Isolazionismo americano post-elettorale?

Cari compagni,

è evidente che l'ascesa di Trump, ennesimo battilocchio della storia, è frutto di cambiamenti materiali nella società capitalistica, accelerati in particolare dopo la crisi del 2008. Questi sviluppi non sono stati una sorpresa, avendo già previsto la crescita del nazionalismo e il percorso di scontro tra economie avanzate ed emergenti, con corollari di guerre commerciali, predominio finanziario e conflitti militari.

Con l'avvento di Trump si è anche verificato un cambio di personale alla guida dell'amministrazione e nei gruppi di influenza legati a interessi finanziari ed economici interni alla borghesia. Se consideriamo potenziali divergenze all'interno della borghesia nazionale, potremmo anche concludere che non tutte le frazioni della borghesia condividono la stessa linea strategica riguardo alle politiche economiche e sociali interne e al consolidamento del dominio mondiale targato USA.

In quest'ottica, la cosiddetta svolta "isolazionista" sembra piuttosto un cambio di strategia. Il suo fine principale è contenere, se non bloccare, l'ascesa della potenza economica e strategica cinese. Questo obiettivo viene perseguito con misure protezionistiche come i dazi sul commercio – avviati da Obama, intensificati dalla prima amministrazione Trump e mantenuti, persino ampliati, da Biden – sfruttando il potere (ancora significativo ma in declino) del dollaro nei mercati internazionali e, in prospettiva, con operazioni militari.

Un impegno più deciso verso il contenimento della Cina potrebbe comportare un disimpegno americano dall'Ucraina, parzialmente compensato da un maggiore coinvolgimento europeo. Tuttavia, l'Europa sembra mancare sia della forza sia dell'unità d'intenti necessarie per sostituire completamente il sostegno militare e politico degli Stati Uniti.

Alla luce di certe "manchevolezze" registrate durante il conflitto ucraino, un altro aspetto della politica "isolazionista" riguarda il rafforzamento dell'industria militare interna, con l'obiettivo di garantire, se e quando necessario, livelli elevati di produzione bellica e accesso a tecnologie avanzate e materie prime strategiche.

Infine, l'avvento di Trump potrebbe segnalare anche una reazione al potenziale acuirsi dello scontro di classe. Negli Stati Uniti si è registrata un'intensificazione delle lotte sindacali in diversi settori, con risultati positivi per i lavoratori in sciopero, costringendo il capitale a concessioni impensabili fino a pochi anni fa. La nuova amministrazione sarebbe probabilmente più lesta a rafforzare il fronte del capitale in caso di estesi conflitti sociali.

Come comunisti, comprendiamo le forze materiali in gioco nella società capitalista e la direzione che questa prenderà nel prossimo futuro. Se non ricordo male, qualcuno ha osservato la settimana scorsa che non siamo indifferenti agli eventi che caratterizzano la società borghese. Mi chiedo anch'io: possiamo davvero considerare indifferente, dal punto di vista della rivoluzione, l'esito delle elezioni americane? Certamente non si tratta di tifare per l'uno o per l'altro, ma possiamo riconoscere che rappresentano interessi non del tutto identici all'interno della classe dominante? Questo potrebbe avere delle ricadute sullo scontro di classe, per esempio, con il possibile disimpegno USA nel conflitto con la Russia?

Cari saluti.

 

Ciao compagno,

a proposito di potenziali divergenze all'interno della classe dominante americana, la prima che salta agli occhi - come nota anche il direttore di Limes - è proprio quella tra Musk e Trump.

Il primo, infatti, pur avendo supportato in prima persona il tycoon, è l'espressione di interessi diversi da quelli del futuro presidente degli USA. Trump ha minacciato dazi del 60% sulle merci cinesi, avviando così un'escalation della guerra commerciale, Musk ha enormi interessi in Cina, visto che la più grande fabbrica di Tesla è a Shanghai (l'impianto ha una capacità annua di oltre un milione di vetture). Sarà interessante seguire l'evoluzione di questo rapporto e i riflessi che avrà sull'America e sul resto del mondo. Intanto sembra che Trump voglia usare Musk e Ramaswamy ("Department of Government Efficiency", DOGE) come testa d'ariete contro gli apparati, quelli che la volta scorsa gli hanno messo i bastoni tra le ruote. Gli USA devono, da un lato, tutelare i loro specifici interessi nella lotta mondiale per la contesa del plusvalore altrui, dall'altra farsi portavoce e difensori di un capitalismo oramai autonomizzato.

Per quanto riguarda la politica "isolazionista" americana di cui parli, sarebbe utile rileggere le quattro rassegne pubblicate sul numero 40 della rivista, scritte in seguito alle elezioni presidenziali del 2016. In particolare, ti segnaliamo la rassegna "Donald Trump e l'isolazionismo americano", che è ancora attuale pur essendo passati quasi dieci anni da quando fu redatta.

Difficile stabilire se la nuova amministrazione sia più lesta a rafforzare il fronte del capitale in caso di estesi conflitti sociali. Scrivi: "possiamo davvero considerare indifferente, dal punto di vista della rivoluzione, l'esito delle elezioni americane?" Certo che no, un personaggio come Trump è il megafono di ciò dice e pensa la maggior parte degli americani, indebitati fino al collo e alle prese con il caro-prezzi. Quello che risulta chiaro è che il nuovo presidente e la sua squadra non potranno cambiare la storia a loro piacimento, semmai sarà la storia a farli ballare al proprio ritmo. Gli Stati Uniti vorrebbero concentrarsi sul loro grande rivale, la Cina, ma il ruolo di sbirro mondiale che ricoprono impedisce loro di disinteressarsi a ciò che succede negli altri quadranti geopolitici. Gli Accordi di Abramo (2020), ad esempio, voluti proprio dalla vecchia amministrazione Trump, puntavano ad appaltare la sicurezza in Medioriente ad Israele con l'appoggio di Emirati Arabi Uniti e Bahrein; sappiamo com'è andata a finire.

Quello che stiamo vivendo è un periodo molto particolare, un'epoca in cui i giga-capitalisti del paese più importante del mondo teorizzano che bisogna traslocare su altri pianeti oppure costruirsi bunker su isole deserte in attesa dell'apocalisse. Possiamo anche riderci sopra, l'industria cinematografica si è già sbizzarrita (vedi Don't Look Up di Adam McKay); resta il fatto che, come diceva la Sinistra negli anni '50, il pianeta è (sempre più) piccolo. È dunque evidente che la crescita non può essere infinita.

Un caro saluto.

Rivista n. 56