Numero 106, 8 marzo 2007
Implosione sociale
Il fatturato dell'azienda italiana "calcio" supera i sei miliardi. Come giro d'affari è al terzo posto fra i settori capitalistici, ed è quindi più che in grado di assorbire qualsiasi rigurgito moralistico. A chi s'è indignato per l'ennesima tragicommedia, questa volta in onda a Catania, ha risposto Matarrese dicendo che il morto fa parte del sistema. Infatti non se n'è più sentito parlare. Routine. Come dice il SISDE, gli istituti tradizionali di mediazione sociale - dai sindacati alle parrocchie - sono ormai svuotati di ogni funzione. E' dunque naturale che gli stadi, l'unico luogo in cui vi è ancora una parvenza di una socialità qualsiasi, diventino un contenitore dello sfogo e della rabbia e delle frustrazioni quotidiane, specie dei giovani. Qualcuno ha paragonato il fenomeno "ultras" a quello delle banlieues francesi: non è esatto, perché il fenomeno banlieusard ricalca la rete urbana diffusa mentre gli ultrà sono artatamente condotti a sfogare la loro violenza in luoghi deputati. I banlieusards hanno imposto la loro tattica allo Stato; negli stadi e dintorni è lo Stato che impone la sua tattica chiudendo in gabbia i rivoltosi. L'incendio delle banlieues era il segnale di una rivolta aperta, quindi sistemica, universale; le legnate negli stadi sono segnali di rivolta chiusa in sé stessa, quindi patologica, locale. Tuttavia sarebbe sbagliato non vedere un'analogia di fondo, indipendente dalle motivazioni e dall'estetica degli scontri: in queste rivolte si forma sempre una rete impersonale adeguata all'azione, nella quale è impossibile individuare il singolo "colpevole" o il "capo", identificati i quali lo scontro risulterebbe stroncato; e nella quale non si rivendica nulla ma si "esplode" attaccando a testa bassa un "nemico" che provoca di per sé coalizione e coordinamento. Allo Stato-gendarme resta ben poco da fare, come s'è visto in entrambi i casi. Può gridare "tolleranza zero" e "pugno di ferro" contro la feccia umana, ma queste grida non modificano in nulla un processo in evoluzione verso sempre più alti livelli di violenza.
2005: Una vita senza senso
Nel fuoco della lotta spariscono le differenze di genere
Aumenta in Francia la spaccatura che separa i rappresentanti del Capitale dai dannati del capitalismo. L'incendio delle banlieues continua senza più titoloni sui giornali. In questo fenomeno le donne svolgono un ruolo fondamentale. Lo stato di "inferiorità" femminile dovuto alla costituzione economica della società borghese o ai residui di civiltà passate è dunque felicemente superato nella rivolta. Tra i banlieusards non c'è spazio per i dibattiti di genere che tanto appassionano femministe e intellettuali, c'è solo rabbia e azione. La banlieue è il luogo dove maggiormente si concentra il lavoro precario, soprattutto femminile, che somiglia sempre più a quello dei campi di concentramento: produzione a obiettivi parziali in condizioni coatte, assenza totale di sicurezza, orari di lavoro mai inferiori alle dieci ore. Lo Stato aveva usato manganello e carcere mentre pubblicava roboanti propositi di ricostruzione del tessuto nazionale strappato. Ma non è più in grado di concedere nulla, tantomeno ricondurre lo scontro alla legittimità e al riconoscimento sociale. Il passato è irreversibilmente tramontato e gli "ammortizzatori sociali" non funzionano più.
1912:
Socialismo e femminismo
2006:
Banlieue è il mondo (rivolta e riforma)
Lo stato azienda
Al World Economic Forum di Davos, il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa ha spiegato che investire in Italia "può essere un'opportunità prima che gli altri lo scoprano, anche perché il fatto che sia una buona opportunità non è ancora riconosciuto da tutti". A parte il gioco di parole, sembra che oggi la cosa più importante per l'economia sia la capacità di attrarre capitali dal mercato globale. In questa ottica la gestione dello Stato assume gli stessi criteri utilizzati per la quotazione delle aziende in borsa. Di qui la retorica del governo sulle liberalizzazioni e sulle riforme modernizzatrici: non potendo inchiodare al territorio il Capitale nazionale, ormai resosi completamente autonomo rispetto ai suoi stessi possessori, ogni paese cerca di imbellettare le strutture sul territorio nazionale in modo da attrarre flussi internazionali di valore. Ma se tutti fanno così...
2002:
Inflazione dello Stato
2006:
Capitalismo senile e piano mondiale
1950:
Imprese economiche di Pantalone
Morti bianche su sfondo nero
La precarietà e la mancanza di garanzie dei lavoratori "sono le cause principali dell'abnorme frequenza e gravità degli incidenti, anche mortali, sul lavoro". Lo ha detto il Presidente della Repubblica Napolitano alla seconda Conferenza Nazionale su Salute e sicurezza sul lavoro. All'appello lanciato dal Capo dello Stato si è unito il codazzo della sinistra, bisognoso di dare in pasto all'elettorato rifondarolo (e dintorni) una manciata di principii "di sinistra". Resta il dato di fatto contro cui non si fa niente: 1141 vittime ufficiali, sui posti di lavoro, nei primi nove mesi del 2006, oltre a quelle provocate dalle malattie professionali, altre centinaia di decessi riconducibili ad amianto, sostanze tossiche, condizioni disagiate. Il confuso vociare sugli effetti del capitalismo, dai morti ammazzati all'ambiente, non ne intacca minimamente i caratteri e la violenza. Le lacrime di coccodrillo non hanno mai modificato la realtà che le suscita.
2002:
Grandi scioperi, ma per grandi obiettivi
2002:
"Articoli 18" e battaglie tra fazioni borghesi
L'assillo borghese sulla produttività
La necessità di aumentare la produttività è uno dei ritornelli più in voga tra i borghesi. Sembra che tramite l'innovazione tecnologica e organizzativa possano essere risolti tutti i problemi che gravano sul proletariato, come la disoccupazione, la precarietà e i bassi salari. Ma non è necessario saper fare di conto per capire che in una società alle prese con una crisi irreversibile di sovrapproduzione, all'aumento della produttività corrisponde quello della disoccupazione e della miseria. Oggi le economie nazionali sono talmente integrate che non possono svilupparsi tutte insimeme ma solo l'una a spese dell'altra. La concorrenza per l'accaparramento di quote più ampie di mercato si fa mortale. Non sarebbe male ogni tanto ricordare che oggi troppi si danno da fare per aiutare il capitalismo senile a sopravvivere in questa sua infinita crisi, mentre esisterebbe un potenziale enorme per varare già da subito un "programma immediato rivoluzionario" basato sull'indifferenza rispetto ai "costi di produzione" che permetta livelli ottimali e generalizzati di soddisfazione dei bisogni con un drastico taglio del tempo di lavoro.
2000:
Elevare i costi di produzione
2000:
Tempo di lavoro, tempo di vita
2002:
Il lavoro prossimo venturo
Una commedia per svelare "la" commedia
Con il suo ultimo film, "Il grande capo", Von Trier descrive in chiave farsesca il processo spersonalizzante del capitalismo che si autonomizza rispetto agli uomini. Il proprietario di una grande azienda informatica danese nasconde la propria identità, e si finge il semplice portavoce di un fantomatico Grande Capo di Washington sul quale scarica ogni responsabilità. Tutto fila liscio sin quando diviene necessaria la vendita dell'azienda a una più grande, islandese. Che però è disposta a trattare solo con il Grande Capo. La figura misteriosa deve dunque materializzarsi e a questo scopo viene ingaggiato un attore, che naturalmente diventa il capro espiatorio per quei lavoratori che la nuova proprietà intende licenziare. La logica del profitto genera asettici rapporti umani basati sulla falsità generale, vere e proprie psicopatologie aziendali. Quando il Grande Capo (presunto) si accorgerà dei "rischi del mestiere" sarà costretto ad inventare a sua volta l'esistenza di un ulteriore Grande Capo del Grande Capo, su cui riversare responsabilità e colpe. Nella moderna impresa capitalistica il "padrone" è un elemento del tutto superfluo, sostituito com'è da funzionari stipendiati. Lo dicevano già Marx ed Engels, ma non è male ritrovare il concetto rispecchiato in un film.
2001:
Rottura dei limiti d'azienda
2005:
L'autonomizzarsi del Capitale e le sue conseguenze pratiche
Crollo in borsa. A Shanghai?
"Not made in China", scrive The Economist, la rivista principe del fondamentalismo di mercato. In Cina la borsa l'ha fatta ridimensionare il governo con una manovra politica, dato che la bolla si stava mangiando i risparmi dei cinesi meno abbienti. E infatti è bastato l'annuncio che lo Stato avrebbe pesantemente tassato le rendite da capitale speculativo per far cadere i titoli di un buon 9% in un sol colpo. Ma gli investitori stranieri non sono presenti sul mercato borsistico cinese e non hanno perso neppure un dollaro. L'effetto domino sulla caduta delle principali borse estere ha quindi altre cause, che l'evento asiatico ha solo messo in luce. Queste cause sono strutturali e riguardano specificamente la capacità, in tutto l'Occidente, di produrre valore, di far consumare i cittadini e perciò di investire in attività industriali cinesi. The Economist non lo dice, ma è assai probabile che il governo cinese voglia smorzare ogni bolla sul proprio territorio (è in corso anche quella immobiliare) prima che scoppi quella vera, mondiale, a seguito del previsto crack americano (come del resto ha detto pubblicamente persino Greenspan, l'ex capo della Riserva Federale americana, smentendo il falso ottimismo del suo successore Bernanke).
2005: L'autonomizzarsi del Capitale e le sue conseguenze pratiche