Prefazione

Gli scritti raccolti in questo volume, che abbiamo chiamato con il titolo del primo in ordine di data, America, comparvero dal 1947 al 1957 su Prometeo, Battaglia Comunista e Il programma comunista.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale si compie definitivamente la serie storica, citata da Marx, dei paesi che si susseguono, nel passaggio dal mercantilismo al capitalismo e quindi dal capitalismo all'imperialismo: Venezia, Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra e Stati Uniti.

Se all'epoca di Marx l'Inghilterra era ancora l'unica potenza mondiale e le sue colonie o semicolonie spaziavano su tutti i continenti extraeuropei, già si intravedeva l'emergere della giovane nazione americana come erede, e quale erede! del dominio mondiale.

Gli Stati Uniti, per la giovinezza del loro capitalismo, per la loro posizione geografica, per il sommarsi dell'azione del retaggio capitalista europeo su di un enorme mercato vergine con la decrepitezza dei concorrenti maggiori, hanno raggiunto la posizione di chi non ha più eredi possibili, dato che lo spazio necessario ai loro bisogni copre ormai tutto il mondo.

La guerra imperialistica, con l'avvento americano sulla scena della spartizione del mondo, porta alle estreme conseguenze i motivi per cui esplode: il controllo del mercato e dell'economia mondiale, controllo come dominio totale da parte del dollaro e dell'ideologia moralisteggiante, delle merci e dell'apparato militare, della politica ipocrita e del culto affaristico.

La guerra come investimento. Nella fase suprema del capitalismo, oltre la quale non vi può più essere sviluppo di "nuove" forme, ma solo accanita conservazione dello stato di cose esistente, il controllo militare garantisce lo sfruttamento di intere popolazioni.

Questo decorso dell'imperialismo come delineato da Marx, dalle sue fasi "eroiche" (pensiamo alla Serenissima o ai grandi navigatori portoghesi) alla fase "americana", non si descrive con i giudizi morali sullo schiavizzamento di milioni di persone o sul loro massacro, ma con la spiegazione della sua necessità nel contesto dell'accumulazione primitiva del capitale o, alla fine, nel contesto della feroce conservazione antirivoluzionaria.

Così il "giudizio" del marxismo sull'epoca del dominio americano, dell'inevitabile declino della sua crescita economica e del conseguente acuirsi delle sue necessità di difesa, non ha nulla a che fare con le grida di lesa sovranità nazionale, di lesa democrazia, di diritti calpestati, prediche insopportabili che sono piovute per decenni dai pulpiti stalinisti.

L'avanzata americana ha distrutto l'influenza nefasta delle vecchie nazioni imperialiste europee, ha demolito per sempre i rapporti coloniali che la controrivoluzione staliniana, rinnegando le tesi del Secondo Congresso dell'Internazionale sui popoli oppressi, aveva invece contribuito a conservare, minando le basi stesse del programma rivoluzionario del proletariato e con esse ogni possibilità di collegarvi la lotta di liberazione di miliardi di persone.

Al moralismo ipocrita staliniano, che contrapponeva all'esuberante imperialismo aeronavale statunitense l'imperialismo terrestre russo costruito sull'indigenza della popolazione, si deve opporre la dialettica concezione marxista di un avanzare inesorabile di forze che volenti o nolenti non fanno che avvicinarsi, con le loro vittorie, alla catastrofe che le aspetta.

La vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, che fu propriamente americana, non russa né tantomeno inglese, conquistava alla borghesia e alla popolazione degli Stati Uniti il lavoro futuro di mezzo miliardo di europei, "aiutati" con il piano Marshall nella ricostruzione dei loro paesi e nello stimolo delle loro economie collassate.

In America, il testo che apre la raccolta, si enumerano alcuni dati che dimostrano come sia in realtà l'Europa ad aiutare gli Stati Uniti a superare la loro crisi di esuberanza produttiva e di capitali. La guerra come affarismo non è detto qui con intento moralistico: non si tratta di sollevare indignazione contro politicanti, fabbricanti e trafficanti d'armi che si arricchiscono sul sangue versato, né si parla di sfruttamento delle popolazioni di interi paesi con intento umanitario, contro le sofferenze che ciò comporta e che tanto muoveva la propaganda dell'imperialismo avversario russo all'utilizzo indecente per i propri fini.

E' il meccanismo capitalistico giunto alla sua fase imperialistica ad essere messo sotto accusa, non governi o uomini. La questione del debito pubblico, citata ad esempio, non è una questione di malgoverno, ma la molla principale del capitalismo da quando è nato e che oggi rappresenta l'unica via per dare ossigeno all'economia asfittica dei maggiori paesi.

Il famigerato Piano Marshall non era altro che un piano di prestiti che si accompagnava ad una massiccia distribuzione di sostentamenti in natura per ipotecare il lavoro futuro di quei cinquecento milioni di uomini. Il debito pubblico, americano ed europeo, era l'unico modo per sostenere il flusso di capitali e, in senso inverso, per sostenere l'onere del prestito.

In queste condizioni si rafforza e diviene totale il dominio dell'America sull'intero mondo e solo degli imbecilli o degli avvelenati di propaganda antimarxista staliniana potevano ripetere per decenni che se non ci fosse stato il bastione russo "sarebbe stato peggio".

Peggio il capitalismo sviluppato a stelle e strisce del capitalismo in crescita marchiato falce e martello? Con che cosa può misurare il peggio, chi ha sempre inneggiato all'aumento del Prodotto Lordo, della produzione mercantile, dei commerci e della competizione fra Stati e quindi dello sfruttamento capitalistico nei rispettivi confini nazionali?

L'avanzare del capitalismo è risultato storico dialetticamente positivo, l'abbiamo affermato per la grande accumulazione del capitale nell'arretrata Russia sotto lo stalinismo, lo affermiamo per il resto del mondo arretrato, lo affermiamo per la sconfitta dei vecchi imperialismi, Inghilterra in testa, operata da quelli nuovi. Non si torna indietro nella marcia verso il comunismo.

Come Marx considerava storicamente positivo il rafforzarsi del potere totalitario dello Stato come ultimo ostacolo contro cui la rivoluzione avrebbe dovuto concentrare le proprie energie ("ben scavato vecchia talpa!"), così noi diciamo che, per quanto terrorismo ideologico si faccia, è nel corso delle cose l'affermarsi di un unico mostro imperialista mondiale contro cui la rivoluzione altrettanto mondiale dovrà infine lanciarsi dopo averne disperso e indebolite dall'interno le forze.

Generazioni di rivoluzionari si sono dannati per l'imbattibilità militare dell'Inghilterra: ora questa imbattibilità si è trasferita agli Stati Uniti (Ancora America) e nessun esercito regolare riuscirà a scalzare tale potenza in uno scontro diretto; la vecchia talpa dovrà scavare sotto i piedi del nemico e gettargli contro ogni contraddizione da esso stesso creata nell'affermare il suo dominio.

La rivoluzione dovrà quindi prima di tutto colpire in ogni forma il bastione controrivoluzionario americano sul suo territorio, in modo che al crollo interno si possa saldare il marasma "barbarico" creato dalle masse di oppressi che in tutto il mondo sono state costrette alla fame e, soprattutto, si possa saldare il proletariato internazionale guidato dal suo partito.

Solo con una guida sicura in dottrina e tattica il proletariato rivoluzionario potrà avvalersi di queste immense forze della spuria società mondiale ormai integrata completamente nella rete di interessi capitalistici.

Ma quale tattica imbastardita segue chi si allea ad un imperialismo per combatterne un altro (Aggressione all'Europa)? Agli insensati stalinisti plaudenti nei giorni degli sbarchi americani del '42 in Marocco, forse sembrava che i boys non combattessero con altrettanto eroismo dei difensori di Stalingrado e che la contromossa tedesca in Tunisia li ributtasse a mare, ma la macchina tecnologica oliata di dollari avrebbe fatto veder loro i sorci verdi avanzando fino a tiro di cannone dall'Armata Rossa patriottica.

Se il coriaceo ma romantico Patton fu fermato dai suoi prima che incominciasse a sparare sui "rossi" non è per onorare l'alleanza di guerra, ma solo perché in quel frangente storico i rossi non rappresentavano un pericolo serio, vale a dire un concorrente serio. La III armata andava seguendo il cammino futuro dell'America, e in questo Patton era nel giusto, ma il momento e le armi erano sbagliati: merci e dollari avrebbero innalzato e abbattuto ogni cortina stabilita a Yalta.

Gli sconfitti-alleati del dopoguerra erano contro Mosca e il "comunismo", ma anch'essi erano insensati alleati del loro vero nemico, dato che "la strada per Mosca passa da Berlino". Esattamente come quella per Berlino passava dal Marocco e dalla Sicilia travolgendo le Linee Gotiche, le Normandie e le Ardenne. E prima ancora passava per Versailles e la Società delle Nazioni, i Quattordici Punti di Wilson e i prestiti alla Germania, alla quale dopo qualche anno si lascerà fare la parte del feroce aggressore per poi intervenire e prendere due piccioni con una fava: Germania distrutta e Inghilterra surclassata. Per non parlare del Giappone atomizzato e del controllo aeronavale del Pacifico.

Eppure c'è ancora la triviale pratica politica di esercitarsi sulla definizione dell'aggressore in ogni guerra: aggressore per gli Stati Uniti era la Cina in Corea, il Vietnam del Nord in Indocina, l'Iraq nel Medio Oriente, mentre l'imperialismo russo presentava il rovescio stalinista della medaglia, sul quale l'aggressore era sempre l'altro imperialismo, a Cuba, a Santo Domingo e di nuovo Corea, Vietnam ecc.

Quella della ricerca ad ogni costo del colpevole della guerra, dell'aggressore di turno è una falsa morale che non si dovrebbe più neppure raccontare ai bambini, ma ha ancora credito persino nelle file di coloro che si autodefiniscono rivoluzionari. Ogni marxista autentico sa benissimo che la guerra è il risultato di scontri che si preparano precedentemente nell'economia e nella politica e che stabilire chi ha tirato il primo colpo non solo è un esercizio inutile ma porta acqua al mulino della propaganda del vincitore che può dettare la sua versione storica impunemente.

Nella recente guerra del Golfo erano coalizzati contro l'Iraq, reo di aver invaso il "povero" Kuwait, non meno di cinque paesi che non solo avevano invaso a loro volta altri territori, ma ancora li tenevano sotto occupazione militare. Moraleggiavano sulle risoluzioni dell'ONU all'Iraq mentre essi stessi si erano ben guardati dall'osservarne una sola emessa nei loro confronti.

Lo stillicidio di guerre locali che ha sostituito per tanto tempo la guerra generale tra gli imperialismi ha intanto rimescolato gli equilibri senza ridurre minimamente i focolai di tensione e il bisogno di rinnovare il ciclo di accumulazione.

Solo la guerra generale può portare non solo nuovi equilibri ma soprattutto ossigeno al capitalismo che con essa può riprendere fiato.

In Aggressione all'Europa leggiamo: "La suggestiva storia delle adesioni alle guerre fornisce dunque argomenti decisivi in sostegno del disfattismo rivoluzionario di Lenin" : non siamo indifferenti nei riguardi dell'esito che può avere una guerra locale o generale, ma ciò che ci importa è che "guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento rivoluzionario di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati Maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche, statali e militari".

Il disfattismo ha maggior motivo di essere e maggiori possibilità di vittoria nel periodo di preparazione alla guerra, che il partito sa vedere e valutare. E' importante che la guerra non annulli lo slancio rivoluzionario iniziando un altro periodo di vittoriosa controrivoluzione, ma sia bloccata al suo scoppio dalla rivoluzione proletaria nei paesi più importanti. Non è un teorema, però se passa la guerra è difficile che si ripresentino le condizioni che si presentarono in Russia nel '17, lo stesso Lenin diceva senza mezzi termini che la situazione di allora era "speciale".

Il crollo del fronte interno dell'imperialismo maggiore deve impedire un intervento controrivoluzionario, e lo stesso ragionamento va esteso al caso di guerra imperialistica che scoppi senza che la rivoluzione abbia potuto bloccarla.

Il buon rivoluzionario auspica la sconfitta dell'imperialismo più forte per porre fine al ciclo della successione degli imperialismi alla guida del mondo. Ciò potrebbe sembrare una contraddizione in termini: come può essere sconfitto se è più forte?

Intanto diamo questa definizione all'imperialismo che più è in grado di condurre la controrivoluzione mondiale con armamentario adatto e di peso maggiore: da questo punto di vista gli Stati Uniti rappresentano sicuramente l'obiettivo principale delle forze rivoluzionarie. Ma, proprio perché più forte, l'imperialismo americano dovrà misurarsi con avversari che tenderanno a coalizzarsi, a raggiungere una forza complessiva uguale o maggiore in caso di conflitto.

Le coalizioni tra Stati durano finché vige la ragione materiale che le ha provocate: raggiunto l'obiettivo di una vittoria militare, si riaprirebbe subito la concorrenza fra i vincitori, cosa che non succederebbe se il vincitore fosse ancora una volta unico, cioè l'America. Di qui due soluzioni molto diverse per le prospettive rivoluzionarie dopo una eventuale guerra.

Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale i contrasti fra i vincitori scoppiarono subito. Ma la Russia non occupava al momento lo spazio vitale americano, il contenzioso era militare e politico, la guerra non si riaccese.

Il contrasto di interessi immediati, dominazione mondiale su terra aria e mare da parte statunitense e chiusura in un territorio delimitato e autarchico da parte russa, spiega anche l'attivismo "internazionalista" americano e il "patriottismo nazionalista" russo: nell'alleanza interimperialistica contro la Germania e il Giappone "aggressori", si ricorda nei testi, l'imperialismo russo autodefinì la propria battaglia a fianco dell'America come "Grande guerra Patriottica", rivendicando la sua dichiarazione di guerra al Giappone (peraltro all'ultimo minuto, quando questi era già in ginocchio) come riscatto per la "vergogna" di Port Arthur.

Tremenda mistificazione del socialismo in un solo paese: fattori economici oggettivi che si sommano a capitolazioni dottrinali soggettive del partito e che lasciano all'imperialismo via libera per la guida della controrivoluzione materiale, mentre a quella ideologica pensano le costruzioni teoriche staliniane, un misto di democrazia e dittatura, diplomazia e aggressività militare in difesa di una politica di Stato.

La storia delle aggressioni tra imperialismi ricorda la favoletta del lupo e dell'agnello citata in Aggressione all'Europa : quando il cosiddetto spazio vitale dell'imperialismo più forte fa il giro del globo terracqueo, è chiaro che in qualunque modo si muova un eventuale avversario andrà ad intorbidare le acque pur bevendo a valle e, se quest'ultimo "non è fesso", trascinato comunque alla guerra, attaccherà per primo, cercando di portare colpi decisivi a chi è in grado di schiacciarlo.

Allora la eventuale prossima guerra dell'America avrà come obiettivo non tanto quello di ampliare, ma di mantenere le sue posizioni, e oltretutto oggi le si regala un'altra area immensa in cui già vige il dollaro come reale moneta di scambio. Questa condizione di fatto dovrebbe portare alle coalizioni di cui si parlava prima, ed esse non potranno che essere, salvo varianti inessenziali, quelle della Seconda Guerra Mondiale.

Non essendoci nulla di nuovo negli sviluppi reali degli scontri interimperialistici, ecco che nel dopoguerra si evidenzia la crociata contro il comunismo (Politica europea degli USA), mentre oggi, dato che in questo momento contingente non si intravede il suo "spettro" aggirarsi da nessuna parte, la crociata si scaglia contro qualunque tendenza che vada in senso contrario agli interessi d'America.

Lo si è visto nell'atteggiamento americano nei confronti dell'Iran, della Libia, dell'Iraq; in quest'ultimo caso l'intervento diventava necessario sia per colpire gli interessi dei concorrenti (togliere il controllo delle fonti energetiche al resto del mondo), sia per soffocare sul nascere l'ondata di odio contro il capitalismo dei nuovi "barbari" che lo assediano.

Per i marxisti che vi hanno saputo leggere, la Guerra del Golfo ha avuto questo significato e in questa ottica l'abbiamo analizzata nel nostro Quaderno n. 5.

In questa ottica è stata analizzata la guerra intorno al 38° parallelo (Corea è il mondo) anticipando di molti anni la sua estensione all'intera Indocina, quando ancora non vi era stata la disfatta francese a Diem Bien Phu e non erano subentrate le truppe americane.

Tipico è l'atteggiamento dell'America nei confronti delle guerre, atteggiamento tenuto anche in Indocina e analizzato da Punti democratici e programmi imperiali: un primo tempo di speculazione "esterna" alla guerra in preparazione del secondo tempo in cui si manifesta l'intervento ormai giustificato moralmente e politicamente. Segue un terzo tempo in cui il vincitore stabilisce le direttive della "pace".

In ogni fase della guerra americana al mondo il moralismo più ignobile è messo al servizio di un affarismo sempre più virulento, tanto che nelle varie inchieste sulla guerra del Vietnam, risultò evidente un automatismo di guerra impressionante (per chi non abbia letto l'Imperialismo di Lenin), per effetto del quale le operazioni militari, le voci di spesa statale e gli affari dell'industria bellica erano un tutto inattaccabile da qualsiasi commissione.

Al presidente Wilson occorsero Quattordici Punti per definire le linee d'intervento dell'ipocrisia moralistico-militare americana, mentre a Truman ne occorsero solo cinque dopo aver vinto la Seconda Guerra Mondiale: il consolidamento del dominio evidentemente semplifica la semantica diplomatica. Dopo la Guerra del Golfo il presidente americano vincente, Bush, ha delineato un solo punto: il Nuovo Ordine Mondiale, e neppure sente l'obbligo di spiegare che diavolo voglia mai dire.

Si capisce bene il perché: egli non deve rendere conto a nessuno, gli Stati Uniti sono rimasti più che mai l'unica potenza ed è veramente profetico il passo di Imperialismo vecchio e nuovo dove si rileva che, nella statistica economica degli schieramenti, i "ricchi" stanno al di qua della cortina di ferro e i "poveri" stanno con Stalin. Non è una "scelta" di campo delle popolazioni o dei governi! Sono le determinazioni economiche al contrario che spingono popoli e governi su schieramenti opposti delle diverse "cortine":

"La cortina di ferro, vista dalla parte di Mosca, è una cortina d'oro. La media dei paesi superiori è circa tripla di quella dei paesi inferiori. Sicché, anche se fosse vero che un terzo della popolazione del mondo sta già dal lato di Stalin, lo stesso non avrebbe che un nono delle forze economiche. I margini che si possono strappare al consumo di pace per una economia di armamento e di guerra, oggi che non gli uomini combattono ma le macchine, e quelli che combattono tendono a divenire tutti dei professionisti, sono in un rapporto ancora più disperato.

"Oltre quindi che essere traditrice della linea rivoluzionaria e di classe, la politica di una guerra su fronti nazionali, di una guerra di paesi poveri contro paesi ricchi − ed era in fondo questa la politica Hitler-Mussolini − è politica di disfatta".

Oggi che l'opposizione "Nord-Sud" diventa cavallo di battaglia di forze tendenti a superare senza troppo successo lo stalinismo partigianesco, il passo citato assume un'importanza moltiplicata rispetto ai tempi in cui fu scritto.

Non tanto per l'anticipazione della guerra combattuta con macchine e professionisti che rendono assolutamente "disperato" il rapporto di forza misurato in termini di potenza di fuoco, come si è visto nella Guerra del Golfo, ma per l'anticipazione del pericolo di nuove partigianerie in grado di offuscare la chiarezza con la quale il proletariato e le masse oppresse devono schierarsi sul fronte rivoluzionario.

Giustificare appoggi a chi attacca l'imperialismo, chiunque egli sia, senza andare troppo per il sottile sulla questione del disfattismo rivoluzionario significa scivolare pericolosamente sulla china della "resistenza". Lo si è visto nella confusa "opposizione" della variegata sinistra democratica e anarchica occidentale alla farsesca anche se tragica parata degli "alleati" contro la borghesia irachena durante l'operazione Desert Shield nel Golfo.

"Traditrice della linea rivoluzionaria" è la politica stalinista della guerra su fronti nazionali, ma ugualmente traditrice sarebbe ogni politica tendente a giustificare con gli stessi argomenti l'odierna guerra potenziale di "ricchi" contro "poveri" e viceversa. Non esiste una via d'uscita a questo errore gravido di conseguenze se non si sgombra il terreno dalla visione morale indotta dal confronto ricchezza-povertà. Non si può ritornare a solide posizioni rivoluzionarie se non si capisce che la guerra rivoluzionaria contro l'imperialismo deve prescindere categoricamente da ogni "oggettiva" simpatia per le borghesie inconseguenti del Sud del mondo, completamente in balìa di triviali interessi propri o dell'imperialismo e indifferentemente attratte o respinte dalla sfera delle alleanze fra le maggiori potenze.

La guerra, anche se condotta per interposta persona, è tra "ricchi" e "ricchi" e i "poveri", se sono guidati dalle loro borghesie corrotte e complici dell'imperialismo e non dal partito rivoluzionario, sono trascinati a schierarsi con l'uno o con l'altro, fornendo abbondante carne da cannone a poco prezzo e attirando la guerra lontano dalle dorate metropoli finché ciò risulta utile alla preparazione di quella generale.

Demonizzare l'America non serve a nulla, come non serve a nulla attribuire titoli rivoluzionari a chi, contingentemente, è travolto dall'avanzare del rullo compressore americano: la funzione rivoluzionaria di una eventuale guerra generale contro gli Stati Uniti sta nelle sue premesse e nell'eventuale sbocco oggettivo, ma questo non ha nulla a che fare con l'appoggio dei marxisti all'eventuale coalizione borghese antiamericana, appoggio che dobbiamo risolutamente negare.

La passione con cui si tratteggia, nei testi qui presentati, l'avvento del massimo processo di "schiavizzamento" della storia non è disgiunta dalla fredda analisi dei fatti che stanno alla base della nostra fondamentale valutazione: auspichiamo il risultato che più avvicina il maturare delle condizioni per la rivoluzione e la "parola di azione è semplice e chiara: non un uomo, non una cartuccia per nessuno" che non sia l'inquadramento rivoluzionario internazionale.

Torino, maggio 1992.

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America

Quaderni di n+1 dall'archivio storico.

Gli scritti raccolti in questo volume, che abbiamo chiamato con il titolo del primo in ordine di data, America, comparvero dal 1947 al 1957 su Prometeo, Battaglia Comunista e Il programma comunista.

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