La Grande Socializzazione (3)

Dal cooperativismo socialdemocratico al corporativismo fascista, dal comunismo oggettivo della fabbrica alla comunità soggettiva del padrone illuminato: la borghesia alla ricerca di un governo globale e l'emergere di un piano di vita per la specie nonostante le sue forme negate.

TERZA PARTE

Americanismo e fordismo

Il numero 22 (1934) della serie dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, meglio conosciuto come "Americanismo e fordismo", è forse tra quelli più letti e studiati, sia perché solleva una serie di riflessioni sulla crisi e sulla possibilità di superarla attraverso processi di modernizzazione capitalistica, sia perché introduce al dibattito sul fordismo. Con tale termine si intende la produzione industriale di massa resa possibile dall'organizzazione scientifica del lavoro, introdotta, insieme alla riduzione degli orari di lavoro e all'incremento dei salari degli operai, in modo che quest'ultimi abbiano il tempo e i mezzi necessari per consumare le merci prodotte, e si identifichino maggiormente con i destini aziendali. La moderna produzione di massa viene avviata da Henry Ford nella sua fabbrica di automobili di Highland Park, Michigan, nel 1913, con la prima catena di montaggio mobile, costruita per la produzione del modello Ford T. Da allora il mondo della produzione industriale (e non solo) risulta completamente rivoluzionato.

In ambito sociologico sono state costruite molte teorie basate su questo quaderno di Gramsci, teorie servite ad avallare le scelte politiche dell'operaismo italiano. Il quale individua il nuovo soggetto rivoluzionario in un primo tempo nell'operaio-massa, poi – sull'onda della cosiddetta ristrutturazione industriale – nell'operaio sociale e infine, in una non meglio definita "moltitudine desiderante". La congiunzione tra vecchio e nuovo operaismo passa per l'idealistica "filosofia della prassi", l'atto soggettivo che trasforma la realtà, che lega senza soluzione di continuità Gentile, Gramsci e i nipotini post-operaisti.

Le note su "Americanismo e fordismo" (Quaderno 22), iniziano dalla constatazione che l'americanismo e il fordismo "risultano dalla necessità immanente di giungere all'organizzazione di un'economia programmatica", superamento positivo del vecchio individualismo economico.

Gramsci riflette sul fordismo (termine che sembra abbia coniato egli stesso), e su come questa tecnica di produzione, che affonda le radici nel taylorismo, possa essere adottata in Italia e nel Vecchio continente. Per Gramsci:

"L'Europa vorrebbe avere la botte piena e la moglie ubriaca, tutti i benefici che il fordismo produce nel potere di concorrenza, pur mantenendo il suo esercito di parassiti che divorano masse ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il potere di concorrenza sul mercato internazionale."

Il fascismo cerca di farsi interprete e realizzatore di questa esigenza di carattere tecnico-produttivo, all'interno del regime vi sono però delle frizioni tra spinte di modernizzazione capitalistica e tendenze alla conservazione dello status quo. In ambito letterario Gramsci è sicuramente più in sintonia con le tendenze culturali innovatrici dell'epoca ("Stracittà") che accendono i riflettori sulla città su tutto quello che vi ruota intorno, contro quelle cosiddette parassitarie e conservatrici ("Strapaese"). Da parte sua non vi è nessun tipo di preclusione rispetto all'arrivo in Italia di forme di americanismo e fordismo che possano essere utili all'ammodernamento del paese, e al disciplinamento e all'educazione della classe operaia. Del resto, per Gramsci compito dei comunisti è trasmettere agli operai il senso della responsabilità e della disciplina, come fatto dai consigliaristi durante il movimento di occupazione delle fabbriche a Torino negli anni Venti.

Nel capitolo "Animalità e industrialismo" del Q. 22, troviamo scritto che la storia dell'industrialismo è sempre stata una lotta contro la parte animale dell'uomo, ovvero un processo di addomesticamento dei suoi istinti attraverso una serie di norme e regole, le quali hanno reso possibili forme sempre più complesse di vita collettiva:

"Questa lotta è imposta dall'esterno e finora i risultati ottenuti, sebbene di grande valore pratico immediato, sono puramente meccanici in gran parte, non sono diventati una 'seconda natura'. Ma ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone la lotta contro il vecchio, non è sempre stato per un certo tempo il risultato di una compressione meccanica? Anche gli istinti che oggi sono da superare come ancora troppo 'animaleschi' in realtà sono stati un progresso notevole su quelli anteriori, ancor più primitivi: chi potrebbe descrivere il 'costo', in vite umane e in dolorosi soggiogamenti degli istinti, del passaggio dal nomadismo alla vita stanziale e agricola?"

Nella storia dell'uomo si scontrano dunque due forze, l'animalità e la razionalità, vincerà quest'ultima se si accetteranno i metodi fordisti di produzione. E se questo regime di fabbrica può risultare disumanizzante per l'operaio, egli non rimarrà per sempre un "gorilla ammaestrato", come voleva Taylor, perché - secondo Gramsci - la produzione seriale aliena talmente gli operai dal loro lavoro che gli permette di avere la mente disimpegnata e dar corso così a "pensieri poco conformistici". Ci sarebbe quindi un aspetto positivo nella catena di montaggio fordista: la disciplina imposta dal lavoro di fabbrica, qualora sia compresa e fatta propria "criticamente" dalla classe operaia, potrà essere utilizzata per emanciparsi dalla propria condizione di subalternità, con la creazione di un ordine nuovo.

L'attenzione di Gramsci per la fabbrica, luogo di coesione materiale del proletariato, centro di organizzazione politica da cui l'egemonia si irradia verso il resto della società, non può non essere attenzione per le trasformazioni tecnologiche e organizzative che in essa avvengono. Nel fascismo la transizione da vecchia a nuova industria avviene all'interno di una cornice corporativa ed egli la definisce "rivoluzione passiva" , portata avanti non dalla classe operaia ma dalle classi dominanti che sono costrette ad ammodernare i processi produttivi per estrarre maggior plusvalore.

Per Gramsci il fordismo, razionalizzando la produzione, e di conseguenza la società, tende a eliminare le classi parassitarie, "masse fannullone e inutili che vivono del patrimonio degli avi". La sedimentazione di una molteplicità di classi e sottoclassi inutili, in Italia come Cina e in India, è un freno all'imporsi di una organizzazione scientifica del lavoro. La situazione degli Stati Uniti è completamente diversa da quella italiana (il sistema poco produttivo delle "cento città"): il fordismo vi è nato, possiamo dire spontaneamente, perché ha trovato un ambiente sociale più adatto rispetto a quelli europei, dove invece vi è una presenza ingombrante di strati sociali inutili che si sentono direttamente minacciati dall'arrivo del nuovo modo di produrre. Esso porta a una semplificazione dei rapporti sociali, cioè ad una "composizione demografica razionale" che fa nascere un nuovo tipo di lavoratore plasmato sulle esigenze della produzione industriale.

Per Gramsci vi è uno stretto legame tra la razionalizzazione del lavoro e il proibizionismo. Con il bando sulla fabbricazione, vendita, importazione e trasporto di alcool (Volstead Act, in vigore dal 1919 al 1933), lo stato americano costringe il lavoratore ad una vita più ordinata e disciplinata:

"La verità è che non può svilupparsi il nuovo tipo di uomo domandato dalla razionalizzazione della produzione e del lavoro finché l'istinto sessuale non sia stato conformemente regolato, non sia stato anch'esso razionalizzato". (Q. 22)

Come la catena di montaggio ha sconvolto la vita dell'operaio, così il proibizionismo ha modificato profondamente la società americana: uno stuolo di psicologi e sociologi controlla la vita dei lavoratori e spia i loro comportamenti anche fuori dal luogo di lavoro. Per Gramsci il disciplinamento degli istinti imposto dagli "industriali americani tipo Ford", è un qualcosa di positivo per la classe operaia, che sarà la classe dirigente di domani. Nella logica di tipo gradualista gramsciana , i lavoratori prendono coscienza della propria condizione, si responsabilizzano, si impossessano delle strutture produttive e tramite la rete dei consigli di fabbrica formano il loro governo, lo stato autogestito dei produttori. Potremmo definire questa visione come un corporativismo democratico di tipo consigliare.

Tra stato socialista dei produttori e stato corporativo il passo è più breve di quanto possa sembrare a prima vista. Nel Q. 22, Gramsci dice infatti che il fascismo si è appropriato di alcune tematiche sviluppate dagli ordinovisti durante il Biennio Rosso, con riferimento soprattutto alla tendenza rappresentata dai Nuovi Studi, da Critica Fascista e dalla Scuola di studi corporativi di Pisa. Il fascismo quindi, non sarebbe solo pura reazione antisocialista ma anche, in alcune sue componenti avanzate, tentativo di modernizzazione dell'apparato produttivo e dell'intera architettura statale.

Gramsci accenna, a tal proposito, al pensiero di Massimo Natalino Fovel (1880-1941), curioso personaggio "legato a piccoli interessi loschi" che, dopo una militanza nel Partito radicale (in cui rappresenta la tendenza radicalsocialista), passa al PSI per poi approdare al fascismo, riconoscendosi nelle teorie tecno-corporative di Ugo Spirito. Per Fovel, che propugnava un blocco sociale tra il proletariato e la media borghesia, il corporativismo doveva essere puro, avulso da connotazioni etiche o politiche, e doveva avere dei marcati tratti fordisti, in modo da portare alla formazione di un "blocco industriale-produttivo autonomo", destinato a risolvere in senso moderno il problema dello sviluppo dell'apparato economico italiano, contro gli elementi parassitari che si intascano una eccessiva quota di plusvalore. Soprattutto contro quelli che vivono sulla produzione di risparmio, la quale da esterna (rendita finanziaria), deve diventare funzione interna del blocco industriale. L'aumentata massa del plusvalore ottenuta con i metodi fordisti di produzione deve portare ad un aumento dei salari (Fovel propone un salario corporativo in un'economia di soli produttori) e a una diminuzione degli orari di lavoro. Si dovrebbe avere così un ritmo più accelerato di accumulazione di capitale nel seno stesso dell'azienda. Gramsci segue con interesse la linea di ragionamento di Fovel, per il quale il "blocco industriale-produttivo" deve coinvolgere tutti gli elementi direttamente impiegati nella produzione, dai tecnici agli operai, "che sono i soli capaci di riunirsi in sindacato e quindi di costituire la corporazione."

Nella visione di Fovel i risparmi devono ritornare all'interno del blocco industriale per essere reinvestisti nella produzione, tagliando fuori i "divoratori di plusvalore" (la categoria parassitaria dei grandi azionisti). Gramsci vede come ipotesi progressista quella della formazione di un organismo produttivo diretto esclusivamente da necessità "tecnico-industriali" che vada oltre il "puro diritto di proprietà", in modo che i redditi diventino una "funzione dello stesso organismo produttivo". Tutto questo però, egli conclude, è molto difficile che lo possa portare a termine lo stato fascista, legato mani e piedi alla plutocrazia finanziaria, "del resto è lo Stato stesso che diventa il più grande organismo plutocratico, l'holding delle grandi masse di risparmio dei piccoli capitalisti."

Dunque, sembra di capire, servirebbe un nuovo tipo di Stato per portare a termine quello che l'attuale non è in grado di fare, ovvero un "vasto disegno di razionalizzazione integrale". Gramsci, come abbiamo visto, non si schiera contro i processi di modernizzazione industriale, dato che – scrive sempre nel Q. 22 – già "prima del '22 e anche prima del '26" le masse operaie fecero proprie le "nuove e più moderne esigenze industriali e a modo loro le affermarono strenuamente". Del resto, nota Gramsci, "qualche industriale capì questo movimento e cercò di accaparrarselo." Il riferimento è al tentativo fatto in quegli anni da Agnelli

"di assorbire l'Ordine Nuovo e la sua scuola nel complesso Fiat, e di istituire così una scuola di operai e di tecnici specializzati per un rivolgimento industriale e del lavoro con sistemi 'razionalizzati'."

Il conflitto tra classe operaia e capitale non ruota per Gramsci intorno alla questione della "proprietà" ma a quella della modernizzazione dell'apparato industriale e della dimensione sociale di questa modernizzazione. Ciò che conta per Gramsci è fare in modo che questo progresso sia portato avanti e gestito non dall'alto ("rivoluzione passiva") , ma dalla classe operaia, "da una nuova forma di società, con mezzi appropriati e originali." Si tratta di una lotta per l'egemonia, per la direzione intellettuale e morale della società. Ciò a cui l'operaio deve mirare quindi, non è tanto la distruzione della forma aziendale (bestia nera di ogni comunista) e la liberazione della fabbrica, ma "l'introduzione di automatismi più perfetti e di più perfette organizzazioni tecniche del complesso aziendale". In quest'ottica, la razionalizzazione integrale dell'azienda porterebbe la stessa a perdere il suo carattere capitalistico.

"La Fiat diventerà una cooperativa?"

Il tentativo di abboccamento operato da Giovanni Agnelli verso il gruppo dell'Ordine Nuovo è il tema che lo storico Giuseppe Berta affronta nel primo capitolo del saggio Conflitto industriale e struttura di impresa alla Fiat (1919-1979). Nel pieno del movimento di occupazione delle fabbriche a Torino nel settembre del 1920, quando gli industriali cominciano a preoccuparsi seriamente per quanto sta succedendo, Agnelli chiede a Giolitti di far sgomberare con la forza le fabbriche. Una misura che il capo del governo rifiuta di prendere valutando meno pericoloso lasciare gli operai all'interno degli stabilimenti dove sono più facilmente controllabili. In quel frangente Bordiga, rappresentante della corrente intransigente del PSI che si raccoglie intorno al giornale Il Soviet, in contrapposizione agli ordinovisti, sostiene che non ha senso (auto)recludersi nelle fabbriche, facendole funzionare per proprio conto, o meglio senza la presenza dei dirigenti, ma che bisogna uscire dalla galera aziendale, prendersi le piazze e impadronirsi del potere politico, come avevano fatto i bolscevichi ("Prendere la fabbrica o prendere il potere?", Il Soviet del 22 febbraio 1920).

Berta sostiene che la proposta di Agnelli di trasformare la Fiat in una cooperativa e darla in gestione ai sindacati, formulata dall'industriale torinese sul finire del movimento di occupazione delle fabbriche, non era ad ogni modo che una manovra di facciata, perché nessun organismo sindacale o para-sindacale nella realtà aveva la volontà o la capacità di farsi carico della direzione dell'azienda automobilistica; e infatti il movimento dei consigli stava rifluendo. Poco dopo saliva al potere il fascismo, e Agnelli avrà un nuovo e ben diverso interlocutore. Comunque, l'intento di istituire una scuola in Fiat al fine di far conoscere agli operai le moderne tecniche di produzione fordiste era una richiesta degli stessi ordinovisti:

"Perché non potreste fare sorgere, nell'officina stessa, appositi reparti di istruzione, vere scuole professionali, ove ogni operaio sollevandosi dalla fatica che abbrutisce, possa aprire la mente alla conoscenza dei processi della produzione e migliorare sé stesso?" (Gramsci, "Ai commissari di reparto dell'officina Fiat centro e brevetti", Ordine Nuovo, 1919).

Vi è dunque un sentire comune tra l'Ordine Nuovo e la dirigenza Fiat? Alberto Asor Rosa, docente universitario e critico letterario di formazione "marxista", con simpatie operaiste, nel saggio Intellettuali e classe operaia (1974), mette in evidenza come vi siano tracce negli appunti su "Americanismo e fordismo", e in molti scritti de L'Ordine Nuovo che in parte abbiamo avuto modo di citare, di una "comunanza di destini" tra capitalismo avanzato e classe operaia moderna, poiché "è una Civiltà del Lavoro, quella che il Consiglio operaio è destinato a costruire." Quella degli ordinovisti è

"l'utopia di una società capitalistica senza più capitalisti, fatta cioè da un insieme di eguali – i lavoratori – tutti accomunati, al di là delle differenze di ceto e di qualificazione, da un'analoga dedizione al lavoro".

In un congresso della Camera del Lavoro di Torino, nel dicembre 1919, Umberto Terracini aveva dichiarato:

"Si è detto che i Consigli di Fabbrica vogliono valorizzare il sistema Taylor. Questo è vero, in un certo senso. I Consigli di fabbrica non fanno male a propugnare i concetti che occorre produrre di più e migliorare la produzione, dato che essi vogliono preparare l'avvento della società comunista. Essere rivoluzionari non significa essere contro la produzione." (cit. in Fordismi, Bruno Settis)

Sono significative due lettere inedite di Gramsci pubblicate da Togliatti su Rinascita n. 17 del 25 aprile nel 1964, probabilmente in risposta ai movimenti di piazza che avevano scosso l'Italia dei prima anni Sessanta e che sfuggivano, almeno in parte, al controllo sbirresco del PCI. Le due lettere, un richiamo all'ordine, sono datate 10 gennaio e 2 aprile 1924, e nell'ultima si scrive:

"Il fascismo […] ha trasformato il nostro popolo […]; gli ha dato una tempra più robusta, una moralità più sana, una resistenza al male che prima era ignorata, una profondità di sentimenti che non era mai esistita. Il fascismo ha veramente creato una situazione permanentemente rivoluzionaria, come lo zarismo aveva fatto in Russia."

Ordine, disciplina e moralità. La classe operaia è destinata un domani a prendere il potere, ma già oggi deve farsi carico della produzione industriale, accettando le sofferenze e forgiandosi in esse. Nel libro autobiografico Memorie di un incosciente (1977), Ugo Spirito mette in luce i "sintomatici consensi" che emergono tra alcuni suoi scritti e quelli di Gramsci:

"L'atteggiamento assunto dai comunisti di fronte al mio pensiero e soprattutto di fronte al mio comunismo non è mai stato molto chiaro. Il mio corporativismo e, in particolare, il mio corporativismo dal Congresso di Ferrara (1932) in poi li ha posti in una situazione di perplessità, dalla quale non sono riusciti a liberarsi. Il primo a prendere una posizione pro o contro è stato Antonio Gramsci, che alla mia teoria ha dedicato un'ampia critica, raccolta ora nella nuova edizione dei Quaderni del carcere. È una critica, ripetuta molte volte, a proposito dei più vasti argomenti, in senso prevalentemente negativo, ma anche con sintomatici consensi."

In effetti, il "consiglio operaio" di Gramsci è molto simile alla "corporazione proprietaria" di Spirito che, nell'articolo "Verso la fine del sindacalismo" (Critica fascista, 15 ottobre 1933), auspica la formazione di un organismo in cui "datori di lavoro e lavoratori sarebbero chiamati a considerare i propri interessi alla luce del problema fondamentale della produzione", in modo da "aprire la via alla più profonda unità". E, poi, in modo da condurre a "una vita comune… nell'azienda", sino alla "completa eliminazione del dualismo" classista e all'"unificazione dei fini e degli interessi".

Non si tratta, nell'articolo di Spirito, di abolire la proprietà privata, ma di socializzarla dilatandola al massimo. I lavori della nostra corrente sull'evolvere dell'economia russa verso un capitalismo di Stato (Struttura economica e sociale della Russia d'oggi), chiariscono che l'azienda può funzionare anche senza il padrone, basta sostituirlo con funzionari stipendiati. Per l'Ordine Nuovo non si tratta di superare il capitalismo ma di dare una diversa direzione al suo sviluppo, una direzione che sia sotto il controllo operaio.

L'ideologia produttivista di matrice gramsciana si riproduce nel Secondo dopoguerra con il mito degli investimenti produttivi, del PCI e della CGIL, come notano i fili del tempo del 1950 "Far investire gli ignudi" e "Capitalismo e riforme"; mito ripetuto nei giorni nostri dai sindacati confederali (ma anche da quelli di base), che, in perfetta sintonia con Confindustria chiedono maggiori investimenti pubblici per far ripartire l'occupazione e i consumi.

La critica che Marx fa a Martin Lutero può essere benissimo ripresa per criticare il Gramsci-pensiero: se Lutero vuole che la religione non sia qualcosa di esterno ma venga interiorizzata dal fedele, Gramsci vuole che la disciplina al lavoro venga interiorizzata dalla classe operaia, in modo che essa sia in grado di prendere in mano le leve del potere. Abolire i preti facendo diventare tutti preti! Anche per Spirito si doveva abolire il dualismo Stato-individuo trasformando tutti i produttori (operai e padroni) in funzionari statali. Ma ecco Marx sul processo di interiorizzazione della fede:

"Lutero, in verità, vinse la servitù per devozione mettendo al suo posto la servitù per convinzione. Egli ha spezzato la fede nell'autorità, restaurando l'autorità della fede. Egli ha trasformato i preti in laici, trasformando i laici in preti. Egli ha liberato l'uomo dalla religiosità esteriore, facendo della religiosità l'interiorità dell'uomo. Egli ha emancipato il corpo dalle catene, ponendo in catene il cuore." (Marx, Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, 1844)

Gramsci, Spirito, Togliatti, Di Vittorio… la lista dei sacerdoti del Dio Lavoro potrebbe continuare a lungo e riempire pagine e pagine; ma siccome non sono i nomi che ci interessano individuiamo gli invarianti e inseriamo i personaggi all'interno di un'unica categoria, quella riformista.

Sombart e l'economia a programma

Il sociologo tedesco Werner Sombart, come abbiamo visto, partecipa al Convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara del 1932. Egli è collocabile all'interno di quella corrente internazionale che pensa che il futuro dell'economia stia nella programmazione. Uno dei suoi testi più significativi, L'avvenire del capitalismo, è la trascrizione di una conferenza tenuta presso la Società di studi per l'economia monetaria e creditizia di Berlino nel febbraio 1932.

La conferenza di Sombart si inserisce in un clima politico turbolento: la Repubblica di Weimar ha perso tutta la sua credibilità, e dalla società emerge una profonda voglia di cambiamento su cui fa perno il partito nazista per attaccare i vecchi partiti. La conferenza viene pubblicata in Italia sotto forma di opuscolo con la prefazione del fascista Alberto Ghislanzoni, il quale invita allo studio delle opere del sociologo tedesco: tale lettura, "riuscirà utile ai nostri economisti, agli organizzatori, agli studiosi del nuovissimo diritto corporativo."

Sombart nasce in Sassonia nel 1863, ha una brillante carriera accademica, tanto che diventa il capocorrente della seconda scuola classica tedesca, opposta al marginalismo, ed è un importante studioso delle opere di Marx, tanto che Engels lo definisce l'unico professore tedesco ad aver capito il Capitale. Amico di Max Weber, e, negli anni Trenta addirittura più conosciuto e tenuto in maggior considerazione, verrà nel dopoguerra tenuto ai margini a causa del suo avvicinamento alle posizioni naziste.

In L'avvenire del capitalismo, viene sviluppata una teoria del socialismo in versione nazionale, lontana dall'internazionalismo marxista. Sombart individua all'interno della società due polarità: il caos, in cui versa il mondo a causa del libero mercato, e il cosmo, l'ordine, la pianificazione, a cui dovrebbe tendere l'umanità. Per il sociologo tedesco, "l'economia non è il nostro destino": non tutto è predeterminato, come sosterrebbe il marxismo, la volontà degli uomini (dei grandi capi) può incidere sulla storia e mutarne la direzione.

Questa concezione volontaristica della storia, che è fondamentalmente irrazionale, cioè non predefinita in una regola, vuole prendere le distanze sia dall'economia classica che, naturalmente, dal marxismo:

"L'esponente di questa volontà che decide di fondare un nuovo ordinamento della vita economica può essere diverso: giacché esso può rivelarsi come volontà individuale – come nel caso di Lenin, di Kemal Ataturk, di Mussolini – sia come volontà collettiva".

Il volontarismo di Sombart ha molto in comune con lo "slancio vitale" di Henri Bergson (Evoluzione creatrice, 1907), una forza interna che avanza, una tendenza innovativa travolgente, una esigenza di creazione che distrugge gli ostacoli per affermarsi. L'ultima frase della Conferenza di Sombart non potrebbe essere più chiara e profetica:

"Tutti noi desideriamo che anche alla nostra Patria venga concessa la grazia di siffatta volontà: giacché siamo convinti che senza di essa precipiteremmo nel caos".

La volontà che cambia la storia la troviamo anche in talune concezioni politiche che maturano in Russia nella metà degli anni Venti, quando alcuni esponenti dell'Internazionale pretendono si possa mutare la controrivoluzione in rivoluzione attraverso sforzi volontaristici, sotterfugi politici e tatticismi opportunistici. Manovre che, dai fronti unici politici alle proposte di governo operaio, accelerarono il processo degenerativo dell'I.C. invece di contrastarlo.

In L'avvenire del capitalismo, Sombart, dopo aver svolto un'analisi di tipo filosofico, passando ad esporre le sue riflessioni rispetto all'economia sostiene che lo spirito irrazionale e animale che animava il capitalismo delle origini sta venendo meno perché si stanno sviluppando nuove forme di vita economica come le aziende pubbliche, le forme di economia mista, i trust e i monopoli, che lo stanno imbrigliandolo. La tensione capitalista ne risulta mortificata, perché

"l'elemento razionale è cresciuto fortemente ed ha quasi permesso l'ingresso della razionalizzazione anche nelle classi imprenditrici".

Essendo le grandi industrie dirette perlopiù da funzionari stipendiati, l'attività industriale è sempre meno un fatto di ingegno e di libero arbitrio del singolo capitalista e sempre più un fatto di razionalità e di calcolo. Però, nota lo studioso tedesco, uno spirito completamente razionalizzato (potremmo anche dire tecnocratico) non è più vero spirito capitalista, è qualcos'altro:

"Queste trasformazioni si possono sintetizzare in una frase dicendo: al posto di un decorso naturale dei processi economici è subentrata una quantità di interventi regolatori, al posto del sistema 'mobile', si è introdotto il sistema 'rigido'. In altre parole la vecchia tecnica dei mercati, su cui poggiava in effetti il sistema capitalistico, non esiste più".

Per Sombart alla data del 1932 ci troviamo di fronte a un'economia ibrida, capitalistica solo per metà, e la confusione di sistemi, non governata da una volontà forte e decisa, sta facendo precipitare la società nel caos. E poiché non si può ritornare a una fase di libero mercato, a un capitalismo schietto, non falsato, in cui c'è massima libertà d'iniziativa, si aprono due strade: quella conservatrice, tappabuchi, basata sul sovvenzionamento di un settore dell'economia, e il controllo statale di un altro, con una serie di interventi tampone per salvare il salvabile. Ma per il sociologo tedesco questa opzione non ha futuro e porta all'acutizzarsi della crisi, al caos, come dimostra l'operato fallimentare della Repubblica di Weimar. L'altra strada, quella che per lui bisogna percorrere, definita riformatrice ma allo stesso tempo rivoluzionaria, prevede il passaggio ad un ordinamento programmato dell'economia, che è

"la nozione fondamentale dell'avvenire, in opposizione all'economia selvaggia, caotica, disordinata e priva di senso".

L'economia a programma, per Sombart, ha tre caratteristiche fondamentali:

1) Deve essere comprensiva, cioè totalitaria, un congegno strutturato in termini perfettamente logici, un meccanismo i cui elementi sono disposti razionalmente.

2) Deve essere unitaria, nel senso che deve procedere da un centro e irradiarsi verso la periferia.

3) Deve essere molteplice: ogni nazione sviluppa la sua autarchia, la sua economia a programma, perché ogni nazione è differente. Ogni popolo ha una sua propria indole. Il mercato non viene eliminato di colpo: l'economia di piano si sovrappone via via a quella di mercato, non la elimina per decreto.

Evidentemente, non può durare a lungo un'industria in cui vi sia una programmazione a metà: o c'è un piano di produzione oppure c'è l'anarchia. Viceversa, perché in un paese ci sia un'economia a programma ci deve essere un'organizzazione complessiva della società, una programmazione di tutti gli ambiti economici, un consiglio superiore della programmazione dell'economia nazionale, un centro dotato di potere che tutto coordini.

Sombart si pone il problema di coniugare i termini di libero arbitrio con quelli di interesse generale, l'aspetto irrazionale con quella che egli chiama sublimazione razionale e calcolante dell'uomo moderno. La volontà non viene negata, ma viene traslata dai singoli allo Stato, rappresentato da figure carismatiche come Lenin, Mussolini e Hitler, l'incarnazione della volontà dei popoli. Idea rappresentata ne Il trionfo della volontà , il film-documentario di propaganda nazista diretto da Leni Riefenstahl, che documenta il Raduno di Norimberga del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (1934), mettendo bene in luce gli aspetti volontaristici del nazional-socialismo, dal culto del popolo, che sostituisce la classe, a quello del grande condottiero che guida la folla. Sullo sfondo una grande comunità nazionale (auto)convinta di aver superato le contraddizioni e i limiti della vecchia società.

Altro teorico tedesco del nazional-socialismo è Ferdinand Fried, che scrive nel 1932 il libro La fine del capitalismo, in cui sostiene che questo modo di produzione è arrivato al capolinea, e nel sistema "che ora seguirà, l'economia sarà risospinta, dalla sua funzione di dominatrice, a quella di serva dell'umanità."

I teorici dell'economia a programma pensano che in un'economia pianificata lo Stato sarà il dominatore dell'economia (per Mussolini "il Capitale non è una divinità, è uno strumento"), quando invece ciò che succedeva era esattamente l'opposto: si stava consolidando il "dominio reale" del Capitale sulla società. Non era lo stato corporativo che stava piegando l'economia capitalistica, era vero il contrario: il Capitale rafforzava lo Stato perché aveva bisogno di una struttura di controllo forte. La nostra corrente su questo punto non ha mai avuto dubbi:

"Il capitalismo di Stato significa non un assoggettamento del capitale allo Stato, ma un ulteriore assoggettamento dello Stato al capitale." ("Lettera di Alfa ad Onorio", 9 luglio 1951)

La teoria sombartiana della volontà che tutto domina è una grande illusione: è l'economia che domina la società attraverso gli strumenti umani adatti allo scopo, come furono i vari battilocchieschi gerarchi dell'epoca.

Concludiamo questo capitolo sul pensiero di Sombart, ricordando un suo saggio del 1906: Perché negli Stati Uniti non c'è il socialismo? dove riporta l'intervista a un sindacalista americano dell'AFL in cui questi dichiara che il sindacato non è pregiudizialmente contrario al sistema salariale: se il capitalismo migliora le condizioni di vita della classe operaia il suo sindacato è ben lieto di tenerselo! Certo, se il capitalismo portasse a peggiorare il livello di vita dei lavoratori, si potrebbe prendere in considerazione l'idea di cambiare sistema e di sostituirlo con altro. Per Sombart il socialismo negli Usa non si è mai radicato (mentre in Europa è stato tutto un fiorire di movimenti e partiti socialisti) perché c'è ancora una frontiera da oltrepassare (siamo agli inizi del Novecento), ci sono ancora ampi spazi vergini da conquistare, che in Europa invece si sono esauriti. Qualora questi confini si restringessero, le cause che hanno fatto crescere e prosperare il capitalismo americano gli si ritorcerebbero contro facendolo collassare e facendo sorgere dalle sue ceneri il socialismo.

Il planismo

Questa corrente di idee si presenta come alternativa sia al comunismo che al capitalismo, entrambi giudicati fallimentari, e cerca una nuova sintesi attraverso l'economia programmata, un socialismo nazionale basato sul controllo statale del credito e su riforme di struttura, tramite il coinvolgimento del proletariato e delle sue organizzazioni. Anche in questo caso, l'obiettivo è quello di trovare una forma di governo (il piano) che accomuni le varie categorie dei produttori nell'ottica del superamento della lotta di classe.

Nel 1933 il socialista belga Henri de Man sviluppa una teoria della pianificazione che fonde idee socialiste, corporative e tayloristiche, presentandola come "terza via" tra marxismo e liberalismo. De Man si ricollega alla tradizione sindacalista francese e propone un tipo di "economia mista", cioè una pianificazione dell'economia capitalistica. Egli intende superare le crisi del capitalismo attraverso la nazionalizzazione del credito bancario e il controllo dello Stato sulla finanza, senza dunque negare le categorie economiche capitaliste, ma introducendo degli elementi di piano.

Il Piano De Man (Plan van de Arbeid) diventa, nel 1933, il programma del Partito operaio belga, che ha l'obiettivo di nazionalizzare i grandi impianti produttivi e dare il controllo e la direzione degli istituti finanziari a organismi statali. De Man sostiene la necessità di affiancare al governo politico un esecutivo tecnico che sostituisca il Senato:

"Alla teoria classica che fonda la democrazia borghese, non più rispondente alle realtà attuali, si deve sostituire una teoria nuova che presuppone una diversa concezione della separazione dei poteri: l'esecutivo governa, le istituzioni rappresentative controllano. Analogamente, all'interno del nuovo Stato economico in via di costituzione, le istituzioni rappresentative, cioè fondate sull'esercizio del diritto al suffragio individuale, eserciteranno un semplice diritto di ispezione e controllo. L'esercizio del diritto di gestione invece si fonderà sulla delega di poteri da parte dell'esecutivo e su un controllo esercitato dalla rappresentanza degli interessi corporativi." (Henri De Man, "Il socialismo davanti alla crisi", Vie socialiste, 1934)

Il desiderio di veder realizzate le proprie idee, lo porta ad assumere cariche istituzionali in Belgio dal 1935 al 1938 come Ministro dei Lavori pubblici e delle Finanze, e ad organizzazione tre International Plan Conference, tra il 1934 e il 1937, cui partecipano vari movimenti e partiti socialisti europei. A quella del 1934, che si tiene nell'Abbazia di Pontigny nel nord della Borgogna (e che vede la presenza anche dei socialisti italiani Carlo Rosselli e Angelo Tasca), si discute di programmi socialisti e di economia pianificata. In quella sede, De Man espone il suo "piano", critico verso lo strapotere del sistema bancario e finanziario internazionale e finalizzato non tanto ad una rivoluzione quanto a una serie di riforme di sistema volte ad instaurare un regime di economia programmata. A questo scopo, egli sosteneva, bisogna allargare il fronte sindacale facendolo diventare un "fronte del lavoro", che inglobi tutti gli strati della popolazione, dai proletari ai piccolo-borghesi.

I teorici italiani del corporativismo studiarono le teorie planiste (lo storico Delio Cantimori curò la traduzione de Il piano del lavoro di De Man per le edizioni Sansoni), ma non lesinarono le critiche, come nel caso di Ugo Spirito, che imputava al socialista belga di voler riproporre un nuovo statalismo che rischiava di sfociare in un inefficiente e datato burocratismo. Ugo Spirito negli anni Trenta scriveva:

"Quando il corporativismo propugna un'economia programmatica intende giungere a una organizzazione corporativa di tutti i produttori che consenta a ognuno di essi, dal suo preciso punto gerarchico rispondente alla sua specifica funzione, di contribuire alla formazione del piano sociale. Nessun corporativista sognerebbe mai di compilare un piano, senza con ciò stesso smentire il principio fondamentale del corporativismo, che fa coincidere governo e governati, attività normativa e attività produttiva, centro e periferia. Solo a questa condizione socialismo e liberalismo possono pervenire a una superiore sintesi. Ma il De Man non vi può giungere […] Permane in lui il pregiudizio democratico e classista del proletariato, il pregiudizio astrattamente egalitario dell'elettoralismo, della maggioranza e del suffragio universale." (Il piano De Man e l’economia mista, ed. Sansoni, 1935)

Durante la guerra De Man, constatato il fallimento del regime parlamentare, aveva appoggiato il regime di Vichy rimanendo coerentemente fedele all'idea della necessità di uno stato forte per regolare un'economia che, lasciata in balia dei meccanismi del libero mercato, sarebbe andata fuori controllo portando la società verso il caos.

La Conferenza di Amsterdam

Ci sono varie interpretazioni del keynesismo e, secondo Alfredo Salsano (Ingegneri e politici), è sbagliato presentarlo come lo sviluppo logico del taylorismo ed è altrettanto sbagliato parlare di modo di produzione fordista, dato che per il primo può essere utile sprecare merci e lavoro umano (il famoso "far scavare buche ai disoccupati e poi riempirle") per mantenere in vita il sistema, mentre il secondo comporta la razionalizzazione dei processi produttivi al fine di eliminare sprechi e intoppi, senza badare troppo alle conseguenze sociali di tali risparmi.

La corrente che viene definita "taylorista sociale" fece la sua apparizione subito dopo la Crisi del '29 e, nelle sue punte avanzate, teorizzò la necessità di una pianificazione socioeconomica mondiale. Naturalmente, non riuscì a realizzare i suoi progetti (impossibile in ambito capitalistico giungere a una pianificazione generale dell'economia) dato che vinse e si impose la variante fascio-keynesiana, una radicale riforma del capitalismo. Ma merita di essere studiata con la dovuta attenzione, in quanto rappresenta una capitolazione ideologica della borghesia di fronte alla teoria rivoluzionaria: la dimostrazione che la struttura produttiva necessita di una pianificazione, sia all'interno della fabbrica che tra fabbrica e fabbrica.

Lo sviluppo del capitalismo è, allo stesso tempo, sviluppo della sua antitesi: il comunismo. E non si potrebbe affermare nulla del genere se non fosse il capitalismo stesso a preparare le condizioni per la propria scomparsa, socializzando al massimo la produzione e portandola al livello organizzativo corrispondente a una società senza classi; eliminando oggettivamente la proprietà privata (molte aziende sono oggi controllate dallo stato o da fondi pensione o d'investimento, nei quali il capitale agisce senza essere direttamente collegato ai suoi possessori) prima che scompaiano i soggetti che ne beneficiano, i capitalisti; sviluppando la classe che, con il suo organo politico (che non sarà un partito tra i tanti ma la negazione di ogni forma organizzativa finora esistita), rappresenta fisicamente lo strumento per la distruzione della vecchia società e l'emergere di quella nuova.

Il momento in cui si verifica l'incontro tra pianificatori statunitensi ed europei è la Conferenza di Amsterdam dell'agosto 1931, nota come World Social Economic Planning, che vide riuniti nella città olandese ingegneri americani, socialisti e sindacalisti europei ed esponenti del Gosplan sovietico. L'intervento forse più importante fu quello di Harlow Stafford Person, membro della Taylor Society , secondo il quale i principi che regolano la singola impresa devono essere estesi all'amministrazione generale della società, portando così ad una stabilizzazione industriale progressiva. L'intera società diventa un'enorme fabbrica: per Person si trattava di trasferire la tecnica dal piano dell'economia della singola impresa al piano dell'economia sociale. Insomma, il piano di produzione, che prima era programmato per ogni unità produttiva, dovrebbe abbracciare l'intera società-fabbrica, diventando universalmente valido.

Molto più moderato il discorso dell'economista americano L. L. Lorwin, il quale propose una pianificazione della società di tipo social-progressista che, senza sovvertire l'intero sistema della proprietà privata, contemplasse la formazione di un certo numero di consigli e commissioni governative per affrontare le varie fasi della programmazione economica.

Edward Albert Filene, presidente di alcuni grandi magazzini di Boston, presentò una sua versione della teoria della mass production, basata su alti salari e aumento della produttività, auspicando l'avvento di un unionismo operaio interessato ad una maggiore produzione pro capite e allo sviluppo dell'organizzazione scientifica del lavoro. Per Filene gli interessi dei capitalisti e quelli degli operai coincidono perché non si può aumentare il volume della produzione senza l'aumento dei consumi, e quindi non ci può essere benessere degli uni senza quello degli altri.

Infine, intervenne Henri de Man sostenendo che l'applicazione della scienza ai processi produttivi entra in conflitto con il principio della produzione in vista del profitto. La razionalizzazione dei processi produttivi porterà alla sostituzione dei capitalisti con gli ingegneri poiché al movente del profitto si contrappone sempre più quello dell'efficiency (la ricerca del minimo sforzo per il massimo rendimento) . Per De Man, che intende superare il marxismo a favore di un'economia statale pianificata, non è con la rivoluzione che si arriva al potere, ma è attraverso il potere che si arriva alla rivoluzione.

Quest'ultima idea, che rovescia lo schema marxista, e ricorda il gradualismo riformista della Seconda Internazionale, presuppone il passaggio da una società dominata dal profitto a una società dominata dalla razionalità tecnica, passaggio che avverrebbe progressivamente, per via parlamentare e con il consenso della maggioranza della popolazione, senza strappi rivoluzionari.

Il taylorismo e i compiti immediati del potere sovietico

Come abbiamo detto, il Congresso di Amsterdam del 1931 aveva visto la partecipazione di sindacalisti europei, tayloristi americani e membri del Gosplan sovietico, tanto che Henri De Man definì i convenuti alla riunione olandese come i discepoli riconciliati di Taylor e di Lenin. Tesi superficiale più che errata: Taylor era un ingegnere e un imprenditore che voleva migliorare i metodi produttivi, Lenin era un militante della rivoluzione internazionale. Due piani diversi, che si possono incontrare ma non certo confondere. Detto questo, "sintomatici consensi" (nell'applicazione delle moderne tecniche produttive) tra Occidente e Oriente si erano stabiliti almeno dal 1918, quando Lenin scrisse l'articolo "I compiti immediati del potere sovietico" (Pravda del 28 aprile 1918), nel quale esortava la classe operaia russa ad accettare e assimilare le conquiste del sistema tayloristico:

"Lo Stato socialista può sorgere soltanto come una rete di comuni di produzione e di consumo, che calcolano coscienziosamente la loro produzione e i loro consumi, economizzano il lavoro, ne elevano costantemente la produttività, riuscendo così a ridurre la giornata lavorativa a sette, a sei ore e anche a meno."

Qui Lenin è perfettamente in linea con il marxismo: egli voleva razionalizzare al massimo la produzione industriale in modo da rendere possibile una drastica riduzione della giornata lavorativa. La difficoltà maggiore riscontrata per raggiungere questo obiettivo era la mancanza di disciplina del lavoro in Russia, e infatti nell'articolo ricorrono spesso le parole "disciplina", "costrizione" ed "emulazione". Per Lenin è fondamentale

"mettere all'ordine del giorno, applicare praticamente e sperimentare il lavoro a cottimo. Bisogna applicare quel tanto che vi è di scientifico e di progressivo nel sistema Taylor, rendere il salario proporzionale ai risultati."

E siccome sotto il regime zarista non si erano sviluppate le moderne metodologie di lavoro industriale ampiamente adottate in Occidente, bisognava "imparare a lavorare", eliminando i "movimenti superflui e maldestri", elaborando "dei metodi di lavoro più razionali", introducendo "dei migliori sistemi di inventario e di controllo, ecc."

La repubblica sovietica doveva combinare il potere socialista con i più avanzati progressi tecnici del capitalismo, introducendo nel paese lo studio e l'applicazione del sistema Taylor, gettando "le basi dell'organizzazione socialista dell'emulazione" che "richiedono l'uso della costrizione."

Nel caso della Russia si tratta di emulare i paesi capitalistici per arrivare al loro stesso livello produttivo e anzi, possibilmente, superarlo. Quindi, per introdurre il taylorismo in Russia, dice Lenin, non bisogna aver delle remore a pagare tecnici ed ingegneri occidentali che vengano ad insegnare queste nuove metodologie di lavoro.

Per lo studio dell'organizzazione scientifica del lavoro, venne fondato a Mosca nel 1920 l'Istituto Centrale del Lavoro, finanziato dal governo sovietico e appoggiato da Lenin, di cui diventerà direttore Alexey Gastev. Gastev, ex sindacalista, bolscevico, svolse un ruolo importante nel convincere i sindacati russi ad accettare il cottimo progressivo. Le sue teorie, basate sul principio dello scientific management, che promosse entusiasticamente e che gli valsero l'appellativo di Taylor sovietico, saranno però contestate all'interno del partito bolscevico, in quanto egli venne accusato di voler addestrare i lavoratori in modo da "trasformarli" in macchine, in un progetto di "ingegneria sociale" basato sullo studio fisiologico e psicologico degli operai nel processo lavorativo.

Gastev fu anche un poeta e i suoi versi esaltavano i progressi dell'industria, o meglio, l'unione tra uomo e macchina dato che i macchinari industriali erano visti come un'estensione del corpo umano.

Dopo lo scoppio della rivoluzione del 17', alla domanda del perché non avesse più scritto poesie, rispose che la rivoluzione gli aveva dato la possibilità di lavorare direttamente come organizzatore e creatore di qualcosa di nuovo. Sarebbe stata l'organizzazione scientifica del lavoro a dare l'opportunità di forgiare un uomo nuovo e di realizzare una società del lavoro. Anche certo costruttivismo esaltava l'industria moderna, e nello sviluppo del lavoro di massa vedeva l'inizio di una nuova civiltà basata su ideali socialisti.

Gastev sosteneva che proprio lo sviluppo della metallurgia fosse l'aspetto caratteristico della rivoluzione di Ottobre, e metteva in relazione (nell'articolo "O tendentsiyakh proletarskoi kul'tury", in Proletarskaya kul'tura, 1919) quanto si stava costruendo in Russia con

"le fabbriche di automobili e aeroplani dell'America e infine l'industria delle armi di tutto il mondo. [Sono questi] i nuovi, giganteschi laboratori in cui viene creata la psicologia del proletariato, dove la cultura del proletariato è in fase di formazione. E se viviamo nell'era del superimperialismo o del socialismo mondiale, la struttura della nuova industria sarà, in sostanza, una sola e identica cosa".

Il taylorismo era dunque un fenomeno mondiale e Gastev nei suoi studi individuava cinque tipologie di lavoratori in base al diverso grado di abilità e creatività richiesto dal lavoro di fabbrica: i macchinisti, gli operai specializzati, gli addetti a compiti standardizzati, gli apprendisti e infine i lavoratori di fatica. La tipologia di operai che rappresenta il futuro sarebbe la terza tipologia, gli operai deprofessionalizzati, l'elemento medio su cui tutti gli altri confluiranno. La omogeneità di funzioni determinata dalla grande industria,

"impartirà alla psicologia proletaria un notevole anonimato, permettendo la classificazione di una singola unità proletaria come A, B, C."

La fabbrica taylorista non richiede dunque creatività individuali e porterà all'anonimato tra gli operai. Le parole e le idee risponderanno a significati tecnici, privi di sfumature o soggettivismi, il sistema meccanizzato del lavoro gestirà le persone come fossero cose, e in futuro le macchine dirigeranno esse stesse la produzione. A questo punto, l'integrazione tra uomo e macchina diventerà realtà. Sviluppandosi l'industria taylorista, secondo Gastev, tutto il mondo si sincronizzerà, e ogni aspetto dell'esistenza del lavoratore, "anche la sua vita intima, compresi i suoi valori estetici, intellettuali e sessuali", si uniformerà alla razionalità tecnico-scientifica. Questo insieme di cambiamenti porterà alla formazione di un "collettivismo meccanizzato", in cui non esisterà più un volto individuale ma solo prassi uniformi scandite dal ritmo della produzione industriale.

Viene in mente il romanzo distopico My ("Noi") del russo Evgenij Ivanovič Zamjatin, che molto probabilmente si è ispirato proprio alle teorie di Gastev. Nel libro si descrive una società tayloristica in cui gli uomini sono identificati da numeri e lettere e dove ogni aspetto della vita è scandito dallo Stato Unico: i palazzi sono di vetro e la privacy è ridotta al minimo. Zamjatin sarà costretto ad andare in esilio a Parigi per aver pubblicato questo romanzo. Ma non fu l'unico a trattare temi del genere, pensiamo a Il mondo nuovo di Aldous Huxley e a 1984 di George Orwell.

Nel 1918 il governo sovietico trasmetteva al governo americano una serie di inviti alla cooperazione economica dettati dall'urgenza della situazione russa: erano necessarie tecnologie e personale tecnico per costruire nuove fabbriche e far partire la produzione industriale.

La questione dell'"americanismo" continuò a essere dibattuta in Russia per alcuni anni e venne affrontata da Stalin nei Principi del leninismo, ricavati da un discorso tenuto all'università Sverdlov nell'aprile 1924. Per Stalin lo spirito rivoluzionario russo doveva fondersi con quello pratico americano, che

"è una forza indomabile, che non sa e non riconosce nessuna barriera, che rimuove con la sua tenacia ogni sorta di ostacoli, che, una volta incominciato un lavoro, anche piccolo, non può non portarlo a termine, una forza senza la quale è inconcepibile un serio lavoro costruttivo."

A conferma dei collegamenti che si erano stabiliti tra Russia e America è da citare la rivista "Amerikanskaja Technika", pubblicata in russo a New York nel 1924, nata su iniziativa dell'associazione degli ingegneri russi negli Usa, in cui era molto attivo Walter Polakov, ingegnere russo esule dal 1905 e importante esponente della Taylor Society negli anni Venti e Trenta. Egli fu dal 1924 corrispondente dell'Istituto centrale del lavoro di Gastev e consulente industriale in Urss tra il 1929 e il 1931.

L'importanza che stavano assumendo, in Russia e altrove, nuove figure operanti in ambito produttivo e amministrativo come quelle dei tecnici, dei manager e dei burocrati di stato, apre un ampio filone d'indagine, quello sulla burocratizzazione del mondo e la rivoluzione manageriale, che ci rimanda agli scritti di Bruno Rizzi e di James Burnham, entrambi influenzati dal pensiero di Trotsky.

La burocratizzazione del mondo

Oltre alle analisi della Sinistra Comunista "italiana" sul fenomeno rivoluzione/controrivoluzione in Russia, che nel dopoguerra vengono riordinate dalla nostra corrente nei testi Russia e rivoluzione nella teoria marxista (1954) e Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (1955), vi sono vari studi storici ed economici che cercano di dare una spiegazione di quel che successe a cavallo tra le due guerre mondiali, come La burocratizzazione del mondo di Bruno Rizzi (1939) e La rivoluzione manageriale di James Burnham (1941), entrambi "debitori" degli studi di Adolf Berle e Gardiner Means (Società per azioni e proprietà privata, 1932), i quali analizzarono l'evoluzione del concetto di proprietà alla luce del socializzarsi della produzione e della struttura delle società per azioni.

Bruno Rizzi è presente al Congresso di Livorno nel 1921 quando viene fondato il PCd'I, al quale aderisce e dal quale viene espulso nel 1928 perché non in linea con la direzione bolscevizzata. Viaggiando per l'Europa entra in contatto con ambienti trotskisti. Nel 1937 scrive il saggio Dove va l'URSS?, nel quale riprende le tesi sostenute da Trotsky, lo stesso anno, ne La rivoluzione tradita, dove si afferma che quello russo è un regime "transitorio tra il capitalismo e il socialismo o preparatorio al socialismo".

Trotsky aveva avuto una lunga corrispondenza con Rizzi, e nei giornali di area trotskista americani si era sviluppato un ampio dibattito sul tema della burocratizzazione. Negli anni Trenta la questione della degenerazione del potere sovietico era centrale per chi si definiva comunista e si poneva in opposizione ai partiti stalinisti. Il testo di Rizzi sulla burocratizzazione del mondo voleva essere un contributo per fare chiarezza sulla mutata struttura economica mondiale. Come Trotsky, egli sosteneva che in Russia non c'era capitalismo ma non c'era nemmeno socialismo, si era imposta una forma intermedia di tipo burocratico e una nuova classe aveva preso il potere (una tesi simile la sosterrà nel 1957 anche il "comunista" jugoslavo Milovan Gilas nel libro La nuova classe).

Nel corso della sua ricerca, Rizzi analizza la struttura economico-politica della Russia, della Germania, dell'Italia e degli Stati Uniti e le conclusioni a cui arriva sono le seguenti: la nuova classe al potere in Russia, quella burocratica, è "padrona" di tutta la proprietà statale e la classe operaia è sfruttata peggio che nel capitalismo, dove almeno l'operaio può licenziarsi, cambiare lavoro e decidere di sindacalizzarsi. Il collettivismo burocratico non è un fenomeno esclusivamente russo ma tende a divenire mondiale. In Russia il fenomeno si è realizzato velocemente e di colpo proprio a causa della rottura rivoluzionaria del '17, ma anche nei regimi fascisti e nelle democrazie occidentali il capitalismo sta lasciando via via il posto allo statalismo. Di fronte a questa situazione inedita, non prevista dallo stesso Marx (sic!), i proletari devono fondare il socialismo su nuove basi, democratiche, liberali e autogestionarie.

Per Rizzi, nel collettivismo burocratico non vi è più un'estrazione di plusvalore da parte del singolo capitalistica nei confronti degli operai, ma un'estrazione indiretta di plusvalore da parte dei burocrati (poliziotti, membri del partito, sindacalisti, ecc.) per mezzo del maneggio della macchina statale. Comunque le sue teorizzazioni, che egli definisce un "film di pensiero", non sono qualcosa di definito una volta per tutte, poiché in una lettera scritta a Bordiga nel 1969 egli afferma addirittura che in Russia non esistono più né capitalisti né operai e si sarebbe imposta una sorta di società feudale, basata sul

"monopolio di Stato dei mezzi di produzione e della forza-lavoro, assenza del mercato e sfruttamento che non avviene con l'accaparramento di plusvalore, ma di lavoro gratis trattenuto dallo Stato."

Nel '39 arriva a sostenere che il collettivismo burocratico può ancora svolgere un ruolo progressivo e l'Italia, la Germania e la Russia, che definisce paesi anticapitalisti, dovrebbero unirsi contro le democrazie occidentali. Ma nel giro di pochi mesi cambia posizione: il collettivismo burocratico è un fenomeno regressivo che bisogna combattere.

In una risposta epistolare a Rizzi del luglio del 1956, Bordiga ribadisce che la "fase che si traversa non è di quelle in cui si fanno scoperte, che corrispose al tempo di Marx"; e quindi la teoria della terza forma – anche nella variante della "Managerial Era" – è incompatibile con il marxismo. Quella che stiamo vivendo non è una fase post-capitalistica, ma quella in cui il Capitale, non legato a persone o gruppi umani, sovrasta tutto e tutti.

Nella citata lettera di Rizzi a Bordiga del 1969, il teorico della burocratizzazione si lamenta per i contenuti dell'articolo "Gli scopritori di un 'nuovo capitalismo' ritornano all'economia di mercato" pubblicato sul n. 3 di Programma comunista, sostenendo che essere socialista vuol dire battersi per un sistema economico socialista fondato sul mercato, la democrazia e la libertà. Nell'articolo veniva fatto un parallelo tra il pensiero di Rizzi e quello di Stalin, perché per entrambi il socialismo può andare a braccetto con mercato, aziende e denaro.

In realtà, non è il totalitarismo, tanto inviso ai Rizzi di turno, a negare l'economia di mercato, visto che i moderni mostri statali sono la massima espressione del mercato e della forma aziendale; come chiarisce Lenin nel saggio L'Imperialismo, fase suprema del capitalismo.

Il fascismo, "rivoluzione mancata"

La rivoluzione manageriale di Burnham è tradotta dall'inglese all'italiano da Camillo Pellizzi. L'opera viene pubblicata nel 1946 dall'editore Mondadori con il titolo La rivoluzione dei tecnici. Tre anni dopo, esce un saggio di Pellizzi con il titolo Una rivoluzione mancata nel quale affronta anche il rapporto tra managerialismo e fascismo. Nel testo analizza dall'interno il fascismo italiano, avendo partecipato a quel movimento in quanto militante, e afferma che esso avrebbe potuto essere rivoluzionario se non si fosse fermato a metà strada, rinunciando cioè a sviluppare gli elementi tecnocratici e manageriali presenti in embrione.

Pellizzi, nato nel 1896, studia a Pisa, diventa interventista, combatte nella Prima guerra mondiale, si laurea in Giurisprudenza e aderisce alla corrente dell'attualismo gentiliano. Le sue ricerche si orientano sulla natura della nazione nell'epoca attuale e sulla selezione della sua classe politica, collegandosi ai lavori di Gaetano Mosca, Robert Michels e di Vilfredo Pareto. Dalla teoria delle élites, da loro elaborata, ricava una critica dell'ordinamento democratico in favore del principio aristocratico, nel senso etimologico del termine: governo dei migliori, dei più competenti.

Dopo la guerra, si trasferisce a Londra per lavorare come lettore all'University College, fonda il Fascio italiano di Londra e mantiene contatti frequenti con la madrepatria: sarà corrispondente dall'Inghilterra delle riviste Il Popolo d'Italia, Gerarchia e Critica Fascista.

Una rivoluzione mancata analizza l'ordinamento corporativo e la relativa dottrina che, secondo l'autore, durante tutto il Ventennio rimase in una fase di sperimentazione embrionale. Per Pellizzi, nel campo dell'elaborazione corporativa il primato spetta a Ugo Spirito ma, aggiunge,

"il fascismo italiano fu anche la manifestazione locale di un fenomeno storico molto più vasto, dotato di caratteri assai precisi, e non abbiamo trovato un'opera che meglio riassumesse e interpretasse tali caratteri, specie nei riguardi della materia da noi trattata, del volume dell'americano James Burnham intitolato La Rivoluzione dei Managers."

Nella sua ricerca, Pellizzi parte dagli albori del fascismo: nel quale non mancherebbero, secondo la sua analisi, suggestioni provenienti dal sindacalismo rivoluzionario e dall'anarchismo; e porta ad esempio l'operato dell'ex anarchico Massimo Rocca (Libero Tancredi, nella pubblicistica libertaria), diventato uno dei dirigenti del PNF.

Nel primo dopoguerra, si fece strada l'idea che il potere dovesse spettare ai "competenti", per dare maggiore energia ed efficienza all'azione di governo, così da poter risolvere la "questione sociale" e portare alla conciliazione degli interessi. Il tema della "competenza" verrà affrontato nell'opuscolo "Programma e Statuti del Partito Nazionale Fascista" edito nel 1922 dal Popolo d'Italia. La nazione, troviamo scritto nell'opuscolo, è sintesi suprema di tutti i valori della stirpe e quindi

"i valori autonomi dell'individuo e quelli comuni a più individui, espressi in persone collettive organizzate (famiglie, comuni, corporazioni, ecc.), vanno promossi, sviluppati e difesi, sempre nell'ambito della nazione a cui sono subordinati".

Il fascismo ammette l'esistenza di organizzazioni collettive e di corporazioni economiche, e dichiara che esse vanno promosse e supportate. Nel Programma del '22 viene detto che lo Stato

"va ridotto alle sue funzioni essenziali di ordine politico e giuridico. Lo Stato deve investire di capacità e di responsabilità le Associazioni conferendo anche alle corporazioni professionali ed economiche diritto di elettorato al corpo dei Consigli Tecnici Nazionali".

Queste righe, secondo Pellizzi, dimostrerebbero che il fascismo ha nel suo DNA una concezione federalista e quasi anarchica dello sviluppo sociale, che ha come punti di forza il decentramento amministrativo per semplificare i servizi e facilitare l'amministrazione della cosa pubblica. Gli strumenti indicati nello Statuto-Programma al fine di realizzare questo obiettivo sono i Gruppi di Competenza (a cui era preposto Massimo Rocca), organismi tecnici di categoria (scuola, poste, trasporti, ecc.) che, se in una fase di guerra civile avrebbero dovuto coadiuvare gli organismi paramilitari del partito, in una fase di consolidamento del regime, avrebbero formulato programmi per l'azione di governo e lo studio dei problemi economico-sociali di interesse della Nazione, della Regione, della Provincia o del Comune, promuovendo la formazione di Consigli Tecnici ad ogni livello. Se la storia fosse andata in questa direzione, afferma Pellizzi,

"si sarebbe attuata quella 'rivoluzione dei tecnici' che era nei postulati del Movimento 'tecnocratico' americano prima dell'ultima guerra, e che in parte, ma in senso alquanto diverso, è illustrata dal Burnham nella sua analisi delle rivoluzioni bolscevica e nazista e dei moderni orientamenti della società americana."

Invece, dopo la Marcia su Roma furono gli organizzatori politici, i politicanti, a detenere saldamente il potere e l'idea tecnocratica di demandare ai Gruppi di Competenza la formulazione di proposte e, in prospettiva, il governo del paese, rimase sulla carta. Questi organismi potevano rappresentare, nell'interpretazione idealistica di Pellizzi, un collegamento tra la base e il vertice per dare a tutti, secondo la rispettiva collocazione gerarchica, la possibilità di contribuire alla formazione delle decisioni, arrivando così alla concordia dei mezzi e dei fini. Fu la mancata volontà, o incapacità, di realizzare questi obiettivi, che, sempre secondo Pellizzi, portò al fallimento della "rivoluzione"; anche perché il regime non riuscì a risolvere un'altra grossa questione, quella del superamento del dualismo tra dirigenti ed esecutori, e tra capitale e lavoro.

Il fascismo non raggiunse mai la "concordia", ovvero il superamento degli antagonismi, dato che per farlo avrebbe dovuto intendere il lavoro come tecnica e la tecnica come il centro della vita organica della società. A parte "qualche isolato ministro (come il Bottai)", dice Pellizzi, questa visione

"non arriverà mai a radicarsi negli istituti e, soprattutto, nella volontà dell'uomo che aveva assunto nelle sue mani la suprema direzione del regime."

Si fosse presa un'altra strada – coerente con il programma del '22 – si sarebbe potuto arrivare, alla "corporazione anarchica", risultato logico della "sprivatizzazione dello stato", della "riduzione dello statale al sociale". Anche lo Stato dunque, si sarebbe dovuto superare – e in questo vi era una critica sia allo statalismo di Gentile che a quello di Spirito – in quanto elemento esterno alla società, sostituito da gerarchie spontanee.

Gli attualisti, come abbiamo visto, volevano risolvere il "problema sociale" in chiave monistica, mettendo fine alle antinomie, che rendevano la società disorganica; ma restando sul piano dell'ideologia, non facevano che riproporre i dualismi che volevano superare, rimanendo prigionieri del circolo vizioso che essi stessi alimentavano. Non di rivoluzione mancata si dovrebbe quindi parlare, ma di controrivoluzione che non riuscì (non poteva!) a darsi un programma.

Caduta tendenziale del tasso di fascino capitalistico

Che le società moderne stessero marciando verso un corporativismo di tipo manageriale lo sosteneva anche l'economista austriaco Joseph A. Schumpeter, il quale oltre a ricoprire un incarico ministeriale nella Prima Repubblica austriaca nel 1919 e a far parte della commissione per lo studio delle socializzazioni istituita dalla repubblica di Weimar, insegnò negli Stati Uniti presso l'università di Harvard. In una delle sue opere più note, Capitalismo, socialismo, democrazia (1942), osservò che:

"L'unità industriale gigante perfettamente burocratizzata soppianta non solo l'azienda piccola e media e ne 'espropria' i proprietari, ma soppianta in definitiva l'imprenditore ed espropria anche la borghesia come classe destinata a perdere tanto il suo reddito, quanto (molto più importante) la sua posizione".

Insomma, il capitalismo, rendendo inutili i capitalisti e organizzando razionalmente la produzione industriale, taglia il ramo su cui è seduto. Ed i peggiori nemici dell'attuale modo di produzione non sarebbero tanto gli agitatori comunisti ma gli stessi capitalisti, "i Vanderbilt, i Carnegie e i Rockfeller" che, anche senza esserne coscienti, preparano le basi per l’avvento di una qualche forma di socialismo.

Il successo planetario e totalizzante del capitalismo è, allo stesso tempo, fattore del suo declino. Esso è "distruzione creatrice", dice Schumpeter, poiché nel suo sviluppo, smantellando i vecchi modi di produrre e pensare, ha cancellato i valori conservatori dell'ancien régime, stravolgendo tutto il vivere sociale. Questo processo inarrestabile, che distorce le caratteristiche dell'impresa capitalistica è rilevato da Schumpeter, il quale, dismesso l'abito di economista neutrale, formula un indirizzo politico a suo avviso adeguato alle trasformazioni in corso, facendone l'argomento del discorso pronunciato alla cattolica Associazione degli industriali di Montreal il 19 novembre 1945. Le sue argomentazioni si richiamano alla dottrina sociale della Chiesa con chiaro riferimento all'enciclica Quadragesimo anno di Pio XI, che riprende i contenuti della Rerum Novarum di Leone XIII e in cui si esplicita il principio corporativo cristiano: il quale, secondo Schumpeter,

"organizza ma non irreggimenta. Si oppone a ogni sistema sociale a tendenza centralizzatrice e a ogni irreggimentazione burocratica; in effetti, è il solo modo per rendere impossibile quest'ultima." (L'imprenditore e la storia dell'impresa. Scritti 1927-1949).

Occorre sottolineare che è la Chiesa di Roma a elaborare per prima la moderna dottrina corporativa. È importante, a questo proposito, l'opera del sociologo cattolico Giuseppe Toniolo che, studiando l'economia della Firenze medievale (Dei remoti fattori della potenza economica di Firenze nel Medioevo, 1882) vi scorse un modello di armonia e concordia del tutto riproponibile, per arrivare ad una ricomposizione corporativa della società basata sul bene comune degli associati.

Pur non aderendo a correnti tecnocratiche o tayloristiche, Schumpeter arrivò alla conclusione che le grandi imprese sarebbero passate necessariamente sotto il controllo dei tecnici: se impadronirsi dell'invenzione tecnica era uno delle funzioni principali dell'imprenditore, ora l'innovazione tecnica, calcolata fino al dettaglio, gli viene imposta dai suoi ingegneri, ed egli diventa un mero esecutore di scelte prese da altri. L'affermarsi della scienza nell'organizzazione del lavoro, porta Schumpeter ad affermare che il processo capitalistico tende alla eliminazione delle piccole e medie aziende, in un processo che progressivamente e del tutto gradualmente condurrà il capitalismo a trasformarsi nel suo contrario, il socialismo:

"Il processo capitalistico, sostituendo i pacchetti di azioni ai muri e alle macchine dello stabilimento, svuota il concetto di proprietà, ne indebolisce la presa un tempo così forte […] L'evaporazione di quella che possiamo chiamare la sostanza materiale della proprietà – e la sua realtà visibile e tangibile – incide non solo sull'atteggiamento degli azionisti, ma anche su quello degli operai e del pubblico in genere. La proprietà smaterializzata, sfunzionalizzata e assenteista non esercita più il fascino tipico della forma ancora vitale della proprietà. Un giorno non ci sarà più nessuno al quale veramente prema di difenderla – nessuno all'interno, e nessuno all'esterno dei confini dell'azienda-gigante." (Capitalismo, socialismo, democrazia)

Per Schumpeter dunque, l'ostilità verso il capitalismo aumenta costantemente, e così la fortezza borghese risulta politicamente disarmata costringendo un giorno imprenditori e capitalisti a cessare di operare cedendo il potere ad altre forze. Più che per ragioni economiche il capitalismo collasserà – egli sostiene – per ragioni extra-economiche, per la mancanza di finalità dovuta al predominio della filosofia utilitaria, per una caduta tendenziale del tasso di fascino. In questo divenire anticapitalistico della società, gioca un peso specifico la disintegrazione della famiglia borghese, sostituta da rapporti di tipo utilitaristico e funzionale, che dissolvono lo stato di cose presente. Le classi dominanti sono destinate ad essere espropriate e dalla loro decomposizione nascerà un corporativismo associativo basato sulla responsabilità e la cooperazione orizzontale degli individui e dei gruppi, come anticipato nell'enciclica Quadragesimo anno.

Capitalismo che nega sé stesso

Burnham e Rizzi hanno la pretesa di scoprire chissà quali novità partendo dal fatto che i manager e i burocrati hanno sostituito i capitalisti in molte delle loro funzioni. Evidentemente, si sono dimenticati o ignoravano quanto scritto molti anni prima da Engels e Marx sulla progressiva inutilità dei capitalisti sostituiti un po' ovunque da funzionari stipendiati.

Nell'Antidühring, Engels nota che

"anche i capitalisti sono costretti a riconoscere in parte il carattere sociale delle forze produttive. Essi si affaccendano ad impossessarsi dei grandi organismi di produzione e di scambio, dapprima per mezzo di società per azioni, indi per trusts, ed infine per il tramite indiretto dello Stato. Ma la borghesia si rivela con ciò una classe superflua, destituita di qualunque funzione utile da compiere, ed invero tutte le sue funzioni sociali sono oramai disimpegnate da impiegati mantenuti all'uopo".

Se si vuole approfondire l'argomento della inutilità della classe borghese in ambito produttivo, è fondamentale la lettura del cap. XXVII del III Libro de Il Capitale, "Il ruolo del credito nella produzione capitalistica", e lo studio Proprietà e Capitale della nostra corrente, un lavoro del Secondo dopoguerra che analizza lo sviluppo di attività sociali senza conto economico all'interno del modo di produzione capitalistico. Nel suddetto capitolo de Il Capitale, si analizza la separazione tra proprietà e gestione dell'azienda con la costituzione di società per azioni e la vasta espansione del sistema del credito, che porta alla formazione del capitalismo finanziario, basato sui grandi investimenti ma, soprattutto, sulla grande speculazione.

Marx nota che il credito è un fattore di livellamento dei saggi di profitto: se una branca della produzione produce un'esuberanza di capitali, questi tendono a muoversi verso le branche non ancora sviluppate. Questo fenomeno vale per il mercato nazionale come per quello mondiale portando alla realizzazione di un prezzo di produzione medio generale.

Un altro aspetto del moderno sistema del credito è la diminuzione dei costi di circolazione: le transazioni in oro spariscono sostituite da quelle in carta moneta. Oggi, a loro volta, i pezzi di carta sono quasi del tutto sostituiti da bit senza peso e i costi di circolazione si riducono al minimo. La progressiva smaterializzazione del denaro velocizza le singole fasi della circolazione accelerando la metamorfosi delle merci in capitale.

Sul mercato mondiale, per competere, le aziende devono prima concentrarsi e poi centralizzarsi: il capitale, che in sé poggia su un modo di produzione sociale e presuppone una concentrazione sociale dei mezzi di produzione e della forza lavoro, prende così la forma di capitale sociale, un capitale composto di individui direttamente associati che si contrappone a quello privato.

Siamo alla soppressione del capitale privato entro i confini del sistema di produzione capitalistico.

Con lo sviluppo delle moderne società per azioni, impossibile senza lo sviluppo del sistema del credito, la figura del capitalista si sdoppia: quello effettivamente operante si trasforma in puro e semplice dirigente (manager), amministratore di capitale altrui; e il proprietario di capitale in puro e semplice capitalista monetario (rentier). I capitalisti monetari ricevono un profitto sotto forma di interesse, mentre quelli che controllano il movimento del capitale, e che lo fanno fruttare, sono manager retribuiti come qualsiasi altro dipendente, dato che il costo del loro lavoro è regolato dai prezzi di mercato. Il profitto si presenta come mera appropriazione di lavoro altrui e la classe che si accaparra il plusvalore sempre più si dimostra superflua:

"Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un punto di passaggio necessario per la riconversione del capitale in proprietà dei produttori, ma non più come proprietà privata di produttori isolati, bensì come loro proprietà in quanto produttori associati, come proprietà sociale immediata." (Il Capitale, cap. XXVII del III Libro)

Il III Libro è curato da Engels (Marx muore prima di averlo completato), il quale in alcune note osserva che da quando Marx ha scritto queste pagine il capitalismo non ha fatto che esacerbare le proprie contraddizioni:

"Alla rapidità di giorno in giorno crescente con cui, in tutti i settori della grande industria, si può incrementare la produzione, fa riscontro la lentezza sempre crescente con cui si allarga il mercato di questi prodotti aumentati." (Il Capitale, cap. XXVII del III Libro)

Il mercato mondiale non riesce a tenere il passo a questa aumentata produzione, non si sviluppa allo stesso ritmo del "vulcano della produzione", e perciò si verificano crisi di sovrapproduzione sempre più gravi, con prezzi ribassati, profitti calanti o inesistenti; e in breve tempo la tanto celebrata libertà di concorrenza tira gli ultimi respiri.

Il singolo capitalista si identifica con il suo capitale e questo ne limita l'impiego razionale; mentre il manager ragiona in termini differenti perché il capitale che movimenta non è di sua proprietà, gli è alieno. Il sistema manageriale rende possibile la concentrazione del capitale e l'accumulazione su vasta scala, eliminando via via le vecchie forme di proprietà, il piccolo commercio, l'artigianato, ecc. Tale movimento, l'autonomizzazione del Capitale, porta ad una espropriazione sempre più vasta dell'umanità dai propri mezzi di produzione: l'attuale modo di produzione nasce con una prima espropriazione (l'accumulazione originaria) e si conclude simmetricamente con un'altra, di portata più vasta, quella del "99%".

Il capitalismo è approdato a un grado di sviluppo in cui ha esaurito tutti gli elementi che rendevano possibile la sua sopravvivenza (sistema del credito, capitale azionario, impersonalità del capitale, eliminazione della funzione del capitalista come persona), e così ha raggiunto la propria non-esistenza potenziale. A questo proposito, la nostra corrente è arrivata del tutto coerentemente ad affermare che il capitalismo è già morto ("Questioni di economia marxista", 1959-1964).

Un nuovo paradigma, la Olivetti

Il giovane Adriano Olivetti, interessato alle conquiste tecniche raggiunte dall'industria americana, negli anni Venti visitò gli Stati Uniti, come d'altronde aveva fatto il padre Camillo anni prima. In una riflessione del 1949, l'industriale di Ivrea scrive:

"quando partii per l'America nel 1925 mi proposi di studiare il segreto dell'organizzazione per poi vederne i riflessi nel campo amministrativo e politico. Imparai la tecnica dell'organizzazione industriale, seppi capire che per trasferirla nel mio paese doveva essere adattata e trasformata". (A. Olivetti, "Appunti per la storia di una fabbrica", Il Ponte, 1949)

Camillo Olivetti, socialista riformista, era stato un grande ammiratore di Walter Rathenau, ministro degli esteri della Repubblica di Weimar, il quale proponeva una razionalizzazione dell'economia che facesse uscire il paese dal caos in cui era sprofondato (programma che dopo la morte del ministro sarà fatto proprio dalla SPD). Il figlio riprese questi studi, lesse Taylor e iniziò ad ammodernare la struttura organizzativa dell'azienda di famiglia: in luogo della vecchia organizzazione gerarchica egli volle introdurne una di tipo funzionale, passando dalla tradizione all'empirismo accompagnato dalla razionalizzazione, introducendo nel processo produttivo figure professionali nuove quali manager meritocratici, sociologi, psicologi, ecc., in un sistema basato sulla capacità e sulla mobilità aziendale, che avrebbe permesso di fare carriera partendo dagli ultimi scalini della scala gerarchica per arrivare a posti di grande responsabilità. Questa ibridazione fra il livello tecnico scientifico e la capacità empirica tratta dall'esperienza consentì di abbassare drasticamente il tempo di produzione delle macchine per ufficio.

Questo era il segreto autentico del singolare modello olivettiano: la ricerca scientifica del massimo sfruttamento senza che l'operaio dovesse lamentarsene. Uno scopo del genere non poteva essere perseguito con mezzi tradizionali, nemmeno se la tradizione era quella taylorista. Che la Olivetti fosse una fabbrica post-fordista è una leggenda: a Ivrea si lavorava con il criterio taylorista, e quindi fordista, dell'organizzazione scientifica del lavoro. La differenza rispetto ad altre esperienze era una spinta teoretica sul piano della socializzazione, e questa era un prodotto da attribuire non a Olivetti ma a Mussolini. Anzi, come abbiamo visto, nemmeno quest'ultimo può essere considerato padre del filone storico che stiamo esplorando: il capo del fascismo italiano arrivò a una concezione piena della socializzazione solo durante la Repubblica Sociale.

Per Adriano Olivetti ogni problema legato all'industria nel suo complesso, alla testa della quale dovevano collocarsi le aziende più grandi, moderne e influenti, non riguardava la singola unità industriale, ma un sistema in cui le fabbriche davano vita a un meccanismo sociale. Tale sistema avrebbe coinvolto l'assetto politico della nazione, la quale non doveva più affidare le proprie sorti a politici di professione con i loro partiti ma a ingegneri manager. Olivetti, industriale atipico, non proponeva soltanto unità produttive con le case operaie, gli asili, le biblioteche, ecc., realizzazioni abbastanza comuni nella storia del paternalismo industriale, ma un cambiamento di paradigma, come lascia intendere un suo opuscolo intitolato Democrazia senza partiti.

In questa ottica va letta la sua collaborazione con la rivista L'Organizzazione scientifica del lavoro, organo dell'Ente Nazionale Italiano per l'Organizzazione Scientifica (ENIOS). Fondato nel 1926 dalla Confederazione Fascista dell'industria, l'ente aveva come fine l'introduzione in Italia dei metodi tayloristi, l'unificazione e la standardizzazione dei processi industriali con l'obiettivo di aumentare la produttività del lavoro, controllare il rendimento umano nelle varie fasi di lavorazione, fare in modo che i produttori collaborassero per aumentare il benessere nazionale.

Nel settembre del 1927, si tenne a Roma, promosso dall'ENIOS, il III Congresso Internazionale di Organizzazione Scientifica, a cui parteciparono centinaia di tecnici provenienti da diversi paesi. La Taylor Society (la società americana finalizzata alla promozione dello scientific management) propose durante questo incontro di stilare una bibliografia dei testi che trattavano il tema del taylorismo, e inviò dagli Stati Uniti all'ENIOS 660 volumi.

Nel 1937 Olivetti fondò una propria rivista, Tecnica ed Organizzazione. Uomini, macchine, metodi nella costruzione corporativa. Della rivista verranno pubblicate due serie: la prima dal 1937 al 1944, la seconda dal 1950 al 1958. L'ultima serie, pur trattando di questioni concernenti l'industria, allarga l'orizzonte a problemi che riguardano lo studio e l'organizzazione del lavoro umano, introducendo i lettori a discipline quali la psicologia e la psicotecnica.

Il sottotitolo della rivista, con riferimento al corporativismo, è spiegato dall'interesse del direttore per l'economia programmatica e le teorie organiciste (Gentile, Spirito, Bottai, Sturzo, Toniolo, Giordani, Fanfani), ma anche da un interesse schiettamente materiale: la Olivetti infatti si avvalse dei prestiti dell'Istituto Mobiliare Italiano (IMI), fondato da Mussolini nel 1931, che nel 1939 raggiunsero quasi un terzo del capitale sociale dell'azienda di Ivrea.

La rivista, abbiamo visto, si occupava dello studio delle macchine, delle tecniche e delle novità riguardanti l'industria (amministrazione, contabilità, ecc.), ma affrontava anche temi quali la sociologia e l'urbanismo. Su quest'ultimo punto, soprattutto, Adriano Olivetti cercò una convergenza con il regime. Egli aveva ideato un audace Piano Regolatore per Ivrea e la Val d'Aosta, che traeva ispirazione dal progetto della Tennessee Valley Authority promosso da Roosevelt negli Usa. Il Piano fu presentato a Mussolini che, in un incontro con Olivetti, manifestò il proprio apprezzamento.

Nella presentazione di "Studi e proposte preliminari per il piano regolatore della Valle d'Aosta" (1943), troviamo scritto quanto segue:

"Nessuna grande industria può fare a meno di piani per il suo ulteriore sviluppo [...] Questo metodo ha da essere progressivamente ripreso quale strumento in una nuova politica sociale. La trasformazione dei nostri metodi di vita è intimamente legata all'iniziarsi, allo svilupparsi, al perfezionarsi di una siffatta tecnica perché ormai il disordine della nostra struttura industriale, economica, urbanistica incomincia ad essere troppo palese e, a causa di esso, l'armonizzazione, un tempo automatica, fra la vita individuale e la vita collettiva non esiste più. Questa trasformazione sarà realizzata unicamente dalla comprensione che la nuova civiltà darà ai problemi dell'architettura la quale ponendosi al servizio sociale diventerà la base di ogni rinnovamento."

Molti si sono dedicati alla ricerca delle radici profonde che non potevano mancare in un programma politico che in Olivetti era così precisamente delineato. Si sono citati Fourier, Owen, Montessori, Proudhon, Blavatski, Steiner, Mumford, Bottai, Mounier, Spirito, Freud, ma è più probabile che tutti, dagli utopisti ai progettisti, dai sociologi agli psicanalisti, fossero presenti in una visione sincretica che ha potuto esprimersi soltanto in minima parte.

L'intento di Olivetti fu quello di estendere il razionalismo dall'industria a tutto il territorio (avrebbe voluto inserire il suo piano per la Valle d'Aosta nel più vasto piano economico nazionale), e coordinò a questo scopo un gruppo di giovani progettisti affidandosi allo studio milanese BBPR, dalle iniziali dei nomi degli architetti: Gian Luigi Banfi, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers. Chiamò anche gli architetti Figini e Pollini, rappresentanti di punta del razionalismo italiano ed europeo, a collaborare al progetto. Il delegato italiano, l'architetto Piero Bottoni, avrebbe presentato il Piano regolatore della Valle d'Aosta al V Congresso internazionale di architettura moderna a Parigi nel 1937.

Il Piano, scrive Emilio Renzi nel saggio Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, era basato su di

"una notevole mole di ricognizioni sul terreno, raccolte di dati e di studi preliminari […] Il terreno è vasto e ha caratteristiche che la disciplina urbanistica non era solita trattare: l'alta montagna e i fondovalle, le impervie coltivazioni in quota e la compresenza nelle zone collinari di agricoltura spezzettata, industrie moderne e in via di modernizzazione, attività tradizionali […] Il dibattito critico intorno al Piano cade nel periodo in cui le accese discussioni fra le diverse e opposte correnti culturali in seno al Sindacato architetti fascisti e gli organi di stampa del regime tra - semplificando - razionalisti che nel fascismo vedono la modernizzazione e tradizionalisti della monumentalità classicistica, registrano la vittoria di questi contro quelli."

Il progetto resterà sulla carta, non se ne farà niente, ma è ancora studiato con interesse da urbanisti e architetti. Per capire l'idea di pianificazione integrata propria di Olivetti è forse il caso di riprendere un articolo degli anni Trenta, in cui sostiene che

"il campo di attività di un ente per la organizzazione scientifica del lavoro è presso che illimitato perché può considerarsi a rigore un problema di organizzazione qualsiasi problema tecnico-scientifico: dal funzionamento interno di una piccola officina alla tecnica dell'organizzazione di un'intera economia programmatica." ("Razionalizzazione e corporazioni", in Quadrante, 1935)

Olivetti mirava non solo a formare personale tecnico di alto livello per la direzione aziendale (su Tecnica ed Organizzazione scrivono molti ingegneri), ma a formare degli uomini preparati a svolgere compiti direttivi in seno alla propria comunità, quindi all'esterno della fabbrica. Nacque di qui la necessità di stilare L'ordine politico delle Comunità (1945) , un programma politico che avrebbe rappresentato una "terza via" tra liberalismo e socialismo statale. Nella nuova società comunitaria, è scritto, la forma partito sarà superata:

"la politica avrà un fine quando sarà annullata la distanza tra i mezzi e i fini, quando cioè la struttura dello Stato e della società giungeranno ad un'integrazione, a un equilibrio per cui sarà la società e non i partiti a creare lo Stato."

Le nuove comunità umane che dovranno sorgere tenderanno a superare il dualismo città/campagna, assolvendo sia a compiti di natura sociale che economica: saranno le cellule base del nuovo stato federale. Le comunità industriali rispecchieranno le maggiori unità economiche del paese, e quindi si avranno una Comunità Fiat a Mirafiori, una Comunità Ansaldo a Cornigliano e così via. Le imprese private saranno trasformate in Industrie sociali autonome e in Associazioni agricole autonome.

Nel 1955 nacque alla Olivetti, da una costola della UIL, il sindacato filo-aziendale Comunità di Fabbrica, che sarà anche il titolo di un periodico, in seguito rinominato Autonomia Aziendale. Alla Olivetti, il Consiglio di Gestione (organo che ha la funzione di rendere i lavoratori "coscientemente partecipi all'indirizzo generale dell'azienda") durerà, a differenza di quelli delle altre aziende, come Fiat e Lancia, fino ai primi anni Settanta e avrà tra i suoi compiti, attraverso il coinvolgimento corporativo dei lavoratori nella vita aziendale, la gestione dei servizi sociali aziendali.

Temi quali l'autonomia delle comunità sono ribaditi anche nel già citato Democrazia senza partiti (1949). Nel breve saggio si spiega che il centro dell'umanità futura sarà la fabbrica, serbatoio del sapere sociale che dovrà essere riverberato su tutto il territorio spezzando così la persistente dicotomia fra città e campagna, industria e agricoltura. Questo processo non fu semplicemente pensato, ma progettato e realizzato, anche se in minima parte, attraverso un organismo apposito (I-Rur). Nell' Ordine politico delle Comunità, lo stesso concetto venne schematizzato attraverso un elenco di punti programmatici che il Movimento Comunità aspirava a realizzare:

a) una simbiosi tra economia agricola ed economia industriale;

b) nelle zone agricole, un processo graduale di organizzazione di vita moderna a contatto con la natura;

c) la trasformazione delle grandi città alveolari in organismi urbani in cui la natura riprenda il suo grande posto e l'uomo abbia fuori del lavoro e nel lavoro il sentimento di una vita più armonica e più completa;

d) l'estensione ai villaggi isolati delle provvidenze igieniche, culturali e ricreative, privilegio dei centri più importanti, e loro generale perfezionamento.

Si trattò di un comunitarismo industriale in salsa proudhoniana, e la nostra corrente ha avuto modo di criticarlo duramente nell'articolo "La 'pochade' comunitaria" (1958), in cui è scritto che il tentativo olivettiano di superare il dualismo

"tra città e campagna (facciamo grazia di quella anche più truffaldina tra il Sud e il Nord) si basa sugli indirizzi opposti a quelli della rivoluzione marxista, e non dovrebbe ingannare per un istante […] Ha inoltre, quella formula truffata, una base aziendale, perché tutto sta nell'aprire al centro della 'vallata' una galera per salariati, o fabbrica."

Non ci sono dubbi che nella Olivetti una massa di operai supersfruttati (è utile, a tal proposito, leggere Memoriale di Paolo Volponi) manteneva uno stuolo di parassiti che disquisivano di sociologia, urbanistica e architettura; ma, allo stesso tempo, siamo di fronte a una spinta materiale potente, che obbliga anche i capitalisti ad agire in critica al capitale. Quello di Olivetti fu un tentativo prettamente capitalistico di integrazione fra territorio e fabbrica, ma sorretto da un programma di portata universale, ben diverso da esperienze utilitaristiche locali come il Nuovo quartiere operaio di Schio, il villaggio Leumann a Collegno o il villaggio operaio a Crespi d'Adda.

Anche il superamento della dicotomia capitale/lavoro è stato preso in considerazione da Adriano Olivetti nella Città dell'uomo (scritto poco prima di morire e destinato a divenire una sorta di testamento politico), in cui propone come superamento positivo di questa antitesi l'istituto della Fondazione proprietaria. Parole che potrebbero benissimo essere state scritte da Ugo Spirito:

"A questo scopo noi pensiamo che la proprietà e il controllo della azienda debbano essere affidati a una compartecipazione organica di tutte le forze vive della Comunità, rappresentative di enti territoriali, sindacali e culturali."

Quando si parla dello strano caso Olivetti c'è il rischio, da una parte di farne l'apologia, come fa Luciano Gallino nel saggio L'impresa responsabile, dall'altra di buttare via il bambino (Marx: saggi di contenuti comunistici nella società così com'è) con l'acqua sporca (forma aziendale), di non scorgere cioè gli elementi di futuro in essa presenti. Tra l'altro la Olivetti ha una storia incredibile di realizzazioni tecniche d'avanguardia, fenomeno impossibile in mancanza di una tensione "creativa" verso il futuro. Ricordiamo che da questa industria uscì il primo supercomputer a transistor, il primo studio per la realizzazione di microcircuiti, il primo computer programmabile da scrivania considerato l'antenato del personal computer.

Per Olivetti, tutti i membri della Comunità devono dare il loro contributo alla produzione sociale visto che vita, lavoro, produzione e riproduzione non sono momenti separati, fanno parte di uno stesso insieme. La mistificazione, come al solito, sta nel far credere che una forma organica di questo tipo sia realizzabile gradualmente all'interno del capitalismo, senza cioè negare categorie come denaro, salario, mercato, ecc. Insomma, la Olivetti era sia una post-industria dedita al supersfruttamento, sia una comunità di fabbrica. Era un risultato del modo di produzione capitalistico giunto al suo limite. Il capitale finanziario, cioè da investimento, che avrebbe dovuto salvarla dal tracollo finì invece per ucciderla nel più classico dei modi: negando investimenti.

Rivista n. 47