Quale rivoluzione in Iran? (8)
I comunisti e la soluzione rivoluzionaria dei problemi sociali arretrati
In Iran, il fossato fra proletariato e borghesia è destinato ad allargarsi
"Borghesia e proletariato sono figli di un'epoca nuova - scrive Engels - [...] Tutt'e due tendono, nella loro azione sociale, ad eliminare tutte le sopravvivenze del passato. Essi devono, è vero, condurre fra loro una lotta molto seria, ma questa può essere condotta a fondo solo dal momento in cui essi si trovano soli e faccia a faccia. Il vecchio armamentario deve essere buttato a mare perché la nave sia "pronta per la battaglia", con la differenza che allora la battaglia non si svolge più fra due navi, ma a bordo dello stesso bastimento, tra ufficiali ed equipaggio".
Se la maturazione irresistibile del movimento sociale ha imposto a tutte le classi della società iraniana di "buttare a mare" il "trono del pavone", tale obiettivo comune non poteva tuttavia avere il medesimo contenuto, il medesimo significato, per tutte le classi sociali, in particolare per le classi fondamentali della società moderna, proletariato e borghesia.
La classe operaia non poteva rivendicare la libertà di stampa, di riunione, di associazione indipendente dallo Stato, ecc. senza scontrarsi direttamente con l'apparato poliziesco e militare dello Scià e chiedere lo scioglimento della Savak, la revoca della legge marziale e la liberazione dei prigionieri politici. Aveva inoltre, per rafforzare i suoi ranghi, l'imperiosa necessità di sbarazzare il terreno dalla discriminazione di cui tradizionalmente soffre la donna, e dallo sciovinismo farsi (persiano) che pesa duramente sulle forti minoranze turcomanna, curda, araba, turca e belucistana, per non parlare dei lavoratori stranieri, soprattutto afgani.
Poco importa, per ora, che l'idea che il movimento si faceva di se stesso, idea condizionata dalle circostanza storiche nazionali ed internazionali, non abbia potuto superare il livello di coscienza spontanea di un movimento di "unanimità popolare" contro la Corte venduta allo straniero e il dispotismo della Savak e della burocrazia, del cui edificio lo Scià rappresentava la chiave di volta. L'importante è che, nei fatti, la "abdicazione" del sovrano, tradotta senza il minimo rispetto nello slogan popolare "morte allo Scià", non poteva avere per la classe operaia altro significato reale che quello di un simbolo di una lotta ben più vasta: la lotta contro la feroce oppressione di un regime che metteva le sopravvivenza di un millenario dispotismo al servizio sia dell'accumulazione non più soltanto primitiva ma ormai allargata del capitale, sia dell'alleanza fra una Corte che ostentatamente dilapidava il lavoro sociale e l'imperialismo che faceva gravare su tutta la società il ruolo di gendarme regionale affidato all'Iran. D'altra parte per essa la cacciata dello Scià non rappresentava il termine ultimo della sua lotta, ma la possibilità di conquistare una maggiore libertà di movimento, uno spazio più vasto nella lotta contro lo sfruttamento e l'oppressione capitalistici, in attesa d'essere in grado di prendere esso stesso il potere, in un sollevamento proletario internazionale.
è ovvio che la stessa rivendicazione aveva un significato completamente diverso per le classi dominanti, in particolare per la borghesia. Per essa, non poteva trattarsi che di un cambiamento di politica dello Stato; della fine della dominazione diretta e dei privilegi politici dell'imperialismo, che condannavano tutta la società ad un'insopportabile marcia forzata; di un nuovo orientamento della politica petrolifera ed agricola. E questo perché lo Stato era ormai largamente borghese, e la serie di riforme avviate sotto l'egida dell'imperialismo ne aveva già fatto - come abbiamo spiegato nella nostra stampa - uno strumento almeno teoricamente conforme alle esigenze economiche e sociali della borghesia non solo finanziaria ma anche industriale - d'altronde più o meno legata a un capitale di Stato di un peso schiacciante - benché in una forma antiquata e per essa intollerabile. In breve, essa aveva bisogno della "abdicazione dello Scià" non come punto di partenza di un processo rivoluzionario che mettesse tutte le classi e frazioni di classi, una dopo l'altra, di fronte alle proprie responsabilità politiche, ma come punto d'arrivo della trasformazione borghese dello Stato, come complemento liberale, e si potrebbe anche dire come giustificazione popolare, di quella che abbiamo chiamato la "rivoluzione capitalista alla cosacca".
Benché sia ancora difficile stabilire una perfetta coincidenza tra i partiti e le classi sociali, dato che la lotta tra le diverse frazioni borghesi non si è ancora spinta fino in fondo, non è invece difficile riconoscere nel Fronte nazionale un'espressione di questa forza sociale e un simbolo della sua profonda viltà politica, attraverso tutta la gamma delle sue sfumature - salvo forse la sua ala sinistra di tendenza democratica piccolo-borghese.
Così il famoso Baktiar, già passato per le carceri dello Scià, è stato bensì escluso dal Fronte nazionale, ma il suo tentativo di "transizione costituzionale" ("lo Scià deve regnare, ma non governare") non ha fatto che spingere alle estreme conseguenze una delle ipotesi della tradizionale politica del Fronte. Prova ne sia che, anche dopo l'instaurazione della legge marziale, il leader di questo partito Sandjabi, continuava a parlare di mantenimento dell'istituto monarchico, e solo l'impeto della ondata popolare lo ha costretto a sconfessare Baktiar e ad abbandonare la monarchia. Ecco che come dichiarava Sandjabi ancora all'inizio di gennaio: "Il signor Baktiar non ha analizzato correttamente le condizioni e la situazione prevalenti nel paese. L'accordo del popolo è indispensabile. Noi non siamo necessariamente contro una monarchia costituzionale, ma, disgraziatamente, il popolo ritiene che nessuna riforma possa realizzarsi con l'attuale sovrano. Con suo figlio, la cosa non è impossibile, ma sarà il suffragio universale a deciderlo"(!) (Le Monde, 5-1-'79).
Nella serie di articoli apparsi nel nostro quindicinale, abbiamo esaminato le ragioni che hanno messo in movimento il Bazar. La media e piccola borghesia industriale, artigianale e commerciante, urtata nelle sue aspirazioni nazionali dai privilegi imperialistici, prostrata nella lotta di concorrenza dall'apertura in grande delle frontiere e dallo sviluppo del capitalismo di Stato, ha svolto una parte importante nella lotta contro il "regime dello straniero". L'odio del Bazar contro il regime era senza dubbi enorme e sincero. Come si può leggere in un'intervista a un feday evocante il '78: "Gli abitanti di Qom dicevano: 'I Fedayin sono musulmani', il che va inteso come un omaggio alle loro azioni. Tutti gli Hadji (i ricchi esponenti del Bazar che hanno fatto il pellegrinaggio alla Mecca) si dichiaravano pronti ad aiutare i Fedayin perché - dicevano - attaccano il regime che è il nostro nemico. La gente diceva: 'I veri musulmani sono i Fedayin' pur sapendo che i Fedayin sono marxisti, perché per essa solo i musulmani sono rivoluzionari".
Tuttavia, se il Bazar era meno portato ad esitare di fronte a un movimento popolare e radicale, è chiaro che la sua aspirazione non poteva andare oltre l'eliminazione degli aspetti odiosi dello Stato (soprattutto il suo aspetto "straniero"). Inoltre, lo stretto legame fra i commercianti e il clero sciita ha permesso a quest'ultimo di far da cappello al movimento popolare a cui il Bazar e la moschea fornivano un centro naturale e uno dei rari luoghi di agitazione politica permessi dal dispotismo del regime. Ora, tutto ciò è stato possibile solo grazie alla posizione di punta di una minoranza di Mullah e di Ayatollah che, come Teleghani e Khomeini capirono rapidamente che lo Scià doveva andarsene.
Ma il radicalismo del clero, in particolare delle alte gerarchie, si fermava lì: diciotto ore dopo l'inizio dell'insurrezione, mentre infuriava la battaglia fra le compagnie degli Immortali e la popolazione venuta in soccorso degli homofar, Khomeini in una allocuzione radiofonica dichiarava:"Non ho ancora dato l'ordine della guerra santa e mi auguro che il popolo decida del suo avvenire legalmente, per via elettorale". Nello stesso tempo, "il suo portavoce dava ordine alla popolazione di riconsegnare le armi ottenute tramite i soldati, e annunciava che sarebbero state distribuite quando fosse giunta l'ora" (Le Monde, 13-2-'79).
Comunque, che cosa ha fatto il Bazar, attraverso la gerarchia sciita, se non affrettarsi ad associare al suo potere i rappresentanti più autentici della borghesia super-riformista, come Sandjabi, per tacere di personalità del vecchio regime accuratamente nascoste nel segretissimo Consiglio rivoluzionario islamico, mentre l'anello di collegamento fra i rappresentanti della borghesia e il clero organizzato in "comitati islamici" era assicurato dal ministro Bazargan?
Tutto questo bel mondo era pronto a raccogliere tranquillamente il potere nelle mani di Baktiar. Ma il proletariato, le masse proletarie e sottoproletarie delle città e anche una parte della piccola e media borghesia, premuti dalla crisi economica, avevano bisogno di veder rapidamente soddisfatte le loro rivendicazioni. Da quando il movimento si era lanciato contro il regime, la logica stessa del suo sviluppo e del suo rafforzamento spingeva ad uno sbocco popolare, radicale.
Illuse per mesi e mesi dalla minaccia mai posta in atto della Djihad (guerra santa), le masse, prendendo fiducia nelle proprie forze - di cui erano una prova luminosa il potente sciopero generale con epicentro nel settore petrolifero, e la crescente disgregazione dell'esercito alla fiamma della loro rivolta -, si sentirono istintivamente in grado di accelerare l'epilogo del dramma; per farla finita con la corte non bisognava attendere un'ennesima riforma governativa, ma assaltare nelle strade i baluardi del regime: l'attacco agli homofar da parte dei sedicenti Immortali ne fornì l'occasione; il modo migliore per assicurare la liberazione dei prigionieri era di correre ad aprire le prigioni; il modo migliore per assicurare il rispetto del diritto di associazione era di armarsi: "chi ha la forza ha il diritto!".
Insorgendo, il proletariato non ha conquistato il potere, né lo poteva: non ha fatto che spingere la borghesia a realizzare almeno in parte dal basso ciò che essa esitava persino a realizzare dall'alto. Ma ormai, l'ipoteca dello Scià è tolta.
Senza dubbio, oggi la borghesia è ancor meno incline di un secolo fa, per paura del proletariato, a sbarazzarsi del "vecchio armamentario". Malgrado tutto, però, ha dovuto prendere il potere. Storicamente, il "conflitto fra ufficiali ed equipaggio" non può più essere rinviato. Così, lavora la "vecchia talpa" della storia.
"L'ayatollah Chariat Madari ed io stesso ritenevamo di dover organizzare, dopo l'abdicazione dello scià e l'instaurazione di un consiglio della corona, elezioni generali e libere che aprissero la via alla designazione di una Costituente, a trasformazioni radicali, e, in seguito, al passaggio del potere. C. Baktiar, allora presidente del Consiglio, si era più o meno espresso a favore di questo progetto, insieme a vari capi dell'esercito e della polizia. per tutta la vita ho pensato che bisognasse progredire lentamente ma sicuramente". Così dichiarava Bazargan nella sua intervista a Le Monde del 15.5.'79.
Fin da prima dell'insurrezione lo sciismo ha mobilitato la massa dei mullah, rimasti neutrali nel conflitto fra le masse e lo scià, sia per garantire la funzione essenziale dell'approvigionamento della popolazione, sia per formare attorno alle moschee quei comitati di quartiere che hanno pure fornito un servizio d'ordine nelle grandi manifestazioni dell'inverno, e, durante l'insurrezione, hanno tentato di canalizzare l'energia delle masse popolari evitandone così gli "eccessi", cioè le esecuzioni di massa di ufficiali e uomini della Savak.
Il compito di un partito veramente rivoluzionario avrebbe dovuto essere di dare all'insurrezione l'elemento dirigente che ne facesse una leva per la distruzione della gerarchia militare, della Savak, delle macchine burocratica e giudiziaria, come presupposto della definitiva eliminazione del "vecchio armamentario" di cui parlava Engels e dell'accelerazione dell'aperta lotta di classe tra borghesia e proletariato. Il compito assolto invece dal partito bifronte Khomeini-Bazargan è stato d'impedire che l'insurrezione spezzasse la continuità dell'apparato statale.
Assicurare la continuità dello Stato e quella dell'apparato produttivo
A tale scopo si dovettero fare alcune concessioni alle richieste popolari e permettere una certa epurazione al vertice dell'esercito e della polizia. Ma, a parte che i comitati islamici si sono precipitati a far sparire gli elenchi degli uomini della Savak, sottraendoli così al furore popolare, la gerarchia militare è stata il più possibile preservata, sebbene il 60% dei soldati non abbia ancora raggiunto le rispettive unità, e malgrado la fuga di elementi troppo apertamente legati alle persecuzioni popolari. Come si gloria il Journal de Teheran, "un po' dovunque i colonnelli hanno rimpiazzato i generali, e così sangue nuovo viene iniettato nell'esercito".
Compito di un partito veramente rivoluzionario e interesse del proletariato e delle masse sfruttate è la soppressione degli eserciti permanenti e, come sola vera garanzia di far valere le proprie rivendicazioni, l'armamento generale del "popolo". Non c'è da stupirsi che Khomeini e Bazargan abbiano agito in senso opposto. La prima preoccupazione dei nuovi governanti è stata infatti di chiamare le masse a deporre le armi, assicurando di conseguenza alla gerarchia militare e alla polizia il monopolio dell'armamento e del suo utilizzo. Conservare le armi è stato dichiarato un "peccato" contro l'Islam, e i "comitati islamici" si sono serviti dell'infiltrazione nei comitati di quartiere e nei comitati operai per far loro deporre le armi. Fortunatamente sembra tuttavia che, oltre a gruppi di guerriglieri come i moudjahidin e i fedayin, e a minoranze come i Curdi, una parte della popolazione abbia tranquillamente affrontato il rischio di avere dei conti da rendere ad Allah e ai suoi rappresentanti in terra...
Questa politica è oggi completata - a partire dalle milizie formate intorno ai comitati islamici, che agiscono ancora in modo più o meno anarchico, naturalmente epurate dagli elementi più irrequieti, con l'aggiunta di gruppi di giovani armati, di militanti religiosi fanatici che hanno già dato prova della loro purezza controrivoluzionaria attaccando manifestazioni di donne o di proletari, occupati e disoccupati - dalla costituzione di una "guardia nazionale islamica", vera gendarmeria reclutata in ambienti popolari e, come la guardia repubblicana del 1848 in Francia, pronta a rivolgersi per un tocco di pane e un'uniforme - qui, grazie alla promessa della benedizione divina - contro le classi delle quali utilizza i figli.
Non c'è voluto molto perché le masse ne risentissero sulla propria pelle i risultati. Dal 20 al 23 marzo, l'esercito ha represso nel sangue, nella più bieca tradizione dello sciovinismo farsi, le rivolte dei Curdi. Questi, che avevano valorosamente partecipato alla lotta contro lo Scià e si aspettavano dalla rivoluzione la fine di una secolare oppressione, importante anche per il proletariato affinché possa unire in un blocco solo le sue file, non hanno ricevuto che manifestazioni di disprezzo, e hanno prima boicottato il referendum, poi lasciato sul terreno 200 morti e 500 feriti.
La settimana dopo, anche la minoranza turcomanna, dalle belle tradizioni di lotte operaie e contadine, si è scontrata col governo. La rivolta si è appoggiata in particolare su un movimento di occupazione di terre al quale il governo non aveva esitato a rispondere in vari casi con le armi, "perché la proprietà fosse rispettata" (Le Monde del 5-5'79).
Negli ultimi giorni di maggio, è la minoranza araba a subire gli effetti della tradizione di dispotismo dello stato centrale in occasione dei moti del Khuzistan, regione che detiene l'essenziale delle ricchezze petrolifere dell'Iran, il che spiega come questa rivolta a sfondo proletario abbia potuto assumere un carattere nazionale di una certa importanza.
Anche i disoccupati hanno avuto modo, per loro disgrazia, di assaporare le gesta della milizia. Il Corriere della Sera del 10-3-'79 narra come duemila disoccupati abbiano manifestato davanti all'abitazione di Khomeini a causa delle promesse che il governo non ha potuto mantenere, e come, a Isfahan, la milizia rivoluzionaria abbia aperto il fuoco su altri manifestanti disoccupati, facendo un morto e dieci feriti.
Nessuna meraviglia che, di fronte all'insorgere di tutte queste tensioni, Bazargan abbia affermato: "Un esercito potente è oggi più necessario del pane" (Le Monde del 6-4-'79).
L'altra preoccupazione del governo Khomeini è stata che l'apparato produttivo continuasse a funzionare: se la borghesia non può prosperare senza la calma dei proletari, vive prima di tutto del loro lavoro. Si ricorderà che, fin da prima dell'insurrezione, Khomeini aveva fatto uso di tutto il suo prestigio per impedire uno sciopero totale della produzione petrolifera.
Mentre per la classe operaia la cacciata della Scià rappresentava un'esigenza per soddisfare le proprie rivendicazioni economiche e politiche, il governo vedeva nel movimento operaio un puro e semplice strumento al servizio della deposizione dello Scià e dell'Islam: "Gli scioperi servivano al movimento rivoluzionario, come oggi alla nazione serve che cessino; chi sostiene che debbano continuare è un traditore, e come tale sarà punito"(dichiarazione più volte citata di Khomeini del 27-2-'79). Comunque, il 17 febbraio fu impartito alla classe operaia, con l'appoggio del Tudeh, l'ordine solenne di riprendere il lavoro. Come l'operaio armato veniva dichiarato peccatore così Khomeini dichiarò traditore chi sciopera.
Anche in questo caso si è fatto duramente sentire la mancanza di un minimo di organizzazione politica in grado di opporsi frontalmente al governo. In certe zone strategiche, come in quella del petrolio, sembra che i comitati islamici direttamente nominati dal Khomeini siano stati praticamente imposti con un vero e proprio colpo di mano alla direzione dei comitati di lavoratori, schiacciando, fra l'altro, gli elementi operai sotto il peso di impiegati e tecnici. Più in generale, la stampa si fa eco di una vera e propria battaglia fra i proletari che tentano di darsi una organizzazione a difesa dei loro interessi di classe, e la gerarchia sciita.
"Per l'ayatollah Behechti, i sindacati dividono la nazione. Per 'liberare i lavoratori dall'oppressione dei proprietari' , aggiunge dottamente, bisogna creare dei consigli operai islamici" (Le Monde del 3-5-'79). è lo stesso Behechti che il 1° maggio, a capo del partito repubblicano islamico, prende l'iniziativa di una contro-manifestazione, opposta a quella delle associazioni di disoccupati, giovani, sindacati e movimenti politici di sinistra (Fronte nazionale democratico, trotzkisti, maoisti e naturalmente Fedayin-Khalq) al grido di "I marxisti sono agenti dello Scià", "Morte agli oppositori", "Gli operai devono essere al servizio del popolo e di Dio" ( vedi Le Monde del 5-5-'79). Secondo lo stesso numero di questo giornale, "per sostenere le proprie rivendicazioni, i disoccupati di Abadan hanno manifestato dinanzi al municipio, e qui si sono scontrati con i membri dei comitati Khomeini, che li hanno trattati da 'contro-rivoluzionari' e da 'comunisti'. E la sezione locale del partito repubblicano islamico si è affrettata a creare un altro sindacato dalle pretese più ragionevoli.".
Mobilitazione islamica antiproletaria
Quando Khomeini si rifiuta di apporre l'etichetta "democratica" alla nuova repubblica iraniana, ha ragione nel senso che la società traumatizzata dal crollo della "grande civiltà" sotto i colpi della crisi mondiale non può concedersi il lusso di una democrazia all'occidentale. Questa democrazia, il cui segreto è la corruzione consentita dalla dominazione imperialistica con la rendita che essa procura, poggia su potenti partiti operai, la cui funzione è di smorzare la lotta proletaria. La borghesia iraniana non dispone, a questo scopo, che di un mezzo di influenza sulla classe operaia e sugli strati popolari: la religione; non dispone che di una organizzazione strutturata, quella del clero sciita.
Ritardando il più possibile l'insurrezione, il clero si è preso il tempo necessario per mettere in piedi un'organizzazione in grado di inquadrare le masse e di canalizzare bene o male la rivolta, di smussarne il taglio, di isterilirne per quanto possibile il risultato. Ormai, è contro il movimento delle masse sfruttate e povere, e in primo luogo contro la classe operaia, come contro i movimenti politici alimentati dal bisogno di radicalismo del movimento sociale, che lo Stato e la Chiesa tentano di organizzare la massa della popolazione. In realtà, il governo Bazargan, prende misure di attesa come il divieto dei licenziamenti nelle fabbriche o l'aumento del prezzo del grano a favore dei contadini, tenta di rimettere in moto la macchina malconcia dell'amministrazione, dell'esercito e della polizia. I comitati islamici, mentre cercano nelle imprese di incanalare le energie dei proletari nell'epurazione dei dirigenti corrotti all'ombra dello Stato appoggiandosi alla gerarchia sciita, organizzano, insieme al partito repubblicano islamico, una vera e propria mobilitazione dei cittadini per il rafforzamento dello Stato.
è interessante notare che, malgrado la sua enorme arretratezza sociale, la borghesia iraniana se la sbriga meglio dei repubblicani francesi del 1848 e tenta di battere la stessa strada dell'Europa "avanzata": l'Islam segue qui, nei confronti del proletariato, la via controrivoluzionaria aperta dalla socialdemocrazia tedesca nel 1918-19, compiendo perfino delle significative incursioni nella via che il fascismo aveva già spinto fino in fondo. La media e piccola borghesia tradizionale del Bazar, che preme in questo senso, avrà un bel tentare di imprimere al movimento un aspetto popolare e perfino, a volte, plebeo; avrà un bell'invocare l'Islam e il diritto coranico per erigere una diga contro le leggi del capitalismo; in realtà, essa non dimostra che la sua impotenza storica a compiere la propria rivoluzione. Credendo di ingraziarsi il grande capitale aiutandolo a spezzare sul nascere il movimento proletario, non fa che firmare la propria condanna a morte: "Il capitale è la concentrazione"!
Dei sussulti di questi strati plebei provocati dall'inevitabile crollo di tali illusioni, il proletariato potrà approfittare solo se riuscirà, prima ancora che si scatenino, a rendersi abbastanza autonomo dal Bazar per poter avanzare le sue specifiche rivendicazioni. Ma lo sviluppo degli eventi svela ogni giorno di più il segreto della "rivoluzione islamica", che orienta la lotta popolare verso la blindatura dello Stato borghese.
Nell'immediato, il partito islamico cerca di riprendere alla classe operaia lo spazio che aveva conquistato con l'insurrezione. Sono i comitati islamici che tentano di rimettere il chador alle donne che ne avevano conquistato l'abolizione con il loro ingresso massiccio nelle galere dell'industria, prima di partecipare con slancio coraggioso alle manifestazioni e all'insurrezione. Sono i comitati che tentano di opporsi ad ogni espressione degli interessi proletari attraverso una stampa politica e sindacale indipendente; sono essi che conducono la battaglia contro l'organizzazione sul terreno di classe. Questa battaglia condotta con tutte le risorse della demagogia religiosa e della menzogna dell'ideologia nazionale, non è che il preludio al tentativo di assalto militare ai gruppi armati (politici o meno) che rappresentano la sola garanzia di salvaguardia delle poche armi organizzative conquistate con l'insurrezione.
Qualunque sia l'esito di un eventuale scontro aperto, in cui non è affatto detto che la classe operaia e le masse plebee, che hanno sostenuto un anno di lotte accanite sfidando splendidamente la morte, si lascino spogliare di tutto senza dar prova di nuovi tesori di energia rivoluzionaria, gli avvenimenti dell'Iran hanno per la classe operaia del mondo intero un importanza capitale, poiché allargano brutalmente il campo degli scontri aperti verso i quali sono irresistibilmente spinti, da profonde determinazioni storiche, borghesia e proletariato.
Per uscire rinvigorita da questa lotta, la classe operaia ha bisogno del suo partito di classe, e al condizione del suo intervento decisivo nel movimento sociale iraniano è la lotta teorica, programmatica e politica contro il democratismo piccolo-borghese che mantiene ancora in una specie di magma indifferenziato la classe operaia e la piccola borghesia: democratismo che non potrebbe rispondere neppure alle esigenze immediate di una lotta proletaria conseguente, anche dato e non concesso che esso sia ancora capace di slanci rivoluzionari.
(da Il Programma Comunista nn. 12 e 13, giugno 1979)
Note
[1] Engels, La questione militare prussiana e il partito operaio tedesco, 1865, in Marx-Engels, Ecrits militaires, Ed. de l'Herne, Parigi, 1970, p.488. Non possiamo invece raccomandare il testo pubblicato in italiano col titolo La questione militare e la classe operaia dalle Edizioni del Maquis, 1977, perché è mutilo e non privo di errori di interpretazione.
[2] è il titolo di un articolo che pubblichiamo in appendice. In esso si ripercorre la storia recente dell'Iran per dimostrare che gli avvenimenti allora in corso non rientrano nella fase ascendente della rivoluzione borghese, come nella Russia del 1917, ma nella sua fase discendente, come, se si vuole, nella Francia del 1848, purtroppo senza che questa "coda di rivoluzione borghese" potesse servire da trampolino al proletariato per " lanciarsi all'assalto del cielo" in un breve arco storico.
[3] Cfr. gli articoli Fra il peso schiacciante del passato e il caotico urto del presente e L'eredità Pahlevi: rivoluzione capitalista alla cosacca.
[4] Citato in Le Quotidienne du peuple del 21-3-'79.
[5] L'ala "moderata" del clero, largamente maggioritaria e rappresentata da Chariat Madari, l'ayatollah di Qom, si pronunciava per una formula del tutto simile a quella propugnata dalla borghesia costituzionale e dal fronte nazionale: "lo Scià regni, ma non governi". Quanto alla base, la massa dei 180.000 mullah, per non parlare dei 60.000 studenti di teologia, era per la maggior parte "neutrale nel conflitto che opponeva lo Scià al popolo insorto", dichiara il feday intervistato. è questa "maggioranza silenziosa" che ha costituito l'ossatura del servizio d'ordine nel corso delle grandi manifestazioni precedenti l'insurrezione, dei "comitati islamici" che forniscono la spina dorsale dell'odierno potere "civile".
[6] "Prima che il khomeinismo fosse largamente diffuso - riprende la intervista citata - la popolarità dei fedayin fra i musulmani era enorme.
[7] è superfluo aggiungere che Khomeini ha conquistato nel gennaio l'appoggio del partito pseudocomunista del Tudeh (col pretesto che "nell'attuale fase della rivoluzione"... sappiamo tutti il seguito!), il che non impedisce a Bazargan di ricordare pubblicamente che questo partito ha tradito Mossadeq nel 1953, il che non è finora bastato a farne revocare il divieto.
[8] Cfr. l'articolo in appendice dedicato all'atteggiamento della piccola borgesia "democratica" nel movimento sociale, e, in particolare, alla critica del programma e delle proposte dei partiti che la rappresentano fra cui i Fedayin.
[9] "Non dico di fermare la rivoluzione. Dico che bisogna canalizzarla. Vogliamo rivoluzionare le vecchie strutture in ogni campo, politico, economico, culturale, giuridico, ecc., ma vogliamo farlo in modo costruttivo e positivo" (dichiarazione di Bazargan a Le Monde, 28-2-'79).
[10] Secondo Le Monde del 14-2-'79, i capi religiosi "vicini all'Ayatollah Khomeini" ritengono "alla luce degli ultimi avvenimenti, che un gruppo di 'desperados' non avrebbe oggi alcuna possibilità di riuscita perché sarebbe completamente isolato. Così stando le cose, il nuovo potere ha preferito prendere alcune precauzioni procedendo all'epurazione dei quadri militari". Aggiungiamo che i comitati islamici si sono affrettati a deviare i colpi della giustizia dai responsabili politici e militari del vecchio regime a questioni di moralità e costume che esaltano i sentimenti religiosi delle masse.
[11] Citato da Inprecor n. 50, 12-4-79. Ecco anche quanto si può leggere su Le Monde del 24-2-'79: "Secondo gli esperti militari, la purga dei generali, molti dei quali in età avanzata o scelti più per il loro servilismo verso lo Scià che per la loro competenza, sarà benefica: dopo un periodo di oscillazioni, questa 'schiumatura' permetterà allo Stato di disporre di un corpo più omogeneo e meglio strutturato".
[12] è sintomatico che una delle rivendicazioni fondamentali nel corso dei recenti modi di Korramshahr sia stata quella dello scioglimento dei comitati islamici.
[13] Inprecor, n.51 del 26-4-'79, riporta dei fatti simili: "In seno a questi comitati di lavoratori, sono ricomparsi con l'appoggio del governo e dei 'comitati di imam', anche persone legate ai vecchi 'sindacati gialli'. Costoro appoggiano con metodi violenti la battaglia del governo, sotto una 'repubblica islamica', i lavoratori non avrebbero bisogno di sindacati".
[14] Ecco le parole di un disoccupato riferite da Le Monde del 5-5-'79: "Abbiamo fatto la rivoluzione con le nostre spalle. Ci crediamo. Disgraziatamente, degli opportunisti, militanti controrivoluzionari, la confiscano a danno dei lavoratori". Nel luglio 1830, borghesi e operai parigini lottarono insieme. I proletari credevano che la sola rivendicazione delle libertà borghesi avrebbe portato loro l'emancipazione. Entrarono allora in scena i Lafitte, i Thiers e i Lafayette, che, fra le pieghe della bandiera tricolore, diedero al popolo la sorpresa della monarchia. La prima preoccupazione fu di disarmare gli operai e di privarli dei frutti della vittoria. Si ebbe allora la prima insurrezione operaia a Lione (1831). Numerose altre se ne svolsero nel decennio successivo, mentre il movimento operaio raggiungeva l'apice in Inghilterra con i cartisti. è in questi episodi gloriosi che la classe operai sentì a poco a poco il bisogno di lottare per i propri obiettivi. è quel che tentò di fare nel febbraio 1848, benché con un programma e con metodi inadeguati.
[15] Cfr. l'articolo in appendice che mette in particolare evidenza l'opposizione programmatica fra il movimento più estremo della piccola borghesia, i Fedayin-Khalq, e il partito marxista rivoluzionario.