Quale rivoluzione in Iran? (7)
I comunisti e la soluzione rivoluzionaria dei problemi sociali arretrati
La classe operaia e la "rivoluzione" islamica
Le lotte operaie prima delle "giornate di febbraio"
Abbiamo ricordato in un articolo apparso nel n. 286 di Le prolétaire, e dedicato soprattutto ai paesi dove si chiude il ciclo nazionale, la necessità per il proletariato di lottare per rivendicazioni politiche immediate, le famose "libertà politiche" (d'associazione, riunione, stampa, ecc.). Il peso che hanno avuto queste rivendicazioni nella lotta operaia mostra che esse sono indissolubilmente legate alla lotta proletaria ed è ciò che vogliamo analizzare in questo articolo. Un prossimo articolo confermerà con il bilancio delle "giornate di febbraio" il fatto che queste rivendicazioni non possono essere soddisfatte in modo radicale in ambito borghese e il problema non può essere superato che attraverso la via rivoluzionaria che porta all'abbattimento dello Stato capitalistico, ma anche che il proletariato può pienamente trarre profitto dalla lotta per queste rivendicazioni solo se le porta avanti in modo indipendente e le subordina all'obiettivo della sua emancipazione di classe.
Bisogna ripercorrere la storia di questi ultimi decenni per comprendere i recenti avvenimenti in Iran. La rete di organismi operai che si era sviluppata dopo la caduta di Reza Khan nel 1941 e che aveva per esempio raccolto 600.000 operai durante la festa del 1° Maggio del 1946, fu completamente smantellata dal colpo di stato del 1953. Bisogna dire che il legalitarismo nel quale sguazzavano i dirigenti sindacali che agivano il più delle volte di concerto con gli stalinisti del Tudeh, facilitò enormemente il compito alla reazione imperialista e locale. Nello stesso tempo, il ritorno dello Scià rese impossibile ogni attività politica che non fosse quella dei piccoli gruppi clandestini. L'Iran ha conosciuto 25 anni di un terrorismo di stato, indubbiamente senza eguali nella sua storia, il cui simbolo è la Savak, questa organizzazione poliziesca nata nel 1956, che rinchiudeva il paese in una gigantesca ragnatela potentemente centralizzata e ufficialmente destinata a "impedire la ripresa dell'attività delle associazioni illegali".
Nel periodo di consolidamento del regime dopo il 1953, il paese ha conosciuto una decina di scioperi operai che hanno scatenato una repressione inaudita. E' così che lo sciopero dei 30.000 operai delle fornaci di Teheran si è concluso con l'assassinio di 50 di essi. La repressione sistematica ha prodotto una tale paralisi del movimento rivendicativo che le disposizioni contenute nella legge del 1946, per esempio quelle che istituivano la giornata di otto ore, il diritto di organizzazione sindacale, il divieto di far lavorare i bambini al di sotto dei 13 anni, hanno potuto essere soppresse nel 1959 per gli operai delle officine con meno di 10 persone (cioè per la maggior parte dei salariati).
Le statistiche ufficiali indicano uno sfruttamento feroce e veramente negriero della forza-lavoro: nel 1966 su 1.200.000 lavoratori dell'industria manifatturiera 200.000 lavoravano fra 50 e 60 ore alla settimana, 250.000 lavoravano più di 64 ore, 100.000 più di 71 ore e 200.000 non riuscivano ad avere un lavoro fisso raggiungendo appena le 30 ore.
Allo stesso modo, mentre la legge teoricamente vietava il lavoro dei bambini al di sotto dei 12 anni, la statistica ufficiale del 1976 contava 130.000 bambini di 10 e 11 anni al lavoro, di cui la metà nell'industria.
Questa concorrenza tra gli operai veniva ulteriormente esasperata dalla sistematica politica di divisione e di corruzione: nel 1954 il salario di base non rappresentava che il 46,5% del reddito medio dell'insieme dei salariati, il 31,7% consisteva in premi e "compartecipazioni agli utili", il 21,8% in prodotti in natura e altre risorse, mentre mediamente la differenza tra il salario medio di un manovale e quello di un quadro intermedio era da 1 a 11 nell'industria tessile.
I vecchi rapporti dispotici tra il feudale e il burocrate aiutati dal gendarme da una parte, e il contadino trattato peggio di una bestia da soma dall'atra, si ritrovano tali e quali nell'industria, dove il feudale e il burocrate erano diventati capitalisti e dove l'operaio era sempre costretto a lavorare sotto l'occhio del gendarme. Questi vecchi rapporti personali già a sufficienza inumani diventano insopportabili quando vengono messi al servizio dell'accumulazione del capitale, poiché servono a canalizzare con la violenza l'esodo rurale verso la fabbrica, ad abituare i contadini da poco sfuggiti all'abbrutimento e alla miseria delle campagne, alle galere aziendali, ai ritmi infernali e alle giornate di lavoro interminabili aggravate dal fatto che il proletariato viene mantenuto con la violenza in una situazione di massima concorrenza.
Non sappiamo se gli operai iraniani erano, come gli operai francesi sotto Napoleone III assoggettati al sistema del "libretto di lavoro" (carnet de travail) che, ponendo gli operai sotto il controllo della polizia ostacolava seriamente lo sviluppo di vaste organizzazioni immediate (sistema a cui sono soggetti a tutt'oggi i lavoratori immigrati con il libretto di lavoro e il permesso di soggiorno). Ciò che appare sicuro è che l'estrema mobilità della manodopera pretesa dall'accumulazione forsennata di capitale fa nascere nella classe operaia il bisogno della più ampia libertà di movimento (pratica e politica), che si è accompagnata costantemente al più stretto controllo degli operai da parte della polizia sullo stesso posto di lavoro.
Il solo "sindacato" autorizzato, l'Organizzazione Operaia Iraniana (OOI) era un'appendice dello Stato. I principali dirigenti erano nominati dalla Savak. Non c'è bisogno di soffermarsi sulla funzione di questo "sindacato" che non aveva niente da invidiare alle organizzazioni già create dagli Zubatov (era un esponente della polizia segreta più volte ricordato da Lenin) nella Russia zarista.
Il terrorismo di stato non ha fatto che accentuarsi dopo i colpi inferti dall'ondata sociale che andava crescendo dal 1956 culminando nella rivolta del 1963, quando la barbara repressione fece 15.000 vittime. In effetti la famosa "rivoluzione bianca" si accompagnò ad una repressione politica tanto più grande in quanto si trattava di trasformare i rapporti sociali e lo Stato senza consentire la minima breccia alla lotta sociale.
L'ondata sociale che è stata rilanciata agli inizi degli anni '70 con la ripresa delle grandi lotte operaie si è accompagnata ad una intensificazione enorme della repressione e dello scatenarsi della violenza poliziesca: è così che nel 1973 la polizia è intervenuta durante lo sciopero degli operai dei "calzaturifici nazionali" e ha fatto numerosi feriti. Nel 1974, a seguito dello sciopero degli 800 operai della fabbrica di motori a Tabriz 100 operai furono licenziati, alcune decine furono arrestati e 25 furono inviato al servizio militare. Sempre nel 1974, 19 operai furono uccisi durante la manifestazione degli scioperanti della fabbrica "Djahan Tchit" di Kadadj. Nel 1975, le forze dell'ordine accerchiarono la fabbrica di tessuti "Chehi" dove 1.500 operai erano in sciopero. Le forze dell'ordine spararono sugli operai ferendone molti. Nel 1976 la Savak represse nel sangue lo sciopero dei tessili come del resto aveva fatto con gli operai della fabbrica di apparecchi elettrici di Teheran nel dicembre del 1975, ecc.
E' dunque perfettamente comprensibile che sempre di più, a fianco di rivendicazioni di carattere economico, siano apparse rivendicazioni che esprimono i bisogni politici immediati delle masse operaie, rivendicazioni che mirano a combattere nello stesso tempo sia lo sfruttamento padronale che il giogo poliziesco. Gli operai delle raffinerie hanno, per esempio, reclamato fin dall'inizio del movimento la soppressione dei "servizi di sicurezza" della Savak nei luoghi di lavoro. Hanno ugualmente reclamato, fin dal novembre del '78 l'allontanamento del colonnello Kalyaai, capo del "servizio di sicurezza" della raffineria di Abadan, conosciuto per le sue pratiche di torturatore.
Insieme ai dipendenti dell'Air Iran i lavoratori delle raffinerie hanno lottato specificamente per la soppressione della legge marziale a Teheran e in altre 11 città. Il 28 ottobre 1978, i lavoratori delle telecomunicazioni annunciarono a loro volta che non avrebbero ripreso il lavoro finché le loro rivendicazioni non fossero state soddisfatte. Tra queste rivendicazioni figuravano: la liberazione dei prigionieri politici detenuti durante questi ultimi 25 anni: l'espulsione dei consiglieri americani; l'epurazione radicale di tutti i funzionari; la soppressione del "servizio segreto" dell'azienda; il diritto di costituire un sindacato.
Il bisogno che ha la classe operaia di organizzarsi era dunque sentito in modo sempre più pressante. Ma nello stesso tempo il terrorismo poliziesco rendeva questa organizzazione veramente difficile. Infatti, né le formidabili ondate di lotta sociale degli anni '56-'63 né quella che è cominciata nel '70 avevano permesso, prima dell'esplosione generalizzata del 1978, di dare alla classe operaia iraniana la minima possibilità di organizzazione economica stabile e che oltrepassasse l'ambito locale. E come fare fino a quando la Savak era nelle fabbriche?
La pressione poliziesca sulla classe era così forte che gli operai più combattivi dovettero spesso fuggire dalle aziende per non essere eliminati, e andare a ingrossare le file dei gruppi che, nelle condizioni proprie del paese e in una situazione politica internazionale caratterizzata dall'assenza della lotta proletaria e del Partito Comunista, non potevano certo superare il livello di sette cospirative e guerrigliere con un programma limitato da un orizzonte puramente immediato, e dunque borghese. E' il caso dei Fedayin, che apparvero come movimento più radicale e di cui riparleremo.
In queste condizioni tragiche per il proletariato la lotta delle masse ha tuttavia utilizzato il solo spiraglio lasciato dal regime per organizzarsi politicamente: le moschee, diventate le fortezze della contestazione nel cuore dei Bazar ostili allo Scià. Ma ciò significava allo stesso tempo la subordinazione del movimento rivendicativo e politico della classe operaia, per il tramite dei mullah, a quello della piccola e media borghesia del Bazar.
Ecco ciò che spiega perché un anno di lotte popolari immense non ha permesso che il proletariato apparisse con degli interessi di classe distinti, ma solo come l'ala più decisa della lotta per l'allontanamento dello Scià.
(da Le prolétaire n. 288 del 1979)