Quale rivoluzione in Iran? (6)
I comunisti e la soluzione rivoluzionaria dei problemi sociali arretrati
L’Iran è il mondo
Nel loro corso catastrofico, gli eventi dell’Iran vengono a smontare la tesi borghese secondo cui la lotta sociale può essere seppellita dallo sviluppo economico e confermano dunque la tesi marxista secondo la quale l'accumulazione di tutte le contraddizioni sociali è il prodotto del progresso borghese e non dell'arretratezza economica; mai, né nel 1950-53, né nel 1960-63, lo sviluppo sociale è stato così immenso e così profondo come ai giorni nostri.
Gli ideologi del progresso continuo e armonioso non mancheranno di controbattere che il movimento sociale che scuote l'Iran porta le stigmate di una formidabile arretratezza, che si manifesta per esempio nel peso del clero. Ciò in parte è vero, ma il marxismo è solito non considerare se non con estrema prudenza "l'idea che il movimento si fa di sé stesso", e va a cercare nei meccanismi economici e sociali i rapporti reali. Abbiamo tentato, nei numeri precedenti di questo giornale, di fare una diagnosi del movimento sociale iraniano, e la nostra conclusione è che questa formidabile esplosione popolare che avrebbe prodotto, sulla spinta della grande ondata antifeudale e anti-imperialista che si è infranta sull'Asia, una vera rivoluzione, ha potuto essere a lungo respinta. Le energie sociali sprigionate dallo scontro tra le necessità del capitalismo moderno e i vecchi rapporti sociali hanno potuto essere aspirate nel vortice di uno sviluppo capitalistico provocato dall'esterno, mentre lo Stato da una parte si proponeva come compito quello di spezzare i principali ostacoli economico-giuridici alla marcia del capitalismo con delle riforme, e dall'altra riusciva ad attutire gli antagonismi provocati dal vecchio dispotismo politico, messo al servizio dello sviluppo e dell'oppressione capitalistica, grazie alla manna petrolifera e alla corruzione generalizzata.
In queste condizioni, il colpo di freno brutale dato all'espansione economica dalla crisi mondiale doveva necessariamente provocare lo scoppio di un movimento sociale troppo a lungo contenuto. Ma se la rivolta iraniana reagisce contro il peso dei vecchi resti pre-borghesi, divenuti insopportabili nelle condizioni dello sviluppo moderno, che ne richiede conseguentemente la liquidazione, ciò appare sempre più, nella sua sostanza, come una risposta alle conseguenze catastrofiche dello sviluppo borghese stesso: la massa delle classi medie urbane e contadine tenta di resistere alla rovina provocata dalla concorrenza del mercato mondiale, la concentrazione capitalistica e l'espropriazione accelerata, il tutto portato al parossismo dalla crisi economica, e la classe operaia, dal canto suo, resiste nei fatti, anche se soffre ancora in fabbrica del vecchio dispotismo, ad uno sfruttamento specificamente capitalista. E' dunque chiaro che se la società iraniana soffre ancora di certi ostacoli politici e sociali allo sviluppo moderno che risultano da una rivoluzione borghese dall'alto, essa è tuttavia già sufficientemente capitalistica per soffrire ancor di più dei progressi del suo sviluppo.
I miopi ideologi del capitalismo si consoleranno forse di ciò che accade in Egitto, in Tunisia, in Nicaragua, in Perù, in Iran, in Turchia, o altrove ancora, poiché, anche se si tratta di prodotti dello sviluppo capitalistico, non toccano tutto sommato che la periferia e non il centro, ancora immobile. Ma noi sappiamo che il mercato mondiale unifica tutto e assicura la dominazione del centro sulla periferia, la quale si trova così meno adatta a resistere alle terribili tensioni che subisce l'insieme della società. La nostra diagnosi è dunque che i cataclismi sociali che oggi si abbattono sui paesi sottosviluppati sono un segno e un'anticipazione di quelli che, con l'approfondirsi della crisi, colpiranno domani anche le metropoli imperialiste. La gotta, diceva Trotzky incomincia ad attaccare le dita dei piedi prima di arrivare al cuore.
E' in questo corso catastrofico che il marxismo attinge la forza della sua critica nei confronti delle pretese liberali di perfezionamento continuo del capitalismo, ma anche nei confronti delle chimere democratico-riformiste di trasformazione graduale, pacifica e omeopatica del capitalismo in socialismo: al contrario, questa trasformazione nasce dalla crisi rivoluzionaria che distrugge brutalmente gli ostacoli allo sviluppo storico che hanno accelerato lo scontro generalizzato fra gli Stati e fra le classi sociali.
Un altro fenomeno che la crisi iraniana evidenzia chiaramente, è la straordinaria interdipendenza delle economie del mondo intero, realizzata dal capitalismo durante i lunghi decenni di assenza del proletariato. Da una parte, il capitalismo sviluppato è diventato ancor più economicamente dipendente dai paesi economicamente arretrati, soprattutto per quanto riguarda le materie prime, le fonti d'energia, al punto che oggi, nel momento in cui l'Iran starnutisce, tutti i grandi centri imperialisti si soffiano il naso; più sale il prezzo del petrolio, più essi devono accentuare la loro pressione economica sugli altri produttori del prezioso liquido. D'altra parte, i paesi politicamente liberatisi dalla tutela del colonialismo, a seguito della grande ondata emancipatrice che ha contraddistinto il "risveglio dell'Asia", sono, per il gioco dello sviluppo capitalistico, dipendenti dai grandi centri imperialistici in misura ancor più grande per quanto riguarda macchine e capitali.
Naturalmente questa interdipendenza, non può apparire nelle condizioni del capitalismo che sotto la forma della dominazione e dell'oppressione: quella dei grandi Stati imperialistici che esercitano una pressione economica, politica e militare accresciuta sui paesi del "Terzo Mondo". Non confondiamoci, il movimento sociale che agita l'Iran può avere come punto di partenza la rivolta contro i privilegi esorbitanti degli stranieri, vecchi resti di un passato semi-coloniale. Non saranno necessarie più di 24 ore ad un movimento sociale veramente radicale e rivoluzionario per sbarazzarsene totalmente e per scontrarsi immediatamente con il problema ben più arduo della lotta contro il peso moderno dell'imperialismo che, a differenza di quello d'un tempo, non può essere eliminato da nessuna indipendenza politica e ancor meno da una chimerica e reazionaria "indipendenza economica", ma unicamente dalla distruzione rivoluzionaria del capitalismo mondiale. La controrivoluzione mondiale non ha introdotto solo il capitalismo nell'Oriente "arretrato": vi ha introdotto anche le classi moderne. E se il capitalismo nato in ritardo produce borghesie già senili, produce contemporaneamente un proletariato immenso e vigoroso. E' la classe operaia che in Iran ha dato l'avvio ai movimenti sociali degli ultimi trent'anni. Oggi la lotta degli operai dei pozzi petroliferi e delle raffinerie dell'Iran colpisce non solo il capitalismo iraniano, ma il capitalismo mondiale. Ciò significa che il movimento di classe dei proletari del "Terzo Mondo" ha bisogno, per vincere, della solidarietà dei proletari delle grandi metropoli e che, reciprocamente, il proletariato dei paesi economicamente avanzati deve trovare per la lotta contro i suoi nemici un aiuto inestimabile nella lotta dei suoi fratelli di classe dei paesi economicamente "arretrati".
Le borghesie di tutti i paesi sanno che non possono mantenere il proprio ordine infame senza sostenersi vicendevolmente alla scala internazionale: la crisi iraniana ha mostrato nei fatti che davanti all'incognita della rivolta sociale tutti, Russi, Cinesi, Americani, Francesi, Irakeni, Sauditi ed altri, hanno saputo far tacere le proprie dispute per garantire l'ordine costituito. E' ora che il proletariato ne tragga la lezione per sé, combattendo la ristrettezza nazionale, tutti i particolarismi e gli sciovinismi, per costituire, sulla base dei suoi interessi comuni, l'armata internazionale unificata della rivoluzione comunista.
Gli avvenimenti in Iran ci confermano ancora una verità che darà coraggio e speranza ai proletari che pensano alla loro classe. L'esercito iraniano sembra che sia uno dei più moderni e sofisticati del mondo; le sue spese raggiungono annualmente quasi il doppio di quelle dell'esercito italiano per una popolazione che supera appena la metà di quella italiana, e un reddito nazionale, compreso il petrolio, che non arriva ad un terzo. E' "accompagnato" da circa 35.000 "tecnici" americani e raddoppiato da forze di polizia e gendarmeria inaudite; il tutto è coronato dalla famosa Savak che tesse la sua ragnatela in tutti i centri della vita economica e sociale. Ed ecco che questo gioiello scelto dall'imperialismo americano per assicurare all'Iran il ruolo di gendarme del Golfo, di chiave del cordone di sicurezza antirussa in Asia occidentale e per permettergli di portare a termine la rivoluzione capitalistica dall'alto, non può impedire, malgrado le carneficine ripetute quotidianamente, non solo l'estensione dell'incendio sociale, ma nemmeno l'infiacchimento delle truppe per il calore che questo emana. Ironia abituale della storia: per avere un esercito così immenso bisogna militarizzare la popolazione, costringendola al servizio nazionale, al punto che in tempi di agitazione sociale solo le truppe professionali sono realmente utilizzabili contro i rivoltosi. La nostra conclusione non può essere nuova: nessuno Stato protetto, corazzato e blindato che sia, è al riparo dal terremoto sociale che è la materia prima delle rivoluzioni.
Il male è che la maturazione delle forze sociali è avvenuta in Iran in modo tale che questo movimento giunge troppo tardi per fare una rivoluzione borghese, ma troppo presto perché sia potuta nascere la forza capace di far avanzare da quel momento la storia attraverso la sua propria rivoluzione, la classe proletaria costituita in partito. In effetti, i risultati sociali reali che si possono ragionevolmente attendere dalle rivendicazioni popolari, democratiche e nazionali che il movimento continua a portare avanti come asse centrale del suo programma, sono ormai perfettamente raggiungibili attraverso vie borghesi che non necessitano di una rivoluzione; possono essere realizzati cioè attraverso varie riforme, sia che si tratti di una certa "liberalizzazione" del regime, della modificazione dei rapporti politici dello Stato con l'imperialismo o della riforma agraria.
L'esistenza di un movimento di classe indipendente del proletariato in questa situazione avrebbe permesso di prendere lo spunto dall'oppressione politica ancora rinforzata del vecchio stile dispotico, dal bisogno di un "supplemento di rivoluzione agraria" che può senza dubbio trascinare un parte del contadiname e in particolare le masse dei contadini poveri e senza terra, dalla lotta contro i privilegi esorbitanti concessi agli stranieri e dall'indignazione sollevata per il ruolo di gendarme del Golfo svolto dall'Iran, dalla solidarietà espressa verso le rivolte dhofari e palestinese, per concentrare contro lo Stato l'energia di frammenti di altre classi, o almeno per garantirsene la neutralità nello scontro tra la borghesia - e con essa l'imperialismo - e il proletariato, che diviene inevitabile nella misura in cui queste riforme sono acquisite.
(da Le prolétaire n. 281 del 1979, estratto)