie ma direttamente produttivo. Ciò non è molto diverso da quanto caldeggiava, alcuni anni prima, il riformista Ferdinand Lassalle (1825-1864), nella cui visione lo Stato avrebbe dovuto finanziare la creazione di cooperative operaie (e anche di unioni di credito e assicurative) come strumento per superare la condizione di sfruttamento che vivono sulla loro pelle i lavoratori, e renderli padroni di sé stessi. Anche per i coniugi Webb, teorici del fabianesimo (siamo nei primi anni del secolo scorso), l'emancipazione della classe operaia è possibile solo attraverso una presa di coscienza di sé in quanto classe, che avviene per mezzo dell'educazione, al fine di elevare eticamente e moralmente la classe, di incivilirla.
Il riscatto della classe oppressa attraverso la cultura è il chiodo fisso di ogni riformista; lo ritroviamo negli scritti dell'Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, in quelli del Movimento Comunità di Adriano Olivetti, e nei testi di tutti i movimenti di sinistra che credono nell'importanza dell'educazione, del confronto e del dialogo tra le classi. All'opposto, per i comunisti, autonomia del proletariato vuol dire azione volta a risolvere problemi immediati e generali dei lavoratori, impostata su basi classiste e per fini rivoluzionari (anche perché ogni conquista in questa società si rivela ben presto effimera). Se così non fosse, detta autonomia sarebbe in realtà dipendenza da ideologie e organizzazioni che hanno fini opposti a quello storico della classe sfruttata, e cioè il superamento del sistema del lavoro salariato. "Il lavoro è libero in tutti i paesi civili; non si tratta di liberare il lavoro, ma di abolirlo".
La battaglia anti-culturalista è parte integrante della storia della nostra corrente di riferimento, e inizia con la polemica tra Amadeo Bordiga e Angelo Tasca all'interno della Federazione Giovanile del PSI negli anni 1912-13. Il primo si scagliava contro la concezione "scolastica" del secondo, affermando che il successo della rivoluzione non dipendeva dalla preparazione culturale, bensì dall'ambiente sociale, dalla fede rivoluzionaria e dal sentimento socialista . Per Tasca l'influenza del partito socialista tra gli operai è come un'opera di "evangelizzazione" (usa proprio questo termine), e la cultura è lo strumento che mette in grado il proletariato di "gestire" la produzione stessa scalzando la funzione dei capitalisti .
Ma eliminando i padroni non si elimina di per sé il capitalismo: in regime borghese l'autogestione della produzione di tipo cooperativo è autosfruttamento del proletariato. Il protagonismo operaio propugnato da Toniolo sarà assunto e realizzato dal fascismo con il riconoscimento giuridico dei sindacati e la realizzazione della magistratura del lavoro. Per lo studioso cattolico l'autonomia dei corpi sociali era importante, ma lo era altrettanto la costituzione di commissioni miste permanenti con l'obbiettivo di raggiungere e mantenere la concordia sociale. Il conflitto tra le classi, elemento naturale in una società basata sullo sfruttamento del lavoro salariato, sarebbe stato così incanalato, attraverso il riconoscimento delle unioni professionali, in una trattativa perenne. Non è un caso che l'ex segretario della CISL, in una lettera al direttore di Avvenire , scritta a cinquant'anni dalla nascita dello Statuto dei lavoratori, abbia coerentemente ribadito la necessità di "legare il destino delle aziende a quello dei lavoratori, finalizzare gli investimenti pubblici al bene comune del Paese". Chiamiamolo pure neocorporativismo (anche se di nuovo c'è ben poco), come fanno alcuni oppositori sindacali, ma l'importante è avere chiaro quali sono i filoni storici di riferimento dei sindacati d'oggi.
C'è sicuramente un elemento invariante che accomuna la visione che del sindacato aveva Toniolo a quella fascista e a quella post-resistenziale: il lavoro inteso quale fondamento materiale e spirituale dello stato dei produttori.
Il carattere "sociale" acquisito dal lavoro nel fascismo avrebbe giustificato agli occhi del regime la messa al bando dei sindacati "rossi", poiché la lotta di classe era finita e gli stessi sindacati fascisti sarebbero stati "sbloccati" per essere assorbiti nelle corporazioni. Qui sta la differenza tra il corporativismo fascista e quello cattolico: se per il primo i sindacati devono essere inglobati dallo stato, per il secondo essi devono rimanere liberi, e la decisione dei lavoratori di iscriversi ad essi non deve essere obbligatoria.
"Il programma dei cattolici di fronte al socialismo", meglio noto come Programma di Milano, che Toniolo prepara per l'assemblea dell'Unione Cattolica del 2-3 gennaio 1894 nel capoluogo lombardo, e che si potrebbe rinominare programma dei cattolici contro il socialismo, riprende l'impianto della Rerum Novarum e opera una distinzione tra socialismo e movimento operaio: il primo è da combattere, il secondo da controllare. La ricomposizione delle lacerazioni sociali è possibile solo grazie alla legge del dovere cristiano, che mette in collegamento le classi sociali, alla ritrovata funzione sociale collettiva della proprietà, alla riforma bancaria, alla ricostituzione delle unioni professionali; infine ad una riforma che renda i contadini proprietari attraverso la diffusione di contratti di affittanza, enfiteusi e mezzadria, e contempli il graduale superamento del sistema del salario a favore di una compartecipazione dei lavoratori agli utili d'impresa (quella che il fascista Ugo Spirito chiamerà la "corporazione proprietaria").
Il Programma di Milano, rivendicando come scopo dell'azione sociale dei cattolici la ricostruzione dell'ordine sociale cristiano, non risparmia una dura critica all'ordine sociale borghese, ateo e anticlericale:
"Noi non domandiamo di puntellare qualche brandello di questo assetto sociale, che vacilla e crolla da ogni parte e che si allivella in un disgregamento atomistico sotto l'inonorata servitù della plutocrazia."
A causa dell'individualismo borghese la miseria dilaga nelle città e nelle campagne, ma quello socialista è un falso rimedio, peggiore del problema, poiché sotto la "maschera di emancipazione prepara un più crudele e universale servaggio": la proprietà privata non va abolita, ma rinfrancata e diffusa. L'attuale modo di produzione non va distrutto, bensì mutato nello spirito animatore. La strada per arrivare alla "democrazia cristiana del secolo ventesimo" è quella indicata dalla rinascita degli enti morali, delle opere pie, delle corporazioni religiose e dell'associazionismo cattolico.
Sarà sulla base di queste teorie che nascerà agli inizi del Novecento il distributismo di Gilbert Keith Chesterton , Vincent McNabb e Hilaire Belloc, una filosofia economica di stampo cattolico che prevede la distribuzione della proprietà al più alto numero di persone possibile attraverso la diffusione del credito sociale da parte delle banche alle famiglie, che devono essere le unità di base della società. Il problema del capitalismo, diceva Chesterton, non è il fatto che ci sono troppi capitalisti, ma che ce ne sono troppo pochi. Le idee distributiste daranno vita ad esperimenti sociali comunitari, come la Gilda di San Giuseppe e San Domenico a Ditchling, in Inghilterra.
La prima democrazia cristiana
L'insieme di teoria, principi e scritti divulgato da Toniolo contribuisce all'enuclearsi del movimento della democrazia cristiana, che rappresenta quell'andare verso il popolo indicato da Leone XIII e praticato con entusiasmo da una nuova generazione di militanti cattolici. Nell'articolo "Il concetto cristiano della democrazia" si afferma che la democrazia cristiana è
"l'ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifinendo in ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori."
Il movimento democratico cristiano si forma all'interno dell'Opera dei Congressi e ha come interpreti, oltre a Toniolo, i giovani Luigi Sturzo, Romolo Murri, Filippo Meda e Giambattista Valente, i quali avranno un ruolo di primo piano nella fondazione della Confederazione Italiana dei Lavoratori (CIL) e del Partito Popolare Italiano (PPI).
L'Opera dei Congressi vuole recuperare il terreno perduto dalle forze cattoliche, e nel giro di poco tempo mette in piedi centinaia di casse rurali, società operaie e sezioni giovanili, e dà vita ad una rete nazionale di associazionismo cattolico con lo scopo di penetrare in ogni ambito sociale. Il tentativo dei cattolici di riconquista della società attraverso la discesa nel campo della lotta sociale con la propaganda e l'organizzazione è analizzato con una certa ironia dalla nostra corrente nel filo del tempo "Le scissioni sindacali in Italia" :
"Quando non basta più il pulpito e il circolo cattolico appena meno buio e silenzioso della sacrestia, vediamo fondare la Camera del Lavoro bianca. Se riunisca sindacati, mutue o consorzi di agricoltori per comprare concime non è facile dire, talvolta ha la targa comune addirittura a quella della Banca Cattolica. Il buon credente risparmia per l'altra vita ma anche per questa valle di lagrime. Siamo al tempo della Rerum Novarum."
Il cattolicesimo sociale mette così in campo una forza considerevole, da cui prenderanno forma numerosi esperimenti, più o meno ortodossi. Tra i più interessanti il movimento delle leghe bianche, diffuso soprattutto nella Valle Padana ed embrione di un sindacalismo "classista" di ispirazione cristiana, alla cui nascita e sviluppo indirizzò il suo impegno fin dal 1904 un giovane cattolico, Guido Miglioli, interessato alle condizioni di vita dei contadini.
Eletto al Parlamento nelle elezioni del 1913, resta un personaggio fuori dai ranghi assumendo durante la Prima Guerra Mondiale una posizione neutralista, molto simile a quella del PSI: il suo slogan è "no guerra, ma terra". Definito il "bolscevico bianco" per il suo linguaggio a volte anche violento contro il padronato, rappresenta la corrente di sinistra all'interno del PPI e al secondo congresso del partito, tenutosi a Napoli nell'aprile del 1920, propone l'espropriazione delle grandi proprietà agricole, la distribuzione della terra ai contadini e un'alleanza politica con il PSI.
Il Primo Maggio del 1922, in piena reazione fascista, a Cremona, Crema e Soresina, Miglioli costituisce un patto d'intesa con il PSI, che permette di organizzare per la Giornata Internazionale dei Lavoratori manifestazioni congiunte tra operai cattolici e socialisti, in funzione antifascista. Per questo motivo, le squadracce di Roberto Farinacci gli devastano la casa e lo minacciano. Anche se il patto del Primo Maggio resterà circoscritto al livello provinciale, esso sarà l'antesignano della secessione dell'Aventino (1924), atto di opposizione democratica al governo Mussolini, e poi del Comitato di Liberazione Nazionale (1943), l'organizzazione politico-militare composta da cattolici, comunisti, socialisti, azionisti e liberali, contro l'occupazione nazista in Italia.
Per le sue posizioni "estremiste" Miglioli viene espulso dal partito nel 1924, viaggia dunque per l'Europa e visita l'Unione Sovietica, dove partecipa al primo congresso dell'Internazionale contadina, di cui diviene vicepresidente.
La corrente di giovani democratici cristiani che sul finire del XIX secolo si delinea all'interno dell'Opera dei Congressi ha alla sua testa il sacerdote marchigiano Romolo Murri che, insieme a Luigi Sturzo, si adopera per la formazione di un partito di cattolici ma non dichiaratamente cattolico, interconfessionale, capace di dare voce ai fedeli e alle istanze popolari, interclassista, e con un occhio di riguardo alle "classi subalterne" e alle loro esigenze materiali e spirituali.
Il Programma di Torino del 1899, Programma Sociale della Democrazia Cristiana di Romolo Murri, è lo sviluppo logico del Programma di Milano, ed elenca per punti le rivendicazioni del popolarismo democristiano:
1. Organizzazione della società in organizzazioni corporative professionali, autonome, generali ed ufficiali;
2. Rappresentanza proporzionale degli interessi sociali come modello di organizzazione corporativa della società;
3. Referendum e diritto d'iniziativa popolare;
4. Decentramento amministrativo, autonomia comunale e regionale;
5. Legislazione protettrice del lavoro;
6. Tutela e sviluppo delle classi e degli interessi agricoli;
7. Creazione di un ministero del lavoro e di camere professionali;
8. Diminuzione delle spese militari, degli oneri pubblici e della burocrazia amministrativa;
9. Riforma tributaria, imposta personale progressiva;
10. Repressione dell'usura, dei giochi di Borsa e della speculazione capitalistica, riduzione dell'interesse legale del denaro;
11. Tutela delle libertà civili, politiche e religiose;
12. Disarmo generale progressivo, fratellanza dei popoli e arbitrato internazionale.
Auspicando la fine dell'antagonismo tra le istituzioni politico-civili del paese e la Chiesa, Murri vorrebbe accelerare la formazione del partito (nel settembre del 1900 fonda a Roma la Democrazia Cristiana Italiana), ed entra in conflitto con le gerarchie vaticane, tanto che Leone XIII, nel 1901, interviene, con l'enciclica Graves de Communi Re, a spegnere l'entusiasmo dei giovani democristiani, definendo la democrazia cristiana non azione politica bensì "benefica azione cristiana a favore del popolo", e richiamando i cattolici all'unità e all'obbedienza all'autorità religiosa, la quale promuove la concordia tra le classi e non privilegia una particolare forma di governo. La Chiesa si dimostra molto prudente riguardo l'entrata dei cattolici in politica e preferisce aspettare che i tempi siano maturi per dare la sua benedizione.
Murri non rispetta i richiami all'ordine della Santa Sede e continua per la sua strada fondando nel 1905 la Lega Democratica Nazionale, movimento politico autonomo dalle gerarchie vaticane. È prima ammonito e poi, nel 1909, scomunicato da papa Pio X, che un paio di anni prima aveva condannato il modernismo con l'enciclica Pascendi Dominici gregis e costituito il Sodalitium Pianum, una specie di servizio segreto per la lotta contro la diffusione delle idee moderniste nella Chiesa. In effetti, le spinte moderniste di Murri non possono (ancora) essere accettate dalla Chiesa, anche perché la sua idea di democrazia cristiana prevede l'appoggio ad alcune battaglie portate avanti dal PSI. La sua linea politica è una sintesi tra il materialismo storico di Antonio Labriola, di cui fu allievo all'università La Sapienza di Roma, e il tomismo del cardinale Louis Billot, suo maestro alla Pontificia Università Gregoriana. Alcuni storici ravvisano nel pensiero murriano un'anticipazione del cosiddetto catto-comunismo e, per certi versi, della teologia della liberazione (che in alcune sue espressioni sostiene che il cristianesimo è sinonimo di comunismo ), una corrente di pensiero cattolico nata con la riunione del Consiglio episcopale latino-americano di Medellín (Colombia) nel 1968.
Murri non è un caso isolato. Un altro critico del conservatorismo delle gerarchie ecclesiastiche, anch'egli scomunicato, è il sacerdote Ernesto Buonaiuti, che critica l'impianto della Pascendi Dominici gregis rivendicando un riformismo religioso cattolico capace di parlare alla società contemporanea senza disdegnare gli apporti della scienza e della filosofia moderna, e di perseguire una fusione politica tra quelli che egli chiama i cristiani autentici, che si rifanno al contenuto rivoluzionario del Vangelo, e i socialisti leali, che hanno abbandonato il pregiudizio anti-cristiano:
"Il cristianesimo è nato comunista, e il comunismo è nato cristiano. Si tratta, naturalmente, di intendersi però così sul significato della parola cristianesimo, come sul significato della parola comunismo." (La chiesa e il comunismo, 1945).
Don Sturzo, invece, si disciplina ai dettami del Vaticano e, pur continuando a credere a una trasformazione della società italiana in senso cristiano e popolare, congela temporaneamente la sua azione ed arriva in maniera graduale e senza strappi con le gerarchie alla formazione del PPI.
Si occupa anche di sindacato: nel 1901 dà alle stampe un opuscolo intitolato L'organizzazione di classe e le unioni professionali, nel quale sostiene, sull'onda delle idee di Toniolo, l'importanza dell'autonomia organizzativa del proletariato: la classe operaia deve progredire socialmente ed economicamente per eliminare il disequilibrio sociale e garantire alla società l'ordine e la pace, in modo da assicurare il benessere comune; e nei luoghi in cui non esiste alcuna organizzazione professionale, i cattolici la devono promuovere, senza badare alla fede dei lavoratori ma piuttosto al fatto che essa sia il più accogliente e aperta possibile.
In seguito alla crisi determinata dal caso Murri, nel 1904 l'Opera dei Congressi viene sciolta, e si rende necessaria una riorganizzazione complessiva dell'associazionismo cattolico, questa volta sotto la regia del Vaticano, con la creazione dell'Unione economico-sociale, dell'Unione elettorale e dell'Unione popolare che, su iniziativa di Toniolo, dà vita nel 1907 alle "Settimane sociali", una serie di riunioni di studio per i cattolici sui temi più d'attualità.
Nel giugno del 1905, con la promulgazione de Il fermo proposito, un'enciclica che affronta il tema dell'apostolato, viene costituita un'organizzazione fedele ai dettami della Chiesa: nasce l'Azione Cattolica, "associazione laica per la propaganda cattolica religiosa nel mondo profano".
I tre tempi nel rapporto Stato-Chiesa
Nel filo del tempo "Cristianesimo e politica" si afferma che il "peso del fattore religioso nella lotta politica" assume caratteristiche del tutto diverse nel corso dello sviluppo capitalistico. Tali caratteristiche sono schematizzabili in tre tempi: 1) il tempo della preparazione, dello svolgimento e della vittoria della rivoluzione borghese, in cui la classe vittoriosa assume una posizione nettamente anticlericale; 2) la fase di consolidamento del potere borghese, nella quale la Chiesa è sottoposta ad espropri e limitazioni, e il suo potere nella società viene ridotto con il divieto di insegnamento della religione nelle scuole; 3) il periodo attuale, nel quale il capitalismo trionfa in tutto il globo (la data simbolica è il 1917, anno in cui viene battuta l'ultima forza nazionale feudale, quella zarista), e che vede le forze, dapprima contrapposte, di Chiesa e borghesia nazionale trovare un'unità d'intenti in funzione controrivoluzionaria.
Questa unità, in essere già da tempo, viene sancita con i Patti Lateranensi, firmati dalla Santa Sede e dallo Stato italiano l'11 febbraio del 1929. Il primo articolo del Trattato afferma che "la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato", e l'intero documento è corredato da quattro allegati: pianta del territorio dello Stato della Città del Vaticano, elenco e pianta degli immobili con privilegio di extraterritorialità e con esenzione da espropriazioni e da tributi, convenzione finanziaria.
A dimostrazione della continuità tra la fase fascista e quella cosiddetta post-fascista, fino ad ora nessun governo ha messo in discussione i pilastri portanti del Concordato. I Patti furono riconosciuti costituzionalmente dall'articolo 7 nel 1948, e l'accordo di Villa Madama (nuovo concordato o concordato bis) del 1984, stipulato tra il Vaticano e la Repubblica Italiana, si limitò a regolarne alcuni punti.
Eliminato il problema di un possibile ritorno al precedente regime feudale, ogni ateismo della borghesia viene meno e la religione diventa un utile puntello al servizio della classe dominante per sorreggere lo status quo. Perciò la lotta contro la religione non è altro che la lotta contro quel mondo alienato, del quale la religione è il prodotto. Possiamo dire che oggi è il capitalismo a sfruttare la religione e non viceversa, sia per la sua funzione di ammortizzatore sociale per il tramite delle opere di carità, che per la produzione di falsa coscienza (che dà un barlume di senso all'esistenza in una forma sociale del tutto priva di senso).
In Per la critica della filosofia del diritto di Hegel , Marx sostiene che in Germania sussisteva una situazione politico-economica ibrida che portò alla formazione di una concezione assoluta dello stato che combinava religione, etica e morale, facendone un tutt'uno, e approdando ad un ragionamento tipico del romanticismo, secondo il quale i problemi non risolti nella pratica vengono demandati a Dio. La religione è di supporto oppure si sostituisce allo stato quando è manchevole. Per Marx, la critica della religione si deve trasformare nella critica del diritto, e la critica della teologia nella critica della politica. Tale analisi è importante perché fa parte delle conoscenze necessarie per poter affrontare nel suo arco storico il cristianesimo, che, nato al culmine della potenza dell'Impero Romano impiegherà comunque trecento anni per affermarsi. Esso non nasce come religione di stato ma si adegua alle condizioni che trova e lo diventa successivamente, sviluppando una funzione conservatrice che risulta consolidante quando l'Impero comincia a vacillare.
"Tutti quegli elementi che il processo di dissoluzione del mondo antico aveva messo in libertà, che cioè aveva sfrattato, entravano l'uno dopo l'altro nella sfera di attrazione del cristianesimo, come l'unico elemento che resisteva a questo processo di dissoluzione - perché ne era appunto il necessario prodotto - e che perciò permaneva e cresceva, mentre gli altri elementi erano soltanto mosche effimere." (F. Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo)
Caduto l'Impero Romano d'Occidente, durante il feudalesimo la rete europea delle abbazie conserva il sapere dell'antichità e diventa una struttura produttiva e organizzativa fondamentale per la società dell'epoca. La Chiesa si fa Stato globale, concede o nega il suo supporto a re e imperatori, di fatto ne influenza le decisioni diventando così arbitra in situazioni inestricabili. L'intreccio di interessi fra Chiesa e Stato è quindi un fatto storico che da tempo investe le due strutture al loro massimo livello. Quando l'ateismo della borghesia regredisce rispetto alle sue origini, perdendo la freschezza un po' ingenua dell'ateismo dei d'Holbach, abbandonando la concezione deista, materialista e anticlericale degli enciclopedisti e degenerando nell'anticlericalismo popolare dei Mazzini e dei Garibaldi, la Chiesa e lo stato non si trovano più sullo stretto sentiero della tribolata convivenza ma sull'autostrada del compromesso sancito da legge.
La battaglia iniziata nel 1912 dai giovani socialisti napoletani contro le spinte bloccarde e per l'autonomia del proletariato dalle influenze borghesi e religiose, vuole palesare l'alleanza di fatto tra preti, massoni e socialdemocratici in funzione antisocialista: i laici di ieri stavano diventando i chierici di oggi e di domani , sottolineano i giovani rivoluzionari mentre con intransigenza rifiutano ogni alleanza elettorale ribadendo l'incompatibilità tra appartenenza al partito socialista e adesione alla massoneria e ad altre società anticlericali . La battaglia contro lo smarrimento della linea di classe è portata avanti prima all'interno del PSI fino alla scissione del 1921 e alla fondazione del Partito Comunista d'Italia, e poi ancora come Sinistra Comunista "italiana" nell'Internazionale in difesa della continuità del programma comunista, fino alla riorganizzazione del piccolo movimento internazionalista nel secondo dopoguerra.
Interclassismo, fine dichiarato del popolarismo
Con l'inizio del nuovo secolo, il non expedit va attenuandosi, fino all'assenso della Santa Sede alla stipula di un accordo politico, il patto Gentiloni, tra i liberali di Giovanni Giolitti, la monarchia e l'Unione elettorale cattolica italiana per le elezioni politiche del 1913. La data segna l'ingresso ufficiale in parlamento dei cattolici che, in cambio del loro appoggio, chiedono che tutti i candidati della lista perorino una serie di punti rispondenti agli interessi della Chiesa; interessi che vanno dalla difesa della libertà di coscienza e di associazione, al diritto dei padri di famiglia ad avere per i propri figli una seria istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, alla resistenza ad ogni tentativo di indebolire l'unità della famiglia con l'assoluta opposizione al divorzio.
Nel gennaio del 1919 viene fondato da Luigi Sturzo, Giovanni Bertini, Giovanni Longinotti, Achille Grandi e altri, il Partito Popolare Italiano (PPI); la commissione provvisoria del partito redige il manifesto Appello ai liberi e forti nel quale vengono esplicitati i capisaldi del popolarismo ispirati alla dottrina sociale della Chiesa. Ecco come in "Cristianesimo e politica" viene inquadrata la figura di Sturzo, leader della nuova formazione politica:
"Il sacerdote cattolico Luigi Sturzo, una delle pochissime persone che pensino e scrivano in Italia di questioni storiche e politiche in modo decente, nel fondare il Partito Popolare Italiano oggi Democrazia Cristiana fece opera di stile luterano e di fine borghese. Quel partito nella sua dottrina non pone l'accettazione di una data religione o la professione militante di un dato culto. I democristiani non vogliono essere chiamati partito confessionale o cattolico ed hanno ragione, in quanto l'impiego della religione come forza politica in forma confessionale è ormai sorpassato storicamente e la loro funzione corrisponde alla nuova moderna fase."
Si tratta di un riconoscimento che nel clima che vedeva contrapposti "politicamente" Coppi e Bartali e Togliatti e De Gasperi, non era compresa dai militanti del fronte socialcomunista. Per loro la DC era il male, come del resto era stato loro insegnato, e il compromesso politico un gioco delle parti piuttosto indigesto.
La moderna fase di dominazione borghese, come già abbiamo detto, è quella in cui la religione cristiana (ma non solo essa), dal punto di vista della difesa di valori quali la famiglia, la proprietà, l'autorità, con la sua opera di propaganda e organizzazione nella società, è funzionale alla conservazione dell'esistente, alla sopravvivenza dell'irrazionale ordine capitalistico.
I fini dichiarati del popolarismo sono l'intermediazione tra le classi e la difesa delle libertà religiose, della famiglia e dell'insegnamento, dell'agibilità dei sindacati bianchi e dell'azionariato operaio. Al congresso del PPI tenutosi a Bologna nel giugno del 1919, Don Sturzo spiega perché il nuovo partito, seppur di ispirazione sociale cristiana, è aconfessionale:
"È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico. I due termini sono antitetici; il cattolicismo è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall'inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione."
Il PPI dichiara di rifarsi alla dottrina di cui la Chiesa è depositaria, ma vuole presentarsi come un istituto autonomo e indipendente. Nelle parole del politico cattolico, il nuovo partito è formato da quella parte di cattolici che ha deciso di impegnarsi in politica per servire il popolo (non solo i cristiani) e la nazione, accettando di battersi sul terreno della contesa parlamentare.
Nel 1919 papa Benedetto XV abroga ufficialmente il non expedit , che nei fatti era già da tempo inapplicato.
Il riformismo, nelle sue varie espressioni politiche, è un potente fenomeno di controllo delle masse, che vengono allontanate dalle determinazioni materialiste rivoluzionarie per essere divise in vari tronconi ideologici al fine ridurne la forza. La Chiesa si muove dunque su due piani: su quello dell'organizzazione sindacale, e su quello dell'organizzazione politica. Solo un anno prima della nascita del PPI, nel marzo 1918, si costituiva la Confederazione Italiana dei Lavoratori (CIL), di cui fu primo segretario generale Giovan Battista Valente, uno dei giovani formati alla scuola del Toniolo. L'opera sindacale di Valente sarà di primaria importanza perché egli porta in Italia l'idea dell'organizzazione centralizzata già adottata dai sindacati cristiani tedeschi, nei quali aveva militato durante otto anni della permanenza in Germania. La sua proposta organizzativa rappresenta un passo avanti rispetto alle leghe bianche locali: per togliere spazio d'azione ai socialisti Valente disegna un sindacato a direttiva cristiana ma non confessionale, organizzato centralmente a livello nazionale, e basato sul modello di quelli "rossi", pertanto formalmente autonomo dai partiti, confederale e disciplinato.
Questo schema organizzativo non tarda a dare i suoi frutti. Nel 1920, rispetto ai quasi 2 milioni di iscritti alla CGdL, la CIL associava 1.179.000 lavoratori tra i quali figuravano 740.000 mezzadri e piccoli affittuari, 108.000 piccoli proprietari, 95.000 salariati agricoli, 131.000 tessili, 15.000 metallurgici, 24.000 ferrovieri, 13.000 lavoratori del legno, 13.000 statali e 7.500 edili.
Con l'aprirsi del nuovo secolo la centralizzazione nazionale dei sindacati diventava un passaggio obbligato: dopo la nascita nel 1906 della Confederazione Generale del Lavoro, nel 1910 anche gli industriali avevano costituito il loro sindacato, la Confederazione Italiana dell'Industria. Sulla scena sociale si fronteggiavano dunque grandi organizzazioni politiche e sindacali, risultanti di interessi economici coalizzati e pronti a mettere in campo la forza.
Alla presidenza della CIL succedono a Valente prima Giovanni Gronchi (1920-22) e infine Achille Grandi (1922-26). Quest'ultimo, al termine della Seconda guerra mondiale, aveva dato vita alle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (ACLI), che si definivano un movimento autonomo di lavoratori cristiani e che, in un congresso straordinario del 1948, porteranno alla nascita della "Libera CGIL", poi CISL. Negli anni Sessanta e Settanta sotto la guida di Livio Labor ed Emilio Gabaglio, le ACLI lavorano per l'unità sindacale (la spinta unitaria è presente anche nella CISL guidata da Luigi Macario e Pierre Carniti), e cercano un dialogo con i movimenti studenteschi e giovanili del periodo. Labor nel 1971 fonda il Movimento Politico dei Lavoratori per dare una casa politica a quei cattolici di sinistra che non si sentono rappresentati dalla DC. L'esperimento non riscuote successi elettorali e di lì a poco si conclude con la confluenza di buona parte dei membri del movimento nel PSI.
La cosiddetta opposizione al fascismo
Bordiga, nel suo "Rapporto sul fascismo al V Congresso dell'Internazionale comunista" (2 luglio 1924), nota che il fascismo al suo esordio adotta un programma anticlericale che prevede il sequestro delle proprietà delle congregazioni religiose, la fine delle sovvenzioni pubbliche alla Chiesa e altro ancora, per contrastare la presenza del PPI nelle campagne tra contadini e mezzadri, dove questo era particolarmente radicato. Successivamente il partito fascista diventa il partito di riferimento delle gerarchie vaticane, lasciando da parte ogni traccia dell'anticlericalismo delle origini. Nel corso del 1924 la rivista La Civiltà Cattolica spiega ai fedeli che non bisogna confondere il comportamento anticlericale e violento di alcuni scalmanati in camicia nera che se la prendevano anche con qualche prete, con l'opera del fascismo tesa a instaurare buoni e proficui rapporti tra il Vaticano e lo stato italiano.
Inizialmente i popolari partecipano al governo fascista con alcuni ministri, ma in seguito all'assassinio di Giacomo Matteotti passano all'opposizione disattendendo le indicazioni che arrivano dal Vaticano. Don Sturzo sarà costretto ad espatriare, e andrà prima in Inghilterra, poi in Francia e infine in America. De Gasperi, giovane e promettente esponente del PPI, sarà accolto in Vaticano come bibliotecario e sparirà dalla scena politica fino alla caduta del fascismo, mentre altri popolari saranno costretti a ritirarsi o a fuggire dall'Italia.
La scelta del Partito Popolare di passare all'opposizione del fascismo provoca dunque delle ripercussioni politiche, che però non negano al Vaticano un dialogo e la possibilità di stringere accordi con il regime, anche perché Mussolini contribuisce a migliorare le condizioni del clero con la concessione di una serie di prebende e reintroducendo l'insegnamento della religione nelle scuole.
La borghesia italiana, caratterizzata nella sua fase risorgimentale e combattente da un ateismo mangiapreti, nella sua fase decadente finisce per riconciliarsi con la Chiesa fondando "il capolavoro della repubblica (tutta romana) vaticankremlinquirinalesca, erede legittima della storica soluzione data dal fascismo alla annosa questione tra Stato e Chiesa".
Nel campo della sinistra, già dalla metà degli anni Trenta, il PCI adotta la politica della "mano tesa" verso i cattolici in funzione antifascista, e in Francia il segretario del PC, Maurice Thorez, lancia un appello su Radio-Paris il 17 aprile 1936 di questo tenore:
"Noi ti tendiamo la mano, cattolico, operaio, impiegato, artigiano, contadino, noi che siamo laici, perché tu sei nostro fratello, e sei afflitto, come noi, dalle stesse preoccupazioni".
Il messaggio viene trasmesso prima delle elezioni politiche che portano al potere il Fronte popolare francese, destando simpatie in alcuni settori piccolo borghesi e progressisti del mondo cattolico transalpino.
Nel secondo dopoguerra anche gli stalinisti del PCI si avvicinano ai cattolici. Togliatti, durante un comizio al teatro Brancaccio di Roma il 9 luglio 1944, parla della necessità di un'alleanza con le masse cattoliche e, durante il comitato centrale del PCI del 12 aprile del 1954, si spinge a proporre un accordo di natura non congiunturale tra cattolici e comunisti al fine di salvare l'umanità dal rischio della guerra atomica. Nel 1963 in un discorso a Bergamo sul "destino dell'uomo", afferma che il socialismo può trovare un prezioso alleato nel mondo religioso:
"Abbiamo affermato e insistiamo nell'affermare che l'aspirazione a una società socialista non solo può farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma che tale aspirazione può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa stessa, posta di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo."
Nello stesso anno papa Giovanni XXIII pubblica l'enciclica Pacem in Terris in cui chiama tutte le nazioni e le comunità politiche al dialogo e al negoziato. La nostra corrente aveva antiveduto i risultati della lunga degenerazione del PCI, e sul finire degli anni Quaranta aveva scritto nell'articolo "Il marxismo di fronte a Chiesa e Stato" che se gli stalinisti
"conquistassero il potere legale dello Stato borghese in Italia non cambierebbero politica ecclesiastica e religiosa, ma sarebbero anche pronti ad accettare posti in un governo di collaborazione coi cattolici, come postulano ad ogni momento."
In Italia, il Comitato Nazionale di Liberazione prima, e i governi tripartiti poi, promuovono un abbraccio sempre più stretto tra socialisti, comunisti e cattolici. Ma in seguito alla polarizzazione politica del mondo tra Oriente e Occidente con l'inizio della cosiddetta guerra fredda, tale alleanza verrà meno, pur senza nessuna esplicita rinuncia ad una "riconciliazione".
Enrico Berlinguer, nell'autunno del 1973 lancia sulle pagine della rivista Rinascita la proposta del "compromesso storico", che verrà accolta qualche anno più tardi dal presidente della DC Aldo Moro, convinto che fosse arrivato il momento di superare la conventio ad excludendum del PCI dal governo della nazione. La sua uccisione da parte delle Brigate Rosse interrompe questo processo, che troverà compimento politico solo alcuni decenni dopo. Dal Concilio Vaticano II in poi, il pluralismo politico tra i cattolici viene riconosciuto dalla Chiesa ed essi, anche in seguito alla frammentazione della DC nel corso degli anni Novanta, si sparpagliano un po' in tutti i partiti dell'arco parlamentare.
Ma l'idea di una collaborazione organica tra le due grandi correnti del riformismo italiano non tramontò. Nell'ottobre del 2007, con la nascita del Partito Democratico, si arriverà finalmente alla fusione di quel che resta del cristianesimo sociale della DC (La Margherita) con i rimasugli del vecchio PCI (DS). La saldatura è la rappresentazione plastica della bancarotta politica del riformismo italiano, che non ha più nulla di pratico da proporre per migliorare le condizioni di vita delle masse, e quindi unisce le sue forze nel disperato tentativo di auto-conservarsi. La nascita del Partito Democratico è una confessione storica: tra cattolici e stalinisti non vi è mai stata una sostanziale differenza di programmi e in seguito alla caduta del Muro di Berlino ogni ostacolo ideologico all'embrasse è venuto meno:
"La nascita del Partito Democratico ha creato le condizioni per una svolta, non soltanto politica, ma anche culturale e morale, nella vicenda italiana. È in campo una forza che si propone di dare al Paese, finalmente, una nuova guida. Si riapre una speranza, si può tornare a pensare il futuro. Questa grande forza popolare, intorno alla quale si stanno raccogliendo le tradizioni culturali e politiche riformatrici del Paese, si pone il compito di mobilitare le energie e i valori del nostro popolo per rimettere questo Paese in cammino." (Manifesto dei Valori del Partito Democratico, approvato il 16 febbraio 2008)